1. «Chi è l’uomo perché te ne curi?»
«Chi è l’uomo perché te ne curi?». È la domanda che emerge dal salmo 8 e riassume la questione più decisiva. Al fondo dell’anima troviamo, infatti, questa domanda: chi sono? Chi ha la fede la domanda la pone a Dio, chi non è credente la pone a se stesso. L’interrogativo si può soffocare, ma non muore, si può far finta di non sentirlo, fuggire da esso, ma rimane con noi: inesorabile. Possiamo passare in rassegna tutto il positivo della nostra personalità e del nostro esistere – successi, sentimenti nobili, slanci e anche eroismi – ma alla fine la domanda resta, perché ci accorgiamo che l’elenco delle luci non riesce a eliminare le oscurità che sono altrettanto vere e implacabili. Così i Padri conciliari si sono espressi: «In faccia alla morte l'enigma della condizione umana raggiunge il culmine» (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 18). L’uomo ha un nome, una casa, una patria, una famiglia, degli amici… ma avverte che tutto questo – pur importante – non gli basta per sapere chi è. Sente che manca qualcosa, perché l’insieme delle informazioni su di lui non lo definiscono, non sono il senso pieno che cerca: gli elementi particolari hanno bisogno di un insieme coerente. Se non trova risposta, l’uomo resta come estraneo a se stesso, separato, gli sembra di convivere con uno sconosciuto. Ciò che manca abita nella profondità del cuore: esso vainteso in senso biblico, come il centro più “centrale” in cui l’uomo si raccoglie e si supera allo stesso tempo. Per scendere a questa profondità senza perdersi nel buio, presi da pericolosi fantasmi anziché trovare la luce, ci vuole un po’ di silenzio e di solitudine: la voce del cuore, infatti, solitamente non arriva come in mezzo ad una tempesta che mette a repentaglio la vita, più spesso è «il sussurro di una brezza leggera» (1Re 19,12), ed è facile trascurarla. Un segno misericordioso di questa voce è il velo di malinconia che a volte attraversa l’anima, una specie di sottile insoddisfazione, come se mancasse sempre qualcosa. Non è la mancanza di qualcosa di materiale, un desiderio ingordo di cose: si sa per esperienza che l’avere di più non riempie la vita. La può, in certi casi, migliorare ma non riempire.
2. Un cammino verso l’unità
Ma vi è anche un’altra esperienza che non risparmia nessuno: l’uomo non solo si sente incompiuto in sé, ma anche ferito. È l’esperienza del male: si tratta del male fisico a cui tutti sono sottoposti, ma anche del male morale di fronte al quale l’uomo sente di essere impari, e la buona volontà troppo debole. Sono ancora i Padri conciliari che descrivono la situazione: «L’uomo non solo si affligge al pensiero dell’avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre» (ib). La storia del grande pensiero è attraversata da interrogativi che non riguardano il “come” funzionino le cose, il mondo, l’uomo, ma il “perché” di tutto ciò che esiste. Si è fatta strada una distinzione per nulla artificiosa: quella tra i mali del mondo (mala mundi) che in certa misura è possibile, giusto e doveroso affrontare, e il male del mondo (malum mundi), che sta all’origine e che permette il male nelle sue innumerevoli forme. L’umanità si è sentita sempre sovrastata di fronte all’esperienza del male che sembra dominare il mondo e noi stessi: allora l’uomo getta la maschera, si sente impotente, s’interroga sulla sua più radicale identità, sente di non poter contare sulle sue sole forze, cerca una forza fuori di sé che non solo voglia il bene che noi stessi vogliamo, ma anche che lo possegga e che possa comunicare a noi la forza del bene. Se la coscienza mantiene una sufficiente lucidità, vede che il male fisico e morale disgrega il vivere insieme, il mondo spirituale, separa non solo gli esseri tra loro ma anche l’essere in se stesso, soprattutto la persona che entra in un’interiore discordia. Il rischio diffuso è quello della scissione intima tra razionalità, volontà, mondo degli affetti e delle emozioni, e vita spirituale. La vita allora si aliena, perché di fatto si riduce a punti separati gli uni dagli altri: si potrebbe dire che la persona diventa le sue pulsioni e le sue emozioni. Progressivamente, domina ciò che soddisfa nell’immediato a prescindere dall’insieme della persona che – nella sua complessità – è chiamata ad una gerarchia tra le sue parti, ad una unità viva e organica. Il male porta alla alienazione e alladiscordia; in questo sta il non-senso, l’irrazionalità del mondo. Il senso delle cose è, invece, il collegamento con tutto: non per nulla si parla di uni-verso, per cui ogni cosa “guarda” verso un centro a cui è collegata e che collega. Il caos, il disordine, la discordia – a qualunque livello si pongano – sono non-senso, rendono la realtà caotica e irrazionale, assurda. L’uomo – nonostante tutto – avverte che la propria casa non è la divisione ma l’unione, un’unione che non è imposta, ma che nasce dall’interno e che si chiama comunione degli spiriti. La pretesa di voler affermare se stessi nella separatezza è insensata, e percorrere la via dell’isolamento è andare contro natura,poiché ognuno vive grazie all’altro, è sempre più di se stesso, proviene da una storia. La verità dell’essere non sta nella separazione e nella discordia, ma nel contrario, ovvero nella unione grata con tutti e con tutto.
