Pensieri ed Emozioni su MAAC di Marco Predazzi
Da: Il discorso di Natale di Marco Predazzi, Gallarate, Edizione Dicembre 2013
(pp. 28-29)….... Non era così quando era approdato all'università, volontario carico di domande e assetato di teoria e vi aveva incontrato la scienza critica di docenti sinceramente convinti che il vero banco di prova della nuova cultura gerontologica sarebbero state le realtà territoriali e le politiche locali e non le aule del mondo accademico e congressuale.
Un incontro che gli aveva insegnato che non c'era vera cultura senza condivisione, ricerca senza la possibilità di un riscontro sperimentale, verità teorica che non potesse essere comunicabile agli ultimi degli analfabeti.
M.A. era fantastica in questo. Le sue attuali apparentemente insormontabili difficoltà di comunicazione sembrarono un muro di carta quando per un attimo si riaccese nella mente l'immagine parlante della “Professoressa”.
Nessuno che lui ricordasse aveva un dono della comunicazione così singolare e potente da poter parlare con la stessa naturalezza delle stesse cose e con la stessa comprensibilità indifferentemente ad un'assemblea di baroni togati in un congresso internazionale come ad un gruppo di vecchie signore e giovani volontari in un centro anziani di periferia. In entrambe le situazioni con assoluta semplicità ed empatia, parlando della vita e della morte con professionalità e leggerezza, arrivando a ciascuno senza sconti sulla complessità delle cose, senza compromessi sulle difficoltà dei significati.
Quel ricordo, ancora vivo dopo tanti anni, lo rincuorò un poco.
In fondo era pur sempre l'allievo prediletto di quel mostro sacro della gerontologia che sapeva parlare con la stessa elegante naturalezza indossando senza problemi la toga universitaria e il grembiule della massaia di provincia, facendo giungere con la stessa intensità e la stessa pregnanza ai suoi variegati interlocutori il suo originale messaggio di scienza e di vita.
Certo M.A. era M.A., la compagna del “Maestro”.
1973
EROS E THANATOS (pp. 30-37)
A M.e M. A.: già l'assoluta simmetria delle iniziali dei nomi propri presagiva un destino segnato dalla specularità dei caratteri e dei carismi: una sorta di predestinazione alla complementarietà cui lo scorrere degli anni avrebbe solo portato conferme.
La nobiltà del nome composto appariva in realtà una premessa più che naturale alla serie di titoli accademici che seguivano poi sulla carta intestata e sulle bacheche dell'istituto universitario.
Quel curioso incrocio di nomi propri suscitava negli studenti del primo anno di medicina l'idea di una diade mitologica allorché sfogliavano nelle sale della piccola biblioteca le decine e decine di pubblicazioni con i loro nomi, evocando immagini inconsce in realtà forse più attinenti ai miti delle loro profane frequentazioni musicali che non ai sacri numidella medicina. Più che ai coniugi Curie e alle venerabili accoppiate della patologia medica il ripetersi quasi ossessivo di quei due nomi nella letteratura specialistica suggeriva infatti inconsce assonanze con coppie storiche di tutt'altra mitologia. Binomi tipo Lennon - McCartney o Mogol - Battisti di cui sembravano condividere a quei tempi il crisma dell'indissolubilità e, appunto, di un'assoluta simmetrica complementarietà.
Nulla di goliardico o di irriguardoso, piuttosto l'incarnazione contemporanea dell'androgino platonico, in una diade personale ed accademica che ha insegnato una nuova cultura gerontologica ad un'intera generazione.
Lui, professore atipico e medico non praticante. toccato dal demone di un'intelligenza trasversa e creativa, geniale, provocatore, caotico.
Lei, educatrice ed insegnante prima di diventare ricercatrice, con il carisma della metodicità e della perseveranza, con un dono naturale per le comunicazioni e le relazioni.
Una coppia polare: genio e metodologia, in più intuizione e perseveranza, spregiudicatezza e misura. Un'unica personalità straordinaria in due persone, insieme nella ricerca, unite sul terreno delle operazioni e probabilmente anche nella vita.
Erano i Bonnie and Clyde della gerontologia italiana: una coppia di guastatori con il sorriso sulle labbra e una dialettica feroce nelle tasche che seminava il panico nella togata comunità scientifica delle baronie geriatriche del tempo, rendendosi protagonisti di episodi emblematici che nell'emergente mondo del volontariato erano subito diventati leggenda.
Come quando il "Ptofessore" scelse provocatoriamente di cedere lo spazio prestigioso e ambito del suo intervento all'annuale congresso della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria alla testimonianza di un gruopo di volontari impegnati in una realtà di marginalità socio-culturale dell'hinterland milanese, lasciando attonito e indignato un uditorio paludato di clinici illustri ed ottusi.
