Articolo di Pier Aldo Rovatti su Il Piccolo di venerdì 21 settembre 2018, p. 21
Ci siamo interrogati, lo stiamo ancora facendo, sul senso dello scrivere qui, del trovarci, del parlarci, del sentirci ogni giorno in nome di una pubblicazione tutta e solo online.
Nasce, intanto, l’associazione “Via Rodafà”, ma credo ne parleremo meglio al rientro della firma di Stefano Sodaro in calce agli editoriali.
Ferve nella redazione del nostro giornale la discussione non tanto sull’uso dei social quanto sul loro potenziale rivelativo, cioè sulla cultura antropologica che li sorregge o di cui sono frutto.
Pier Aldo Rovatti ne ha scritto venerdì sulle pagine del quotidiano di Trieste “Il Piccolo” e facciamo del suo articolo la copertina sovrastante.
C’è, sì, una maledetta, maledettissima paura di abbracciarsi. Forse non a caso Gabriele Salvatores ha scelto il capoluogo giuliano, città del nostro direttore, come set del suo ultimo film – che deve ancora uscire – Se ti abbraccio non aver paura.
La cronaca, tuttavia, non dà fiato, respiro. Non dà tregua.
E se il giovin Governo ottiene sempre più ampi consensi – si tratterebbe ordunque di una rivoluzione finalmente tradotta in realtà, un sogno realizzatosi, un’utopia alla buon’ora concreta e servita -, dall’altra parte carri armati ideologici, se ne faceva cenno già domenica scorsa, si muovono Oltretevere in nome della pulizia morale, anzi, diciamolo per bene come va detto, sessuale, e, mega fatto della settimana, la Corte d’Appello di Milano infligge con sentenza, che sarà di certo impugnata in Cassazione, 7 anni e 6 mesi a Roberto Formigoni, storico leader di CL, per reato di corruzione.
Com’è possibile districarsi tra questi tre momenti, in sé del tutto diversi e che sembrano non poter esser suscettibili di alcuna riflessione sintetica?
Astraiamo in modo assoluto dalle persone. Facciamo diventare i cognomi, senza nessun coinvolgimento dei loro titolari, solo radice di fenomeni ben diversi e più ampi.
Travaglismo – ovverossia l’esaltazione convinta del rivoluzionario cambiamento cultural/governativo in atto -, viganismo – e cioè l’assalto alla diligenza vaticana del papa argentino - e formigonismo - quale matrice di un’identità cattolica che gli anni Ottanta hanno forgiato su un modello trasversale al celeberrimo CAF (Craxi Andreotti Forlani), ritenuto l’unico in grado di assicurare e stabilità e pace sociale e soddisfazione socioreligiosa -, ebbene tutti e tre messi assieme, travaglismo, viganismo e formigonismo, hanno complessivamente una grande, anzi enorme, caratteristica in comune che si staglia con solare evidenza sol che la si voglia vedere: insegnare la morale agli altri. Agli altri.
Per quella propria, nostra, ci sono pacchetti di sabbia di varia forma e misura all’uopo adoprabili per sotterrar il pattume, ma per quella degli altri c’è solo l’occhio di bue della ribalta etica ed io, che sono senza macchia e senza infamia, posso fare da pronto manovratore.
E beninteso, ognuno di tre ipotetici distinti appartenenti alle tre identità di “ismi” soprannominati reagirebbe, con ogni probabilità, cercando di azzannare chi lo abbia associato, anche solo per boutade, agli altri due.
Eppure.
Noi che stiamo male a non lasciarci abbracciare, che ne abbiamo paura, traiamo da là, da quegli anni lì, la fobia per i contatti fisici, che ci fa, ci ha fatti piombare dritti dritti nel più nero intimismo privatistico.
Senza scatenarci ad ammaestrare gli altri, che fine facciamo? Se non sbraitiamo, se parliamo piano, educatamente, gentilmente, senza tesi da dimostrare, che ne sarà di noi?
Travaglismo e viganismo come modi d’essere: sarcasmo e lacerazione di vesti. Che vanno bene, ma in nome di cosa? Il problema è tutto qui.
Formigonismo come visibilità di appartenenza religiosa, pretesa e ottenuta, sia quel che sia.
Ha ragione Rovatti: i social hanno trasformato i rapporti caldi in rapporti freddi, ma davanti all’afa ogni refrigerio è auspicabile e desiderato.
E c’è una zona, per niente illuminata, molto in ombra anzi, dove la presenza esterna allo spazio pubblico consacrato dai social risulta non solo possibile ma necessaria, pena il dover mettere in discussione la propria identità profonda.
E questa zona è lo spazio della consorteria, della complicità.
Abbiamo mai provato a pensare al significato altamente positivo che ha ormai assunto il termine “complicità”?
Da un’accezione deteriore – si è complici in una qualche colpa, di un qualche male – la “complicità” è divenuta sinonimo sostanziale quantomeno di vera passione reciproca, segnatamente amorosa, tra chi si frequenta d’abitudine. Se non sei complice di qualcuno, se non hai mai provato la complicità, manco i tuoi sentimenti più intimi sai vivere bene, sei un disadattato.
Siamo del tutto esenti non diciamo dal ruolo riconosciuto ma dal desiderio di insegnare la morale agli altri? Noi che non siamo piddini e cattocomunisti e nemmeno berlusconiani, non siamo pedofili e non abbiamo ricevuto nessuna condanna per corruzione, noi abbiamo con ciò stesso ogni titolo per addobbare il palco e tuonare contro gli altri?
In che modo?
Ma che domande sono? Ad esempio con l’immarcescibile efficacia di volgarità e turpiloquio.
Quel bel corposo, sonoro, mellifluo “vaffa.....” che ognuno di noi vorrebbe ricevere al mattino appena si mette per strada, no?
Il turpiloquio va così di moda e tanto consenso, anche elettorale, attrae che può ben essere pietra di paragone: se lo uso io, sono brillante, perito delle cose di mondo e acuto osservatore; se lo usano gli altri sono beceri dileggiatori privi della minima padronanza di bon ton lessicale, analfabeti di stile e di modo.
Il sapere di non sapere è esattamente rovesciato: sappiamo di sapere che travaglismo, viganismo e formigonismo si prendono sotto braccio per fare assieme qualche bella passeggiatina – magari sotto il colonnato del Bernini -, ma fingiamo di non saperlo. Noi siamo diversi. Noi siamo altri da questo triangolo delle Bermude culturale.
Siamo sicuri?
Travaglismo, viganismo e formigonismo non scendono a scurrilità linguistiche, certo, non si sporcano a tal punto, ma io, che forse non son così avveduto, me ne servo come equipaggiamento motivazionale per dar fuoco alle polveri, alle mie polveri interne, e vai di parolaccia.
Però è solo un esempio, niente di più. Un esempio anche piccolo, perfin minuscolo.
Resta tuttavia un’immagine di me rispecchiata nei vetri da cui si affacciano gli “ismi” ammaestranti.
Immagine poco gradevole: quel burattino che «sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia».
Povero Pinocchio che non avrebbe avuto altro desiderio che quello di abbracciare – il papà, la fata, Lucignolo, persino il Gatto e la Volpe -, ma era ancora un pezzo di legno.
Forse non è poco gradevole, forse è un’immagine tenera. O se non altro simpatica.
Una magia lo trasformerà e gli darà corpo di carne.
Luigi Murica