3. La creaturalità come nostalgia
«La creatura senza il Creatore svanisce» (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 36), così i Padri conciliari confermano il rapporto tra Dio e l’uomo: non è innanzitutto un’unione di tipo morale e neppure riguarda solamente la possibilità di esistere, ma concerne ciò che è, la sua identità, il suo volto, il senso di sé e quindi il senso della sua esistenza: il “perché”. Qui ritorna la domanda di partenza: «Che cosa è mai l'uomo?» (Sal 8). Una prima, essenziale risposta riguarda il “da dove” e il “verso dove” vado. Posta tra l’Origine e il Fine, la nostra esistenza si concepisce come cammino per arrivare alla Meta. A questo punto si impone una considerazione che è piuttosto una constatazione: senza un “perché” che buchi la porta del tempo e spalanchi l’eternità, il “come” arrivarci è fragile e insufficiente. Ritorna l’esperienza della caducità universale, caducità che rende tutto fragile e che depaupera ogni bene anche l’amore, l’amicizia, la procreazione, la gioia, e svuota alla radice il senso della dedizione, del sacrificio, dell’onestà… Se tutto ha fine ed è destinato al nulla, allora esiste solo il torrente della materia e tutto il resto è sogno e illusione. Fuori dall’eternità rimane solo l’amara e provocatoria esortazione di San Paolo: «Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» (1Cor 15,32, cfr anche Is 22,13). Ma la materia è un cattivo infinito, perché provoca la concupiscenza, che è cercare il godimento materiale per se stesso, come fine. Se tutto è materia senza futuro, l’uomo è portato a consegnarsi pienamente a questo desiderio, alla ricerca compulsiva della soddisfazione immediata, con la perdita della padronanza di sé, e conuna cupidigia insaziabile e crescente che rivela una vacuità esistenziale incolmabile. Si profila così il naufragio nella malattia di vivere, cioè nel non senso e nella noia.
Come già detto, il cuore dell’uomo è segnato anche da una nostalgia che è grazia, una ferita che non si può rimarginare sulla terra: ci ricorda che solamente la pienezza e l’eterno possonoriempire il cuore e la vita perché siamo fatti per Dio. Questo paradosso metafisico ed esistenziale – miscuglio di tempo e di eterno – testimonia che l’uomo è un essere di frontiera, una creatura di confine, posta sulla spiaggia tra il tempo e l’eternità, impastata di terra e di cielo. Il desiderio di Assoluto non è una sovrastruttura ideologica, ma è costitutivo del suo essere, e diventa invocazione di quella pienezza che non possiamo darci con i nostri mezzi, ma solo possiamo accogliere come dono dall’Alto. Ricorda che siamo fatti per Lui e che niente – meno di Lui – può appagarci: Egli è la nostra Origine, il nostro Destino. Specialmente nella liturgia l’uomo è ricondotto a questa verità, e per tale ragione il culto genera la cultura che esprime l’autocomprensione dell’uomo. Per lo stesso motivo, venendo meno il culto, cambia il modo di vivere.
Dimenticare di essere creature è la premessa di ogni isolamento: l’individuo non sa più chiè, da dove viene, se ha un grembo e una casa, se ha un futuro per cui valga la pena di spendere se stesso, per cui lottare e – se necessario – morire. Anche questo fa parte della domanda radicale su noi stessi, sul nostro volto: conoscere se esiste qualcosa per cui valga la pena di vivere, oppure ogni scelta, obiettivo, metodo, si equivalgono. Ma se tutto è equivalente, allora nulla vale, tutto entra nell’indifferenza. In ogni epoca gli uomini hanno cercato non solo di vivere ma anche le ragioni per vivere, e molto spesso anime grandi – e spesso nascoste – hanno dato la vita per non perdere le ragioni della vita, come ricorda Giovenale: “Considera sommo crimine preferire la propria sopravvivenza all’onore, e perdere, per la vita, le ragioni del vivere”. Viene alla memoria quanto scriveva A. Camus con rude lucidità: «Vi è solamente un problema veramente serio (…): giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta» (A. Camus, Il mito di Sisifo, Milano 1947,7).
