Inferno - disegno di Rodafà Sosteno
Visto il caldo che ancora fa, per restare in tema, oggi parleremo dell’inferno.
Papa Benedetto XVI ha sostenuto che l’insegnamento delle cose ultime (i cd. novissima), come l’inferno, il purgatorio (di cui si è già parlato nel n. 455 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriarchiviati2/numero-455---3-giugno-2018/il-purgatorio-e-l-indulto), costituisce parte centrale della nostra fede.
Nel 1306, nella Cost. Benedictus Deus, Papa Benedetto XII affermava dogmaticamente: «Noi inoltre definiamo che, secondo la generale disposizione di Dio, le anime di coloro che muoiono in peccato mortale attuale, subito dopo la loro morte discendono all’inferno dove sono tormentate con supplizi infernali».
L’inferno, secondo il cattolicesimo, è eterno perché dopo la presente vita temporanea, dove ci troviamo per prova, si entra nell’eternità; chi muore in stato di peccato mortale viene condannato all’inferno eterno (nn. 1035 e 1861 Catechismo), perché il termine giustizia di Dio significa sicura punizione per i peccatori, tenendo inoltre presente che tutti nascono già peccatori a causa del peccato originale. L’inferno è il luogo di tormenti dove per tutta l’eternità si soffre:
- per la privazione della visione di Dio, che si ha solo paradiso;
- per la pena dei sensi, visto che il fuoco eterno causa sofferenza reale, brucia e reca dolore, senza però distruggere.
E c’è da dire che col nuovo Catechismo va ancora bene ai dannati: infatti, ai tempi di Papa Innocenzo III (De contemptu mundi), non bastava il fuoco inestinguibile che avrebbe fatto piangere; nell’inferno c’era anche il ghiaccio che faceva stridere i denti; poi c’era la puzza; la quarta pena erano i vermi che avrebbero roso il cuore; la quinta pena era la sferza dei demoni.
Papa Benedetto XVI (nel suo libro Introduzione al Cristianesimo) ha dato almeno una definizione più razionale e moderna dell’inferno: egli sostiene che, allorché l’uomo, disconoscendo i suoi limiti, pretende di vivere unicamente per conto suo, in maniera completamente autarchica – sarebbe questa la vera essenza del peccato - non fa che consegnarsi alla morte. Per lo meno questo papa non parla più di fiamme che bruciano con dolore e per sempre, ma senza consumare. L’inferno è decidere di stare da soli, è la sofferenza di non poter più amare.
Sostiene il domenicano Cavalcoli; “Se essere cristiani vuol dire credere a quello che Cristo ci dice, coloro che non credono all’esistenza dei dannati all’inferno non possono chiamarsi cristiani”, e appunto il non credere fu uno dei motivi per cui Giordano Bruno finì sul rogo.
Però, nonostante l’opinione del domenicano Cavalcoli, l’esistenza dell’inferno non sembra essere un dogma di fede. È stato infatti definito dal magistero che se una persona muore in peccato mortale va all’inferno, ma non è mai stato definito che una singola persona apparsa sulla terra sia morta in peccato mortale. Lo stesso papa Giovanni Paolo II ha affermato che la dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è dato di conoscere, senza speciale rivelazione divina, quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti. Quindi, se non lo sappiamo, l’unica posizione opportuna e sicura del cristiano dovrebbe essere il silenzio. Invece in tanti hanno scritto e parlato dell’inferno con la presunzione di sapere tutto, mentre in realtà non potevano sapere con certezza di cosa stavano parlando.
Nei vangeli si trova una volta la parola “paradiso” (Lc 23, 43), e la prima persona che entrerà in paradiso è un grosso delinquente, che noi avremmo immaginato destinato all’inferno o, ben che vada, al purgatorio.
Invece la parola “purgatorio” non esiste; la parola “inferno” non esiste. La potrete trovare solo nelle vecchie edizioni del Nuovo Testamento, perché così veniva tradotta (erroneamente) la parola greca Ade o la latina inferi.
Ma esattamente cos’erano l’Ade o gli inferi nella mentalità di allora? La terra era considerata una specie di rettangolo piatto. Sopra la terra c’erano i cieli, ben 7; al terzo cielo c’era il paradiso (2 Cor 12, 1-4; Libro segreto di Enoch, Capp.III, 1; VII, 1; VIII, 1 con il primo, secondo e terzo cielo). Sopra il settimo cielo stava Dio: ancora oggi, quando raggiungiamo un momento di grande felicità, diciamo che siamo al settimo cielo, senza renderci conto da dove arriva l’espressione. I sette cieli stavano a significare che la distanza fra Dio e gli uomini era abissale e incolmabile.
Sotto la terra, invece, c’era una grande caverna, dove tutti, buoni e cattivi, finivano inghiottiti con la morte. Questo era il regno dei morti (Gn 37, 35; 44, 31), dove tutti vivevano come ombre pur avendo la memoria perfetta della loro esistenza terrena: i cattivi stavano nella parte più buia, i buoni stavano un po’ più in alto, in una zona un po’ più luminosa, come si evince dalla parabola del povero Lazzaro, ma sempre ombre restavano. Questa caverna, la cui bocca tutta ingoia, nella lingua ebraica si chiamava Sheol. Ma mentre per i farisei Sheol era un luogo di attesa della risurrezione, dove venivano per cosi dire “archiviati” tutti coloro che avevano vissuto, per i sadducei, stretti sostenitori di una rigida adesione alla Torah, Sheol restava un regno di ombre, non ammettendo essi la resurrezione, visto che la Torah non la prevedeva. Nella parabola di Lazzaro ed il ricco epulone (Lc 16, 31), Luca utilizza chiaramente la cosmologia e la dottrina dei farisei, che già credevano alla resurrezione.
