Mobbing e molestie sessuali

Molestie sessuali e mobbing non sono equivalenti. Le molestie possono tradursi in esperienze mobbizzanti ma non necessariamente lo sono o lo diventano, così come il mobbing può non rivestire connotati sessuali. Le molestie possono anche avere la caratteristica di estemporaneità mentre il mobbing richiede, tra le altre, la caratteristica di continuità nel tempo, di perseveranza in un determinato periodo (sei mesi per la giurisprudenza). Le molestie solitamente sono prevalentemente una caratteristica della relazione e della comunicazione sessuata tra due generi, quello maschile e quello femminile; il mobbing può essere esercitato indifferentemente anche tra persone dello stesso sesso.

Quale può essere dunque l’intreccio tra mobbing e molestie sessuali? Carmine Ventimiglia rilevava che una parte degli uomini (circa un terzo) ed una parte più consistente delle donne (42%) sono vittime contemporaneamente di molestie sessuali e di comportamenti a rischio di mobbing. Esiste quindi una relazione positiva tra molestie e situazioni mobbizzanti. Per le donne soprattutto tale relazione è particolarmente significativa se le situazioni a rischio di mobbing subìte riguardano la vita privata, cioè le donne che sono vittime di molestie verbali o fisiche, rispetto alle altre, rischiano più di 4 volte l’esposizione a comportamenti mobbizzanti.

I dati sembrano evidenziare che i contesti monosessuati sono più conflittuali di quelli plurisessuati (promiscui) e che questi ultimi siano più sfavorevoli per le donne che per gli uomini: la promiscuità sembra trasferire sulle donne una quota di comportamenti conflittuali che nei contesti non promiscui o meno promiscui riguardano solo i comportamenti degli uomini tra di loro, come se la presenza femminile faccia da parafulmine alla conflittualità tra gli uomini.

Nella percezione dei soggetti intervistati da Ventimiglia (e potremmo dire, anche nella percezione comune), la molestia sessuale è rappresentata come un processo psicologico a valenza individuale, le cui cause sarebbero da ricercare negli atteggiamenti e disposizioni individuali. Il mobbing invece ha maggiormente la connotazione di fatto sociale, la cui origine è da ricercare nell’odierna organizzazione del lavoro e nelle dinamiche relazionali che si strutturano nei luoghi di lavoro.

Si individuano due tipologie di mobbing, diverse anche se interagenti: una “strategia aziendale”, e una “strategia relazionale”. Nel primo caso si tratta di un comportamento strumentale finalizzato al conseguimento di un beneficio economico per l’azienda, generalmente consistente nell’eliminazione di lavoratori ritenuti inadatti o improduttivi. Nel mobbing inteso come strategia relazionale, invece, si attuano comportamenti che non hanno come finalità primariamente il profitto aziendale ma che sono attivati invece per motivazioni soggettive sulla base della tipologia delle relazioni interpersonali che si instaurano tra colleghi e superiori nel luogo di lavoro.

Ciò che in comune vi è tra i due fenomeni è che entrambi sono un esito della prevaricazione e dell’uso distorto delle relazioni. Sia il mobbing sia la molestia sessuale si configurano cioè come situazioni di vittimizzazione. Questo è particolarmente accentuato, evidentemente, nel caso della molestia sessuale ed assume la veste di “pizzo di genere”, il prezzo cioè che un genere, quello femminile, paga da sempre nella relazione con l’altro genere, anche quando la relazione sia di convivenza lavorativa. Si obbietta frequentemente che a volte anche gli uomini sono sessualmente molestati, da altri uomini e anche dalle donne, sia pure in una quota “debole” rispetto a queste ultime. Ciò è confermato dalla ricerca. Tuttavia la connotazione di genere si evidenzia anche in tali situazioni situazioni, peraltro statisticamente non significative, in cui la donna sia il soggetto attivo dei comportamenti di mobbing o di molestia: in tal caso la donna si fa “riproduttrice” di modalità culturalmente tipiche del modello maschile, ma inconsciamente introiettate. Ciò che fa veramente differenza in questo caso, come vedremo, sono la percezione, il vissuto e le reazioni che caratterizzano l’esperienza dell’uomo molestato da una donna che non assomigliano per nulla alla percezione, al vissuto e alle reazioni della donna molestata da un uomo.