4. L’individualismo come isolamento
La cultura individualista si infiltra in ogni ambiente ed età, è presente fin dalle origini nel libro della Genesi. È la perenne tentazione di dividere la creatura dal Creatore: la messa in dubbiodella parola di Dio, l’esaltazione dell’individuo fino a fargli credere di essere norma della verità, larappresentazione di Dio come antagonista, geloso della libertà umana. La pretesa illusoria di poter costruire una società senza Trascendenza, una terra senza cielo come una nuova torre di Babele, attraversa la storia del mondo con esiti cangianti. Staccare la creatura dal Creatore porta alla tristezza del tramonto, come anticipò Nietzsche annunciando la “morte di Dio”: «Siamo stati noi a ucciderlo (…) Che mai facemmo a sciogliere la terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? (…) Non è il nostro un eterno precipitare? All’indietro, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?» (F. Nietzsche, La gaia scienza, libro II, n.175). E, ragionando sul significato del nichilismo, il filosofo tedesco risponde che «i valori supremi perdono valore» (Frammenti postumi, 1887-1888, in Opere, 1971, vol. III). Il nichilismo porta a una visione individualista della vita, dove si fa spazio l’io anziché il noi, che non schiaccia ma arricchisce ogni individuo. I legami sono avvertiti come mortificazione della propria autonomia intesa come arbitrio: i rapporti vengono limitati allo stretto necessario e selezionati in modo tale che non si scontrino con la propria indipendenza, che richiedano il minimo di fatica, sacrificio, stabilità, e che siano sempre gratificanti. Anche in famiglia, nelle amicizie, nel lavoro, nella società e nella Chiesa, i legami sono a volte avvertiti come un peso. Pure verso i bisognosi come i bambini, i concepiti, gli anziani e i malati, la cultura individualista prova un istintivo fastidio, perché le ali più deboli del corpo sociale richiedono di essere protette e accompagnate con maggiore impegno. Le fragilità e i limiti umani sono considerati una sventura,perché la vita viene giudicata con il peso economico e dell’efficienza, come se ogni vita umana non avesse un valore indisponibile in quanto dono di Dio, dono di cui nessuno può disporre in modo assoluto, neppure il singolo di se stesso. E la qualità della vita viene misurata con il criterio dell’autonomia e della produzione anziché della relazione; dell’autonomia individuale anziché “dell’insieme”, dove la benevolenza operosa è regola scritta nei cuori, e dove si portano i pesi gli uni degli altri (cfr Gal 6,2).
Ma questa cultura, che vuole imporsi come “pensiero unico”, quali frutti genera? Il secolarismo, che è vivere come se Dio non ci fosse, ha reso l’uomo più felice? Le società forse sono più solidali e umane? Martin Heidegger, nel secolo scorso, affermava che «nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l’uomo» (Kant e il problema della metafisica, Roma-Bari 2004, 181)! L’albero si giudica dai frutti. Il primo compito dell’ intelligenza è aderire alla realtà così com’è, senza precomprensioni ideologiche, riconoscere i progressi come i punti critici, porre un giudizio: allora si potrà intravvedere un futuro migliore.
5.Un simbolo europeo
A partire da queste riflessioni di antropologia generale, volgo ora l’attenzione alla loro portata, per quanto concerne l’uomo europeo. Un tragico evento occorso, il 15 aprile di quest’anno, introduce nel nostro percorso. Si tratta di un fatto che ha lasciato attonito non solo la Francia o l’Europa, ma il mondo intero: il rogo della Cattedrale di Parigi. I segni fanno parte della nostra umanità, ma a volte sono guardati con indifferenza, se non addirittura con fastidio. Quando però improvvisamente vengono meno, allora la coscienza si scuote, sente che qualcosa di profondo è stato ferito, che un nervo è rimasto scoperto e lo resterà sempre, poiché i simboli religiosi – ancorché disattesi nella pratica – sono lì a ricordare chi siamo e dove stiamo andando. Di fronte alla cattedrale in fiamme, il mondo si è fermato incredulo. Il Medioevo l’aveva pensata – Notre-Dame –, in tutta la sua ardita bellezza, radicata nella terra e svettante verso il cielo, testimonianza e richiamo alla verità dello spirito, sintesi dell’Europa che, oggi bruciata dal fuoco, in realtà è povera del fuoco decisivo del Vangelo.
Forse, nel cuore di molti si è imposta una domanda: può il Cristianesimo, che ha concepito tanta bellezza, essere nemico dell’uomo? Potrebbe, guardando a Cristo, non avere a cuore l’uomo, non essere lievito di civiltà, di dignità, di pace? A chi ha chiesto: “Che cosa è bruciato nel rogo oltre la cattedrale”, è venuto spontaneo rispondere: “Forse è bruciata un po’ di indifferenza”, l’indifferenza verso ciò che siamo, a ciò che l’Europa è dalle sue origini. Il significato più vero di ciò che è accaduto è rivelato dalle tante persone che, dinanzi alla cattedrale in fiamme, si sono inginocchiate a pregare e a cantare il Regina Coeli: parole che hanno attraversato la storia come un distillato di fede, evocazione sintetica di un vivere insieme più umile e fraterno, più realista e coeso. Vengono alla mente le parole argute di Chesterton: “Il cristianesimo è stato dichiarato morto infinite volte. Ma alla fine è sempre risorto, perché è fondato sulla fede in un Dio che conosce bene la strada per uscire dalla tomba”!
