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                                                                                          L’arte è una vocazione a cui molti rispondono senza essere chiamati.                                                                                                                                             M.S.

     La serie di foto che seguono rappresentano un saggio dell’ hobby che da tempo coltivo e che riempie qualche ora della giornata e molte mie vuote serate. Sono quadri che in parte ho donato a parenti ed amici prodighi di elogi (non sono stati questi a rendermi generoso) e ai quali, anche se non posso più osservarne gli immancabili difetti, mi sento sempre legato.

Ma voglio accennare ai miei esordi e innanzitutto fare una precisazione essenziale.Frequentando alcune mostre, osservai che forse non sarebbe stato difficile riprodurre opere di pittori già affermati. Questo proposito si insinuò nella mia mente come una sfida e iniziai con alcuni tentativi sulla carta e sul legno. All’inizio i risultati non furono molto soddisfacenti e inoltre capii che in tal modo non avrei mai acquistato una “personalità artistica”. Ma la notorietà non mi interessava: intanto avrei potuto acquisire una certa tecnica nel trattamento dei colori, e questo non era poco.Dopo alcuni incerti risultati mi accorsi che potevo progredire. Sceglievo soggetti facili possibilmente di un certo effetto e di conseguenza le esortazioni a seguitare su questa strada arrivarono da più parti.E così ho seguitato cimentandomi con soggetti sempre più importanti e queste opere (tutte dipinte ad olio su tela) sono il risultato. Ovviamente ho dovuto così rinunciare alla qualifica di “pittore” ripiegando, per gli amici più maliziosi, nel titolo di “mancato falsario”.Ne sono consapevole. Non sono un artista, al massimo sarò diventato un buon artigiano!

 

La mia “opera prima” 

Durante il periodo della guerra ci trovavamo a Foligno e debbo dire che in materia di riscaldamento, in casa nostra fummo abbastanza fortunati. Lo stabilimento della “Macchi” (lo stabilimento dove mio padre lavorava, che costruiva aerei per conto dello Stato), concedeva ai dipendenti che ne facevano richiesta, di portar fuori della a proprie spese gli ingombranti trucioli residuati del reparto di falegnameria. Erano ottimi da utilizzare sul focolare anche perché vi erano frammischiati numerosi pezzi di legno di scarto, che mantenevano più a lungo la brace. Il problema del riscaldamento potevamo dirlo risolto.

Fu da quegli scarti che emerse la mia “acerba vocazione”.

Debbo premettere che presso l’associazione San Carlo che frequentavo, tra le tante attività di contorno che si svolgevano, proprio in quel periodo era prevista una gara di pittura naturalmente distinta tra aspiranti ed effettivi (due sezioni divise per classi di età: io appartenevo alla prima). A me è sempre piaciuto disegnare e avevo deciso senz’altro di partecipare. Naturalmente senza pretese perché sapevo che tra i miei coetanei (Cavallari era bravissimo) qualcuno che se la cavava abbastanza bene. Senza parlare poi degli effettivi tra i quali Fratta (non so quale tra i due fratelli) spiccava su tutti. Sicuramente lui  frequentava una scuola d’arte, avevo già visto alcuni suoi dipinti e ne ero rimasto incantato.

Avevo deciso, per quanto potevo, di fare qualcosa di importante. Sulla vetrina della cartoleria Luna (la solita!) avevo adocchiato da tempo una piccola tavolozza di cartone con due pennellini, sulla quale erano incollate delle pasticche di colore ad acquarello che avrebbero fatto proprio al caso mio.

Con alcuni (sudati) risparmi, rimediati sicuramente dal Sor Ettore il nostro pensionante e mio indimenticabile benefattore (che Dio l’abbia in gloria tra uno stuolo di cherubini! A proposito, ma esiste sant’Ettore?…), acquistai quei colori e, consapevole di essere alle prime armi, iniziai subito con delle prove.

Ma sulla carta i risultati non furono soddisfacenti. A causa dell’umidità il foglio si deformava e tutto veniva compromesso. Provai con il cartone ma anche qui l’esito era quasi lo stesso. Fui preso dalla sfiducia. Tra pochi giorni al San Carlo si chiudevano i termini per la consegna dei lavori ed i supporti che avevo provato non mi convincevano; non riuscivo a decidermi ed iniziare.

Ad un certo punto mi accorsi che tra gli scarti di legno mischiati tra quei trucioli destinati al fuoco, mio padre aveva trovato un bel pezzo di compensato che subito pensò di utilizzare per farne una ventola, per avviare l’accensione dei fornelli a carbone (generalmente erano tutte di penne d’oca). Inchiodò immediatamente quel compensato su un piccolo manico di legno e mise subito l’attrezzo un funzione.