Che la percezione di una stessa realtà “oggettiva” possa essere fondamentalmente dissimile tra i due generi, è un dato emergente in ogni ricerca che semplicemente prenda in considerazione, senza occultarle o negarle a priori, le differenze di genere. In una precedente ricerca di Ventimiglia era emerso che gli uomini intervistati generalmente ammettevano di mettere in atto i comportamenti testimoniati dalle donne stesse e in misura complessivamente corrispondente alle dichiarazioni di queste. Questi comportamenti però venivano diversamente percepiti e, quindi, giustificati: dalle donne quei medesimi comportamenti erano vissuti come molestanti, offensivi e non legittimi, mentre dagli uomini erano razionalizzati come appartenenti alla normalità delle relazioni oppure come esito inevitabile di ogni rapporto tra i generi.

Diceva a questo proposito Ventimiglia: “…….I rapporti interpersonali sono sessuati e le loro diverse forme acquisiscono senso e valore, anche simbolico, a partire dal dato che si tratta di relazioni tra due generi differenti, non neutri, ciascuno dei quali è portatore e riproduttore di modelli culturali e comportamentali, di specificità che attengono, appunto, al genere di appartenenza, di vissuti e di sentimenti non omologabili, di mappe cognitive che non seguono i medesimi percorsi, neppure dal punto di vista delle ”emozioni”. Tutto ciò comporta anche una significativa diversità dei processi di comunicazione, tra uomini e donne, quale che sia il tipo di comunicazione: verbale, corporea, analogica, sessuale, eccetera. La trama dei rapporti così costruita non è neutra. Questo vuole anche dire che la sua complessità non può essere risolta sull’esclusivo piano dei diritti di cittadinanza ma deve fare i conti con vincoli, responsabilità, specificità che attengono a soggetti sessuati. Per questa ragione ogni processo di rivendicazione di rapporti tra “uguali” non può prescindere dalla constatazione che ogni eguaglianza si compone attraverso il riconoscimento delle differenze.”

Attenzione per le differenze e riconoscimento del valore della soggettività vanno di pari passo.

La Commissione delle comunità europee sulla tutela delle donne e degli uomini sul lavoro (1991) raccomandava che la percezione soggettiva di chi subisce un comportamento sia un parametro determinante per la definizione di violenza/molestia: si legge infatti che per molestia sessuale si intende “ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro tipo di comportamento basato sul sesso che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro, ivi inclusi atteggiamenti malaccetti di tipo fisico, verbale o non verbale”, precisando altresì che è da intendere come abuso sessuale ogni “atto indesiderato da parte di chi lo subisce e che spetta al singolo individuo stabilire quale comportamento egli possa tollerare e quale sia da considerarsi offensivo”.

Nonostante ciò, la giurisprudenza italiana ammorbidisce, per così dire, la definizione affiancando all’indesiderabilità dell’atto che questo sia “percepibile, secondo ragionevolezza, come offensivo della dignità e libertà della persona che lo subisce…”, spostando quindi la definizione dal piano soggettivo della percezione della vittima a quello, solo apparentemente oggettivo, di chi dovrà stabilire la “ragionevolezza” di tale percezione.

Visibilità e percezione sono fattori che interagiscono nel determinare il confine individuale e collettivo di accettabilità, di compatibilità con la rappresentazione collettiva dei comportamenti, in special modo quelli border-line. Spesso gli uomini giocano strumentalmente con la dimensione ambivalente della comunicazione sessuale, trasformando l’ambivalenza (cioè la doppia valenza della comunicazione sessuale, ossia il segno di riconoscimento della possibilità di reciprocità) in ambiguità, che dell’ambivalenza è invece il segno di un uso violento.