O come in quell'occasione congressuale in cui si era sentito in dovere di mettere in campo la sua dialettica delle occasioni migliori, spietata e tagliente quanto garbata ed ironica, per dimostrare all'interessato, un potente barone della geriatria nazionale che si era permesso di ironizzare sulla presenza di animatori volontari nel reparto geriatrico, e all'uditorio tutto, che l'azione di quei giovani operatori aveva restituito piu anziani alla vita di quanti ne avesse resi il primariato del pomposo oratore in dieci anni.
Il tutto lasciando come sempre M.A. con il suo amabile carisma relazionale a rimettere insieme i cocci e talvolta le vere e proprie macerie che le sue devastanti esternazioni lasciavano sempre nel panorama stagnante e formale della realtà accademica istituzionale del tempo.
L'università dei primi anni settanta più che una fucina di idee appariva un guazzabuglio di contraddizioni e incongruenze, l'inevitabile specchio di una realtà sociale e culturale in cui fermenti e intuizioni innovative cercavano di farsi strada fra le imponenti rovine di una cultura accademica obsoleta e già condannata dai tempi, eppure ancora dura a cedere il passo e passare la mano.
Tra l'orgoglio tutto proletario e un po' provinciale di essere approdato all'università e le urgenze di una mai interrotta militanza sociale anche la sua minima personale avventura si misurava con fantasmi e illusioni di quel tempo indecifrabile.
Milano era per lui il centro di un antico e irrisolto conflitto, la scenografia perfetta di un rapporto di amore e odio che lo legava da sempre, in un'alternanza di attrazione e repulsione, al cuore di ghiaccio di quella città.
Milano era per lui bambino il Minotauro che inghiottiva prima ancora dell'alba la figura arnata del padre per restituirgliela a tarda sera dopo una giornata di lavoro che poteva solo immaginare. Un luogo oscuro come le sue partenze e gli arrivi, misterioso come la dura disciplina del "dovere" e del "sacrificio" come sentiva dire allora.
Ma Milano era anche la città dei grandi, degli altissimi palazzi e delle strade enormi, del treno e della Rinascente a Natale, in una parola era il "mondo", quel mondo che atterrisce i piccoli rintanati nel nido eppure li attrae inevitabilmente per il primo volo.
L'approdo in università, in quella Milano dove ancora lavorava suo padre e che in fondo per lui era sempre rimasta il mondo, aveva segnato la prima vera iniziazione all'età adulta. Una liturgia in cui orgoglio e sofferenza si mescolavano come in ogni rito di passaggio.
Quel mattino, tuttavia, anche l'impassibile Milano sembrava offrire un volto diverso. Forse era per l'aria di maggio che fiorisce inopinatamente quartieri dormitorio e discariche di periferia, contaminando con il suo sconveniente alito vitale le aule di anatomia e le corsie di ospedale delle loro prime frequentazioni da studenti.
O forse semplicemente perché quella mattina le grigie mura dell'università erano solo il punto di ritrovo per quella che concordemente, e probabilmente a ragione, docenti e studenti consideravano la nuova frontiera della cultura accademica: la didattica sul territorio.
Più prosaicamente si trattava di un'escursione da tempo programmata per una visita guidata a quel primo modello italiano di “assistenza domiciliare”, un concetto che in quegli anni aveva infìammato di aspettative e polemiche sedi congressuaÌi ed aule didattiche, prima di finire ingloriosamente umiliato e delegittimato nelle mani di improvvidi amministratori locali dieci anni dopo.
Lo sparuto gruppo di studenti, i fedelissimi del corso, era guidato in quell'avventura dai due docenti titolari, che erano stati rispettivamente padri e madri morali di quel progetto finalmente realizzato “culturally correct” in quel di Santo Stefano Lodigiano nella bassa milanese.
Agli studenti sbarcati dalla metropoli, il paese delle meraviglie era apparso una specie di Rio Bo di scolastica memoria: poche case affacciate sul corso provinciale ed una campagna intorno apparentemente inconsapevole di essere al centro di una rivoluzione culturale.
Dopo gli incontri di rito con le autorità locali maestri ed allievi poterono visitare direttamente le sobrie case comunali teatro della sperimentazione ed incontrare gli anziani, utenti e protagonisti della sperimentazione .
A lui la sorte regalò l'incontro con un'anziana arzilla e apparentemete molto lucida che rispondendo a tono ad ogni domanda, tuttavia concludeva ogni frase con la richiesta di essere riportata a casa. Una richiesta ferma e reiterata, nonostante una sempre più imbarazzata assistente sociale insistesse nel ricordarle che in quella casa in cui si trovava era vissuta da sempre e forse ci era anche nata.
La vecchia non voleva sentire ragioni e perseverava nella sua richiesta con un'insistenza tanto caparbia quanto ingiustificata che lasciava il giovane studente di medicina nel totale imbarazzo di un significato non decodificabile.
Un senso che molto più tardi, dopo vent'anni di professione e dieci trascorsi in un Dipartimento Alzheimer, gli divenne chiaro.