6.La Chiesa crede nell’Europa
I Vescovi europei ne sono convinti, e lo hanno frequentemente affermato. I Papi recenti hanno ripetutamente incoraggiato questo ideale, e il Santo Padre Francesco è intervenuto in diverse occasioni per sostenere il cammino di integrazione dei popoli europei: l’Europa “ha una forza, una cultura, una storia che non si può sprecare” e che in gran parte è ancora da scrivere (Conferenza stampa nel volo dal Messico, 17.2.2016), ed ha auspicato “uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente” (Papa Francesco, Conferimento del Premio Carlo Magno, 16.5.2016). L’Europa “ha smesso di credere in se stessa” scrive Patocka, uno dei grandi pensatori del secolo scorso nella Repubblica Ceca (Patocka, Platone e l’Europa, Vita e Pensiero 1997, pag.181). Sì, deve umilmente volersi più bene.
Lo ripetiamo, facendo nostre le parole di San Paolo VI a conclusione del Concilio: “La religione del Dio che si è fatto Uomo si è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un’ anatema? Poteva essere, ma non è avvenuto. L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (…) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno. Voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo cultori dell’uomo” (Discorso di conclusione del Concilio Vaticano II, 7.12.1965). In nome di questa cordiale simpatia, auguriamo all’Europa un tempo salutare di “crisi”: la crisi, infatti, deve essere un passaggio benefico, come tempo di riflessione su se stessa, sul suo cammino, sul suo fondamento e il suo destino, sul suo futuro.
7.Una via necessaria
L’occidente sembra attraversato da uno smarrimento identitario, dall’insicurezza, da una certa sfiducia in se stesso e in un futuro che appare liquido. Tanto che Baumann in un suo saggio - “Retropia” - segnala, come conseguenza della diffusa percezione, la tendenza non a guardare avanti, ad una utopia che l’attende, ma a guardare indietro, ad una sorta di utopia all’indietro, come alla ricerca di un passato rassicurante. Condivido questa lettura, ma ne do una interpretazione diversa. Mi sembra, infatti, che prendere in considerazione il passato non esprima necessariamente – come sostiene Baumann – un ripiegamento e un rifugio, ma il desiderio di recuperare e di riproporre punti di riferimento che una certa cultura tende a deformare e a confinare, come la famiglia, il lavoro, la scuola, la propria terra, le tradizioni, il vivere insieme, la politica, il senso religioso e la religione: in una parola i valori spirituali e morali! Mollare gli ormeggi in nome di una autonomia senza legami, non fa diventare “cittadini del mondo”, ma vagabondi con nostalgia dicasa.
L’Europa vive un momento difficile: circostanze di carattere politico e culturale, nonché fenomeni nuovi, sembrano originare sentimenti contrastanti, sensibilità che faticano a dialogare e a comprendersi. Forse ricordi non riconciliati, paure nuove - a volte esasperate ad arte - prassi percepite poco eque…creano un senso di lontananza e diffidenza, un clima diffuso di delusione e disorientamento. Questo coacervo prende forma in spinte disgregatrici. Quale sarà il futuro – sembra la domanda ricorrente - quale la via giusta in un mondo sempre più guidato dal binomio “il più possibile di profitto e il meno possibile di tempo”? La tentazione di trovare rifugio è evidente: in genere, il rifugio evoca dei luoghi ben definiti, dei perimetri certi e invalicabili, delle relazioni selezionate e rassicuranti. Ma, nel mondo di oggi, tutto questo è un’ illusione pericolosa: la complessità non si affronta cancellando le diversità o sbandierando stendardi assoluti: né l’una né l’altra ipotesi è saggia.
Di fronte ai giganti vecchi e nuovi della Terra, non possiamo pensarci ognuno come il piccolo Davide solitario. In verità, ritengo che sia difficile sostenere seriamente che – per principio - sia meglio da soli piuttosto che insieme; che il modo giusto sia quello di rinchiudersi nel proprio guscio – per grande e forte che sia – anziché mettersi con gli altri. Piuttosto, penso che una visione riduttiva e isolazionista possa essere la reazione a difficoltà vere, oppure a paure reali o indotte. Ovviamente, nessuno vuole essere colonia di nessuno, e nessuno deve voler colonizzare nessuno.