Non solo ai fini della definizione sopra riportata è quindi importante assumere invece la percezione soggettiva come discriminante per configurare oggettivamente i comportamenti violenti/mobbizzanti e darne quindi visibilità sociale. Ciò richiede però un vero e proprio salto culturale che si rifletta in politiche sociali in grado di leggere diversamente le relazioni tra i generi.

Vi è un’asimmetrìa nei tempi di vita tra donne e uomini che non è solo una disuguaglianza di condizioni ma anche di capitale sociale in termini di opportunità negate e di ridotto investimento in ambiti da cui le donne sono escluse o in cui risultano marginali.

Gestione del ménage familiare e lavoro di cura per gli altri significativi continuano a contrassegnare i tempi delle donne che, non a caso, più degli uomini fruiscono di lavoro professionale part-time. Le donne, in casa e per la casa, lavorano almeno il doppio degli uomini e, rispetto ad essi, hanno meno tempo libero per sé. Non a caso il gap più forte tra uomini e donne relativamente al lavoro di cura riguarda la fascia di età dei quarantenni (40-49 anni), quella cioè che in generale comprende padri e madri di figli(e) piccoli(e) ed adolescenti.

Anche per ciò che riguarda la situazione lavorativa, le condizioni lavorative di partenza, quelle strutturali, e di conseguenza le relazioni che a partire da esse si costruiscono, sono asimmetriche tra i generi. Nella scala gerarchica delle responsabilità e delle competenze professionali ai livelli più alti troviamo gli uomini, con compiti di dirigenza, di coordinamento e di tecnici, mentre le donne sono maggiormente rappresentate nel ruolo impiegatizio e sono, soprattutto, operaie. Non è un caso che rispetto al ventaglio dei disagi e della esposizione ai rischi le donne sono di fatto le più penalizzate, sono soggetti deboli.

Il significato che uomini e donne attribuiscono al lavoro anche non è lo stesso. Dalla ricerca emerge che per gli uomini l’investimento sul lavoro è fondamentale ed ha una forte ricaduta positiva o negativa, cioè di rafforzamento o di messa in crisi dell’identità a seconda che ci si senta realizzati o sfruttati, mentre il lavoro di cura dei figli è vissuto come problematico e penalizzante proprio perché sottrae tempo ed energie alle opportunità professionali. Per quanto riguarda le donne viceversa, non sembra configurarsi una gerarchia di rilevanza in cui al primo posto c’è il lavoro, quanto, piuttosto, uno scenario di coesistenza, a volte anche sofferta e conflittuale, di diverse dimensioni il cui senso è anche il risultato di un continuo riassetto tra tempi della quotidianità familiare, necessità economiche e risorse oggettive. In generale l’identità femminile non sembra così rigidamente e prioritariamente ancorata al lavoro e al suo significato per la propria personalità.

Le molestie sessuali possono essere classificate come verbali, fisiche o relazionali.

Le molestie verbali sono le più diffuse e caratterizzano in modo forte la quotidianità dei rapporti; per quanto riguarda gli vi è una quota di soggetti che esercita tale forma di molestia indifferentemente nei confronti di entrambi i sessi. Una sorta di habitus linguistico che sembra porre quasi automaticamente la dimensione sessuale al centro della comunicazione con l’altro/a.

Le umiliazioni e le denigrazioni da parte di colleghi e superiori colpiscono le donne indipendentemente dalla qualifica ricoperta e dalla mansione svolta. Gli uomini professionalmente più forti sono “rispettati” di più rispetto ai soggetti professionalmente deboli. Questo non vale necessariamente per le donne. Dunque, il livello professionale tutela gli uomini e molto meno le donne dal subire taluni comportamenti. Parrebbe quasi che “umiliare e denigrare” una donna sia un esercizio elettivo che prescinde dal ruolo lavorativo e riguarda la persona in quanto tale, o meglio in quanto (anche) genere.