Era talmente entusiasta del risultato raggiunto che non cessava di vantarsi per la geniale idea che aveva avuto. In effetti quella ventola rispondeva bene allo scopo, ma io mi convinsi che quel legno poteva avere una destinazione molto più nobile. Potevo utilizzarlo per il mio dipinto; era proprio sprecato per quella volgare funzione!

Avrei potuto chiedere a mio padre quel pezzo di compensato, ma soddisfatto com’era  di quell’impiego casalingo e dubitando un poco della sua fiducia nei miei mezzi ero sicuro di un rifiuto. Si sa che da quando mondo è mondo l’arte, quella vera, non è stata mai capita (noi artisti siam mal visti!). Ma un giorno mi decisi; senza pensarci troppo presi le tenaglie, recuperai quel legno e lo nascosi intanto in un posto sicuro. Naturalmente buttai il manico, non volevo lasciare tracce.

In casa si notò subito la sparizione della preziosa ventola. Mio padre, imprecando a destra e a manca, non cessava mai di cercarla e non riusciva a capacitarsi per come era sparita. Nessun sospetto lo sfiorava e debbo confessare che per me la situazione oltre che rischiosa, era oltremodo divertente.

Il tempo stringeva e dovevo mettermi al lavoro. Intanto per mimetizzare la refurtiva riquadrai ben bene il compensato; solo che per quanto facessi, non riuscivo a mascherare i fori dei chiodi. Poi per non essere disturbato (ma soprattutto scoperto!) attrezzai il mio atelier nella piccola cantina ben illuminata, dove sentivo che l’ispirazione riusciva facilmente a raggiungermi… anche se mi trovavo al  pianoterra.

Debbo dire che il dipinto stava venendo bene e dopo qualche giorno completai l’opera. La scena raffigurava un paesaggio lacustre (o marino?) visto dalla costa sopraelevata. I colori purtroppo erano molto vivi e uniformi, forse perchè la qualità del pigmento non consentiva pastose sfumature. Il tutto, che oggi direi molto naïf, denunciava naturalmente l’opera di un principiante, ma si vedeva che se non il talento, almeno l’impegno e la passione non erano mancati.

Vi erano solo un paio di stonature. La prima erano quei benedetti fori del manico che non ero riuscito a nascondere, l’altra era più grave. Sul lato destro, l'opera era incompleta e la mancanza di un pezzo di cielo lasciava scoperte le venature del legno. Ero rimasto senza il bianco (me ne era servito molto per schiarire), ma solo per quella piccola parte non potevo permettermi di ricomprare tutta la serie dei colori. Il risultato non era perfetto, ma  poteva andare!

Una sera mi decisi a presentarlo alla famiglia riunita, presente anche del nostro pensionante (il sor Ettore, il mio mecenate). Questi si lasciò andare in lodi sperticate, mentre mio padre sempre avaro di encomi (e non solo!) guardava in silenzio. A un certo punto disse:

- Va bene, ma con questo bel compensato ci si poteva fare qualche altra cosa! Ma…come mai questi fori?

Immaginatevi al mio posto! Sentivo che le gambe, proprio quelle che in quel momento mi erano indispensabili per scappare, mi si stavano piegando. Istintivamente coprii i fori con la mano e, non so come, riuscii a portare l’attenzione sulle cielo che era rimasto incompleto e… tutto fortunatamente andò liscio.   

Non ho mai saputo se mio padre abbia intuito l’arcano e, senza darla da vedere sia rimasto in silenzio anche per la (provvidenziale) presenza del pensionante. Se così è stato posso ancora oggi ringraziarlo.

Feci comunque in tempo a consegnare quel lavoro per la “Mostra di Pittura al San Carlo” aperta naturalmente anche a tutti coloro che volevano ammirare la nostra arte. Il mio quadretto era lì, e ora che lo vedevo esposto in mezzo agli altri, mi sembrava che non facesse più la figura dei giorni scorsi. Senza farmi notare guardavo di sottecchi quelli che vi passavano davanti ma innanzi al mio cielo poca gente rimaneva incantata.

Ma la storia di quel dipinto, una volta riportato a casa, non finì lì. Un mio zio pochi giorni dopo lo notò e col permesso di mio padre, così com’era lo prese e lo appese in bella mostra in camera sua dove ogni tanto io lo rivedevo con piacere. Molti anni dopo l’ho tanto ricercato ma non l’ho più trovato. Se fosse tornato nelle mie mani sicuramente oggi non avrebbe ancora nessun valore, ma in seguito, come “opera prima”, e per la complessa storia della sua nascita, sarebbe anche potuto finire a Londra, nella galleria di Sotheby’s… E un giorno, chissà?

Perchè è risaputo! I grandi artisti acquistano fama solo dopo la loro morte!

(Mi raccomando sto scherzando, non prendetemi sul serio).


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