“L’Europa insieme” è un soggetto da guardare con rispetto non solo per capacità e risorse, ma anche per storia e cultura, per esperienza di umanità: se l’Europa non cambierà la sua anima essa avrà una dignità all’altezza delle sfide. In questa prospettiva, tutto l’Occidente compatto dovrebbe favorire il cammino di un’Europa unita, sia in un quadro di equilibri geopolitici, sia per il bene dell’umanità. Guardando l’ampia area occidentale, nessuno può pensare che un’Europa in stato di sudditanza possa convenire.
8.Ripensare il “corpo” dell’Europa
L’aria di incompiutezza nei confronti del cammino europeo, non deve impedire di riconoscere le conquiste di questi anni, come la pace, lo sviluppo con alterne vicende, l’apertura dei mercati e della circolazione, gli scambi formativi e culturali…Ma ciò che ritengo più promettente è la complessiva attitudine a guardare gli altri come a compagni di viaggio, la considerazione reciproca che richiede la capacità di sintesi, ma anche una costante autoverifica. Ciò non è scevro da ambiguità e protagonismi: specialmente chi si trova in situazione migliore deve porsi a servizio degli altri, deve fare da capofila senza esibita superiorità e arroganza: il modo, in certe situazioni, è sostanza. Comunque, il processo è avviato e fermarlo sarebbe perdere una conquista.
Un aspetto da ripensare – oltre certe politiche economiche e finanziare – mi pare siano gli organismi di governo, il grado di rappresentatività, i loro compiti e prerogative, le materie di competenza; ma anche i reciproci rapporti, il loro funzionamento; nonché i costi. La gente fatica a comprendere certe norme che riguardano, ad esempio, l’agricoltura, gli allevamenti, le condizioni dello sviluppo. Anche è da mettere a fuoco – come in una vera famiglia - una politica migratoria veramente unitaria, umana ed equa, come pure una politica estera e la difesa comune.
Tutto questo nella prospettiva di un’Europa “più leggera e più agile”, che non vuol dire un’Europa minore e indebolita ma, al contrario, un’Europa più radicata nel cuore delle Nazioni e più efficace. Ogni Nazione sarà europea se si sentirà accompagnata, non soggiogata da una rete di veti o di imposizioni. Sarà più facile, allora, che accanto alle aspettative cresca anche la consapevolezza di dover corrispondere con dei doveri, facendo ognuno la propria parte in base alle rispettive possibilità. Camminare insieme non significa necessariamente omologare ogni passo, ma considerare le differenti realtà, rispettarle, valorizzarle e farle crescere.
9.Ripensare lo spirito dell’Europa
Europa, chi sei? La domanda può suonare poco aderente alle urgenze dell’ora, na siamo veramente sicuri della sua astrattezza? Pensare che il benessere economico sia la chiave di volta per creare la coesione sociale e la partecipazione alla vita comune, non dà ragione della realtà. Come si potrebbe spiegare altrimenti la resistenza che singoli e popoli hanno mostrato in condizioni materiali gravissime, dove mancavano i beni primari insieme alle libertà fondamentali? Se ciò è accaduto – e continua ad accadere in molte parti del mondo – significa che, al di là del benessere materiale, esiste un’energia di tipo immateriale che è la forza dello spirito. E’ questa forza che genera il senso di appartenenza, l’impegno e il sacrificio – in una parola, la passione – per realizzare insieme qualcosa di alto come un continente solidale e unito.
L’Europa non è l’Europa dei mercati, ma dello spirito. Prima di essere un complesso geografico, o un gruppo di popoli, o un’ organizzazione mercantile e monetaria, l’Europa è un’ anima, un patrimonio di cultura, di ideali, di valori e di religione. E’una visione: cioè un modo di concepire l’uomo, la vita, il vivere insieme. Quest’anima non è inerte, fuori dalla storia, ha preso forma concreta ispirando una storia, un territorio, un ambiente, in sintesi, una “casa”. Per questo motivo, appartenere ad un popolo significa essere generati. Ecco la Nazione che – in un certo senso – ha come paradigma la famiglia: nulla a che vedere con la patologia del nazionalismo o dei populismi, che porta alla negazione dei diritti di altre nazioni, o a credere ad una propria presunta superiorità e purezza. A questo proposito, non è da dimenticare che - tra i doveri dei responsabili della cosa pubblica a livello nazionale o continentale – vi è quello non solo di registrare i fenomeni che accadono, ma anche di interpretarli per tempo e con serietà: guardarli con sufficienza, o peggio snobbarli, non solo è ingiusto ma anche stolto, poiché i fenomeni comunque procedono e si ingrandiscono.