Anche nel caso delle molestie relazionali le reazioni avute e i comportamenti agìti confermano quanta diversità esista tra i due generi per quanto riguarda le percezioni, i vissuti e le emozioni. Infatti, gli uomini reagiscono alle richieste non gradite di rapporti sessuali inizialmente con una risata e con la simulazione e dissimulazione subito dopo. Viceversa, le donne, dopo una reazione aggressiva e diretta nei confronti dell’autore, ricorrono poi alla simulazione e dissimulazione in circa metà dei casi, oppure , nell’altra metà, con l’autocensura della propria libertà di movimento, cioè con una strategia di prevenzione primaria che consiste nell’evitare ogni circostanza di incontro con l’autore dei comportamenti molestanti.

Complessivamente le molestie sessuali sono state registrate nel 21,7% dei casi con una forte incidenza di quelle verbali (40,2%) ed una minore di quelle relazionali (10,6%); le molestie fisiche sono segnalate nel 14,6% dei casi. Si segnala pertanto un’alta incidenza delle molestie verbali le quali, da sole, colpiscono un terzo degli uomini e quasi la metà delle donne.

Secondo il parere di Ventimiglia si può leggere l’alta incidenza delle molestie verbali come semplice espressione di un radicato (mal)costume linguistico: non siamo solo in presenza di un linguaggio ”scurrile”, ma di vere invasioni di campo.

Altro dato è la concomitanza quasi totale che esiste tra le diverse forme di molestie, cioè circa un terzo degli uomini e circa metà delle donne dei vari sottogruppi intervistati dichiara di essere oggetto di tutt’e tre le forme di molestia. Ciò mette in luce la sistematicità, e non l’occasionalità, della molestia, che si rivela come comunicazione distorta e disfunzionale, e di comportamenti di invasione oltraggiosa della sfera della corporeità e della dimensione della sessualità.

Per quanto riguarda le donne un dato particolarmente significativo è il fatto che la totalità di coloro che sono vittime di molestie relazionali subisce anche tutte le altre forme di molestie. Sembra quasi che rappresentino un bersaglio “privilegiato” per gli uomini, le più esposte.

Siamo di fronte ad esperienze che poco o punto hanno a che fare con le questioni attinenti il rapporto capitale-lavoro e molto, invece, hanno a che fare col rapporto tra i due generi e con la dimensione dei diritti della persona a pretendere il rispetto integrale da parte di tutti del proprio sé, anche corporeo.

Continuità, sistematicità e durata, sono i parametri di riferimento per poter parlare di mobbing. Ventimiglia riporta che il 4,0% degli uomini e il 4,4% delle donne sono vittime di mobbing; le dimensioni del fenomeno superano le 5 diverse situazioni mobbizzanti nel 21,4% dei casi per gli uomini e nel 26,2% dei casi per le donne. Ventimiglia si chiede se la soglia delle cinque situazioni o la frequenza del 20.0% siano gli unici parametri che ci autorizzino davvero a parlare di mobbing, senza che questa scelta porti a non dare visibilità o a sottovalutare la maggioranza di quelle situazioni che non risultano inscrivibili tout court nel registro del mobbing, ma che ne costituiscono un fertile humus e possono, col tempo, cronicizzarsi e trasformarsi in condizioni chiaramente mobbizzanti.

Rispetto ai danni biologici ed esistenziali ed al rapporto tra questi e molestie sessuali e mobbing, Ventimiglia, pur assumendo la multifattorialità della etiologia del malessere dichiarato dai soggetti intervistati, sottolineava che, a fronte del fatto che il tempo di lavoro occupa uno spazio ed una dimensione molto rilevanti nel complessivo tempo di vita delle persone, sempre più il fattore umano nei luoghi di lavoro (ma verrebbe da aggiungere: anche fuori) si va configurando come fattore residuo e che la monetizzazione del danno ne costituisce solo illusoriamente un risarcimento

Il profilo dei soggetti sessualmente vittimizzati non risulta sempre ben definito e univoco: nel caso di mobbing di tipo aziendale il profilo della vittima è prevalentemente quello di un soggetto che risulta inadeguato al contesto lavorativo. Nel mobbing come strategia relazionale la vittima è un soggetto caratterialmente e psicologicamente debole. Le donne hanno maggiori probabilità di esposizione ad entrambi i fenomeni.