La casa-fantasma che agita i sogni e le giornate dei vecchi è il senso rubato di una vita che fugge dalle membra e scivola da una mente smarrita.
E' il bisogno di una casa del padre che non esiste, di un porto di attracco non registrato sulle carte nautiche di una traversata senza destinazione, l'identità di sé smarrita e dispersa: quella è la casa che cerchiamo senza trovare.
Trent'anni dopo in una pubblicazione avrebbe scritto “I dementi sono anime nude, viaggiatori del tempo privati di una destinazione”, realizzando nel momento stesso in cui scriveva queste cose dei malati di Alzheimer che in realtà stava parlando di sé e che la demenza non è che una metafora della vita e di quel bisogno inappagato che anima il nostro perpetuo wandering alla ricerca di un inafferrabile significato.
Forse fu proprio questa disperata ricerca a spingere A.M., nel frattempo divinuto "collega", non più professore, ma ancora di più “maestro” a. dare una svolta drammaticamente radicale alla propria vita personale e professionale. Con una determinazione apparentemente improvvsa ed irrevocabile buttò a mare in un tempo famiglia e carriera, e con queste M.A. la compagna devota di tanti anni passati sulle comunque scomode barricate della cultura e dell'insegnamento.
Amò quella giovane donna, con un nome da favola, Doralice, che già sembrava appartenere ad un altro universo, e da lei ebbe subito un figlio; si ritirò nell'eremo accogliente di un volontariato di provincia che aveva cresciuto ed amato riemergendone solo saltuariamente per qualche orgoglioso ruggito nel consiglio di Facoltà e in un tempo crudelmente breve superati da poco i cinquanta anni, morì. Un male pienamente rispettoso delle regole: un cancro del fumatore, come da protocollo clinico, alla laringe, nemesi perfetta da tragedia greca per un uomo che della parola aveva fatto uno strumento, una vocazione, un'arte.
A tutto questo M.A. non soprvvisse veramente. Per la verità entrambi non sopravvissero a se stessi dopo la loro separazione, non lasciando eredi né una scuola vera e propria se non nel ricordo di pochi affezionati allievi, pur avendo insegnato i segreti di una nuova gerontologia a mezza Italia ed anche oltre.
Mancarono immensamente alla gerontologia, ma non ai colleghi permanentemente in carriera e men che meno ai mediocri che la loro tagliente intelligenza delle cose aveva involontariamente umiliato.
M.A. continuò da sola, lottando con se stessa e con i ncordi con un certo successo fino a quando il destino come dono dei sessant'anni le regalò un ictus devastante ed irreparabile.
Aveva da poco pubblicato un suo importante ed apprezzato saggio congressuale "Eros e Thanatos", quasi un presagio autobiografico di un destino contradditorio. prima generoso e poi terribilmente crudele.
Oggi vive nella sua casa di Milano, ridondante di cimeli e ricordi di una vita ricca di avventure e interessi, assistita da una badante moldava, ma M.A., quella M.A. che aveva conosciuto ed amato, morì quel giorno stesso del ricovero d'urgenza in ospedale.
Vincendo la sua personale resistenza a rinnovare il dolore muto di quel rapporto di figliolanza culturale (era stata la sua relatrice di tesi e la madrina delle sue prime importanti realizzazioni sul territorio) interrotta così bruscamente e cedendo alle richieste esplicite della Professoressa, un giorno di maggio, il mese dei loro compleanni, si presentò in quella casa che aveva tanto frequentato da studente, con un inquieto sorriso nel cuore e un bouquet di anemoni colorati tra le mani.
M.A. ascoltò senza porre domande racconti, rivelazioni, pettegolezzi, piccoli e grandi progetti. Un campionario di idee che in altri tempi l'avrebbe fatta balzare sulla sedia sortì l'unico effetto di evocare quella frase, prevedibile e stereotipa, che già aveva messo in preventivo di subire per l'ennesima volta: "dietro a un grande uomo c'è sempre una grande donna!" cavallo di battaglia di un complimento che in realtà era una celebrazione autobiografica.
Si inventò una scusa cortese per andarsene. Saluti sinceramente affettuosi e un addio che poteva essere questa volta forse dvvero l'ultimo.
Solo quando fu sulla porta M.A. parve riaversi dall'apatica impassibilità di quell'incontro: l'ombra dell'antico sorriso, complice e sornione, si disegnò per un attimo sulle labbra che lo invitavano a raggiungerla al letto.
Con un filo di voce all'orecchio per non farsi sentire dalla badante moldava, gli regalò in un soffio il suo segreto: “A.M. , il Maestro, viene a trovarmi nel sonno quasi ogni notte e proprio questa notte siamo partiti per la nostra casa.”
Forse A.M. e M.A. la loro casa-fantasma ora l'avevano trovata davvero. (…...)
MARCO PREDAZZI