Come ho sopra ricordato, settant’anni di cammino unitario hanno portato vantaggi non piccoli, ed è cresciuto il bisogno di essere solidali gli uni con gli altri, cioè di condividere “in solidum” un destino. Abbiamo anche visto che “solidarietà” non significa azzeramento delle differenze per creare una realtà omogenea e grigia. Ci sono cose che devono essere uniformate, e altre che è stolta arroganza farlo: sono quelle che riguardano il sentire spirituale ed etico, che toccano la visione dell’uomo, della vita e della morte, la terra natale, gli ideali nobili di una nazione come di un continente. Il senso della Patria, ad esempio, non contraddice il senso dell’Europa, semmai lo rafforza, poiché lo arricchisce di passione e di ideali, di sacrificio e di appartenenza. Molto dipende dall’Europa: quanto più riuscirà a farsi amare dai suoi membri sul piano spirituale, tanto più ognuno potrà sentirsi sia cittadino della propria terra sia civis europeo. E lo farà con fierezza. Identità non significa divisione, ma distinzione dentro ad un senso di appartenenza che non rinnega il proprium di ciascuno ma l’allarga. In questa prospettiva, troviamo la logica della polarità di cui parla Romano Guardini.
Quando le popolazioni hanno la percezione di non essere sufficientemente rispettate nelle loro peculiarità spirituali, o culturalmente colonizzate – come ricorda il Santo Padre Francesco - si sentono umiliate, e allora nasce un senso di risentimento, di timore e sospetto che non giova a nessuno.
10.La coscienza europea
Purtroppo, il dibattito storiografico degli anni ’50 e ’60 non è riuscito a generare la cultura della cittadinanza europea: essa è stata più studiata che assimilata. La coscienza collettiva, cioè popolare, è rimasta sostanzialmente estranea, sia perché presa da urgenze immediate, ma anche perché non è stata sollecitata dagli stessi politici. La politica, infatti, non si è lasciata ispirare a pensare in grande, appunto in chiave continentale: ha piuttosto inseguito la logica del consenso nazionale, e questo ha confinato l’idea di Europa ad una cerchia troppo elitaria. Le stesse elezioni del Parlamento Europeo, in genere, hanno rappresentato solo un test per il confronto politico nazionale: e ciò è per lo meno insufficiente. Forse – considerate le nuove circostanze – i prossimi appuntamenti elettoralipotranno rivestire il senso di una più effettiva consultazione dei popoli. L’Europa infatti - spesso percepita come lontana e pesante – pare sia oggi avvertita come una realtà che merita nuova attenzione: forse è sentita più chiaramente indispensabile.
La coscienza collettiva deve generare la virtù della solidarietà che non è un’esortazione etica o un imperativo categorico: esige un fondamento che ne motivi la necessità e la bellezza. Non può essere la convenienza, ma la sua corrispondenza all’essere umano che è un soggetto in relazione, cioè qualcuno che si realizza solo con gli altri pur rimanendo se stesso. Lo stesso vale per le Nazioni e gli Stati. In questo orizzonte, si comprende che la solidarietà – dimensione costitutiva della persona – esige la reciprocità, per cui diritti e doveri si incontrano, e il ricevere si completa con l’offrire.
11.“La cura dell’anima”
L’uomo moderno sta conquistando il mondo ma perde l’ anima; per questo l’Europa è malata nella sua anima. La sua storia è stata come un lungo travaglio che ha preparato la nascita di uno spirito, cioè un sentire comune ma non uniforme. Oggi, però, sembra che di questa storia sia rimasta solo la forma esteriore, vuota di contenuti ideali e drammatici, di slanci e di aperture, di accoglienza e di integrazione.
Platone, nell’opera “La Repubblica”, afferma che Atene fu edificata sulla “cura dell’anima”, e quando questa si allentò, la Polis scomparve. Secondo Jan Patocka, dopo la Polis greca e l’Impero Romano, questa medesima forza spirituale generò l’Europa: “L’Europa è nata da questo motivo, vale a dire dalla cura dell’anima, ed è morta per il fatto che si è lasciata velare nuovamente nell’oblio” (Patocka, op. cit.pg 99).
Ma che cosa si intende per “cura dell’anima”? E’ la ricerca della verità, delle grandi verità che stanno oltre le cose quotidiane e che riguardano l’esistenza umana, che danno senso alla vita personale; che superano la frammentazione, che portano verso un’unità che non omologa ma armonizza: “L’anima umana è ciò che possiede un sapere sulla totalità del mondo e della vita, ciò che è capace di guardare questa totalità, ciò che vive a partire da questa visione, ciò che, in quanto ha in sé il sapere riguardante l’intero, è in totalità e in rapporto a questo intero (…) La cura dell’anima, che sta alla base dell’eredità europea, è ancora oggi in grado di sollecitarci, dato che abbiamo bisogno di trovare un punto fermo in mezzo alla futilità generale e alla rassegnazione del declino” (id. pagg 42-43).
Anche l’uomo moderno deve avere coraggio di guardare la realtà com’è, nel suo insieme, anche nella finitezza e nella morte, realtà che invece sono esorcizzate con illusioni o distrazioni collettive: il “problema dell’eternità” è proprio dell’anima, del suo essere (id. pag 155). Appartiene alla “cura dell’anima” un anelito che non è esclusivo di culture particolari o di epoche precise, ma è costitutivo dell’essere umano: è l’anelito alla felicità. Come non ricordare Aristotele, per cui “essere felici” è “fare il bene”? (Aristotele, Etica Nicomachea, 14, 1095, 16-19). E come non citare Pirandello? “Non possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte!” (Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal).
12.L’insostenibile leggerezza della solitudine
Se l’Europa non vuole stancarsi di se stessa, deve guardarsi allo specchio con umiltà. Il pericolo del narcisismo è alla porta dei singoli, dei gruppi, delle Nazioni e degli Stati. Abbiamo bisogno di un bagno di realismo, prendendo le distanze da ideologie autoreferenziali che allontanano dalla realtà e ispirano arroganza.
In ambito culturale, quanto più viene enfatizzato in modo acritico il “nuovo” rispetto ai valori tradizionali, considerati ormai vecchi e superati, e non si indicano fondate alternative, tanto più cresce confusione e smarrimento: il vivere insieme diventa più difficile e fragile. Lo stereotipo di riferimento è il concetto di un’«autonomia» individuale assoluta, sparendo così dall’universo della coscienza la possibilità di valori assoluti di bene o di male.
Se l’uomo non sente di essere amato e di poter amare, sprofonda nella solitudine radicale: se non sa di poter contare sugli altri, e che gli altri contano su di lui, non vive ma sopravvive. La terra di nessuno, che è la solitudine, non è assenza di problemi come illusoriamente può sembrare; non è ampia e libera, ma è una terra mortale che – nell’assenza di legami – rinchiude l’individuo: la solitudine dagli altri diventa la prigionia di se stesso, la sua apparente leggerezza si rivela un insopportabile peso.
Torniamo così alla questione centrale della cultura contemporanea: la questione antropologica, la domanda cruciale che si tende a scartare come “questione oziosa” (Marx. Comte): cos’è l’uomo? Il “conosci te stesso” della cultura greca non è innanzitutto l’invito ad una conoscenza empirica e individuale, ma ad una conoscenza metafisica e quindi universale dell’essere umano. La sfida è quella di scoprire il fondamento di noi stessi, fondamento che è in ciascuno di noi ma che non siamo noi, e che le caratteristiche individuali non possono esaurire. Anche alla luce di giganti del pensiero europeo - Newnan, Florenskij, Guardini - la persona è, nella luce del Dio Trinitario, relazione intelligente e libera. Risiede nelle Persone Divine il principio della personaumana e quello delle sue azioni, ed è da tale fonte che nasce il principio di libertà connesso all’idea di verità e all’obbligazione morale che ne deriva.
Il filosofo ebreo Karl Lovith affermava con lucidità che “il mondo storico in cui si è potuto formare il ‘pregiudizio’ che chiunque abbia un volto umano possieda come tale la ‘dignità’ e il ‘destino’ di essere uomo, non è originariamente il mondo (…) del Rinascimento, ma il mondo del Cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo (…) Con l’affievolirsi del Cristianesimo è diventata problematica anche l’umanità” (Karl Lovith, Da Hegel a Nietzsche, Biblioteca Einaudi 1994, pag 482). Siamo ben lontani da quanto sosteneva Michel Foucault: “più che la morte di Dio – o meglio sulla scia di tale morte e in correlazione profonda con essa – il pensiero di Nietzsche annuncia la fine del suo uccisore” (M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1964, pag 337).
A noi credenti incombe il compito della profezia, cioè di una presenza che è come il sale e il lievito nella pasta della storia che ci è data e che dobbiamo servire. La ricchezza più grande è il dono della fede in Gesù, testimoniata con la forza del nostro nulla abitato dalla grazia. Tramite la testimonianza un Altro appare e si comunica, e grazie alla ragione che rende la fede pensata e comunicabile, dobbiamo entrare in dialogo con la modernità. A questo punto entrano in campo la questione teoretica più delicata e urgente: dare ragione di una visione antropologica sostanzialmente diversa rispetto al pensare dominante con le implicazioni concrete che vediamo sulla vita e la morte, il bene e il male.
È necessaria una testimonianza più convinta e trasparente, e una lettura serena e acuta dei fatti: in questa prospettiva, i segni quotidiani parlino di un abissale vuoto educativo! Il mondo degli adulti deve interrogarsi se ha fatto un patto con il futuro oppure se tenta di trattenere il presente il più possibile, precisando che l’oggi sono gli adulti e le istituzioni, mentre il domani sono i nostri figli. L’alleanza col futuro non significa affossare il passato, ma discernere – fuori dagli slogan – ciò che vale in sé e che abbiamo il dovere di preservare e di consegnare ai più giovani per non ingannarli e non diseredarli. Prima che la storia, saranno loro a giudicarci, e Dio sarà spesso dalla loro parte.
13.Cristianesimo ed Europa
“Se l’Europa si staccasse totalmente da Cristo, allora cesserebbe di essere” (Novalis, La Cristianità, ossia l’Europa). In conclusione, cerco di presentare alcune considerazioni distinte su due piani.
a)Perché Novalis fa un’affermazione così netta? Accenno a tre ragioni.
Innanzitutto, perché il Cristianesimo fonda la dignità dell’uomo; la fonda al livello più alto e inviolabile, quello di Dio. E’ interessante rilevare che le Carte internazionali parlano della dignità umana ma non entrano nel merito del fondamento: lo danno per acquisito, con tutte le conseguenze!
In secondo luogo, perché il Cristianesimo si presenta come fede universale che, rivolgendosi alle singole persone, supera i vincoli particolari senza negarli, e permette una comunità universale. Mentre l’impero incarnava l’idea di un’autorità politica universale, il Cristianesimo pone la differenza tra civiltà e politica, e quindi tra universalità spirituale e particolarità civile: e questo non è di tutti.
Infine, perché la fede cristiana pone l’idea della superiorità della persona sulla natura: la vita dell’uomo non è la vita del cosmo, essa viene direttamente da Dio. Per questo l’uomo inizia senza timori l’indagine sulla natura per governarla a suo servizio, fino a pretendere, purtroppo, di superare il limite e di voler possedere il creato: in questa prospettiva, Romano Guardini aveva previsto la sfida decisiva per l’umanità: “L’epoca futura non dovrà affrontare il problema dell’aumento del potere (…) ma quello del suo dominio” (R.Guardini, Il potere, Morcelliana 1963, pag.9). Le ultime due guerre sono state il triste riscontro di questa sfida.
b) Quali sono i problemi più delicati ai quali i credenti devono contribuire a dare delle risposte?
Uno l’abbiamo già indicato: fondare la dignità della persona umana con le parole della ragione, attraverso cioè un “linguaggio istituzionale” come afferma Habermas: ciò impone una riflessione sulla trascendenza, cioè se l’uomo sia fondamento di se stesso oppure si auto comprenda in rapporto ad una istanza che lo trascende, e quindi è universale, ma di cui è partecipe. E poi, il rapporto tra politica e religione, tra monoteismo e democrazia, laicità e laicismo, la questione del fondamento del diritto, che a sua volta rimanda al rapporto tra natura e cultura, tra diritto e giustizia.
Rispetto a questi fronti, i cristiani hanno una grande responsabilità e forse qualche ritardo. I luoghi del pensiero e le istituzioni accademiche cattoliche sono chiamate ad essere più presenti nel pubblico dibattito, e portare le ragioni di quei valori che sono proposti dal Vangelo, ma che appartengono all’esperienza universale. Oggi sono stravolti a causa di un individualismo esasperato che vede nel principio di “autodeterminazione” la chiave di volta, la base della metamorfosi antropologica in atto. Il cosiddetto “trans umanesimo” fonda se stesso non sulla ragione come facoltà del vero, ma sulla volontà assoluta che pretende di porre la realtà delle cose e di se stesso fino ad reinventarsi. Paradossalmente, quanto più l’agire è innaturale, più si ritiene affermata la dignità umana! Il primato della volontà senza verità porta alla negazione della persona e alla disgregazione sociale.
Desidero concludere con due citazioni. La prima è di Vaclav Havel: affermava la convinzione che “la cultura occidentale (fosse) minacciata assai più da se stessa che dai missili!” (Il potere dei senza potere, La Casa di Matriona, 2013, pag 157), ma subito aggiungeva che quando l’uomo “ha il cuore al posto giusto, sente l’esistenza di qualcosa sopra di sé e non ha paura: può influenzare la storia del suo popolo” (id pag 163). In questo orizzonte, sotto la superficieschiumante la vita vera e feconda brulica.
La seconda citazione è di Norberto Bobbio che si definiva non credente: “Il compito della filosofia oggi è di tenere in vita le grandi domande, perché impediscano agli indifferenti di diventare preda del fanatismo di pochi (…) Proprio perché le grandi risposte non sono a portata della nostra mente, l’uomo rimane un essere religioso nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni della morte di Dio che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea (…). L’esigenza di una risposta a queste domande c’è, queste domande ci sono. Il che spiega la forza della religione. Non è sufficiente dire: la religione c’è, ma non dovrebbe esserci. C’è: perché c’è? Perché la scienza dà risposte parziali e la filosofia pone solo delle domande senza dare le risposte” (N.Bobbio e Altri, Che cosa fanno oggi i filosofi?, Bompiani 1982, pagg 168, 169, 175).
Le considerazioni di Norberto Bobbio non allontanano dalla realtà, ma – al contrario –conducono ad un ancoraggio straordinariamente concreto e forte, che ricorda quanto diceva Platone: “la cura dell’anima”. Di questo, l’Europa ha estremo bisogno, cioè tutti noi.
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