Poco più di un secolo prima della nascita di Gesù, la Bibbia venne tradotta dall’ebraico in greco per farla conoscere al popolo ebraico che si era sparso lungo tutto il bacino del Mediterraneo e non capiva più l’ebraico. I traduttori, quando si sono trovati di fronte al termine Sheol, lo tradussero con il nome della divinità greca che presiedeva il regno dei morti. Nel mondo greco c’era Zeus che stava in cielo (Giove per i romani), Poseidone che stava nel mare (Nettuno per i romani), e sotto terra c’era il temibile Ade (Plutone per i romani): quindi Ade è il nome greco del regno dei morti.
Basta ricordare l’Iliade (I, 3) allorché indica dove finiscano le anime forti degli eroi uccisi in combattimento; oppure l’Odissea (XI), dove Ulisse scende nell’Ade, ottenendo un’anteprima sul suo destino. Ed è questo il termine che viene usato, poi, anche nei vangeli, originariamente scritti in greco. Quando i vangeli vennero tradotti dal greco in latino, poiché anche nella cultura romana si distinguevano gli dei superi (quelli che abitavano le regioni celesti) dagli dei inferi (quelli che abitavano sotto terra), la parola Ade venne correttamente tradotta con Inferi, con riferimento a quello che sta sotto: nulla a che vedere con la nostra parola inferno, frutto di errata comprensione e traduzione della parola inferi. Inferno, infatti, è il luogo del castigo di Dio. Inferi o Ade è il luogo dove, secondo un’idea dell’antichità, finivano tutti i morti.
In effetti, l’errata traduzione si trovava anche nella vecchia formulazione del Credo – che ancora si recitava quand’ero piccolo – ove si diceva che Gesù ‘Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese all’inferno; il terzo giorno risuscitò…’
Poi, ci hanno spiegato che, in realtà, si trattava del limbo (ma allora perché non si è detto che Gesù era disceso al limbo?), dove le anime di tutti i giusti, non potendo ascendere in paradiso a causa del peccato originale di Adamo, attendevano la redenzione di Gesù (artt.115s. Catechismo Pio X). Dunque Gesù non si interessava più di chi era già finito (per sempre) all’inferno, ma solo di quelli finiti archiviati nel limbo, evidentemente ritenuto più prossimo all’inferno che al paradiso.
Ma avendoci insegnato che anche chi finisce nel limbo non potrà mai godere della visione di Dio in paradiso, i casi sono due: chi è morto senza battesimo, a prescindere se prima o dopo dell’avvento di Gesù, non può ascendere al paradiso. Oppure, se quelli morti prima di Cristo sono stati comunque spediti in paradiso, quelli nati dopo la morte di Gesù sono da considerarsi molto più sfigati perché dovranno restare per sempre, da soli, nel limbo. Ma in tal caso, per questa categoria, l’arrivo di Gesù non è stata affatto una Buona Novella, perché ne conseguirebbe che il Gesù storico, il quale ha portato salvezza per tutti, invece di salvare tutti ha portato in realtà l’esclusione per quelli nati dopo la su nascita e non battezzati. Se solo Gesù fosse arrivato un millennio più tardi anche quelli nati nel primo millennio avrebbero potuto essere spediti ancora in paradiso, pur senza battesimo. E allora, può la salvezza dipendere dal momento storico in cui uno è nato? Sappiamo bene che, secondo i vangeli, Gesù accoglieva e dava vita e salvezza a tutti, specialmente ai più disgraziati, ai peccatori e agli esclusi. Invece il Dio che ci è stato predicato, dall’anno 0 in poi salva soltanto coloro che sono stati battezzati e gli si sottomettono.
Forse per questo, oggi, il tiro è stato corretto, si parla di discesa agli inferi (n. 633 Catechismo), e non più all’inferno o al limbo, per significare che, nella sua discesa, Gesù portò la vita anche là dove regnava la morte perché Gesù possiede anche le chiavi del soggiorno dei morti (Ap 1, 18): la vita è più forte della morte anche per tutti quelli che erano morti prima di lui (1Pt 4, 6; 1Cor 15, 20). In altri termini, si cerca oggi semplicemente di affermare che l’azione salvifica non è rivolta solo al presente e alle generazioni future, ma riguarda anche tutto il passato dell’umanità (Lorizio P.): il battesimo, per un momento, va nel dimenticatoio.
Anche il famoso passo di Matteo 16, 18 in passato veniva letto così: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa.
È noto che, nell’antichità, più le porte di una città erano robuste, più avevano forza. Da questa frase si deduceva che, se le porte dell’inferno, cioè del male (per quanto forte), non potevano mai prevalere nei loro attacchi contro la Chiesa, la Chiesa doveva necessariamente essere perpetua, durare fin che durava il mondo senza poter essere distrutta. La deduzione dottrinale, però, era sbagliata, perché costruita sempre sulla parola inferno che è stata cancellata ed è stata oggi sostituita correttamente con la parola inferi (in greco c’era sempre la parola Ade), la quale nulla ha a che vedere col Male o col diavolo. Oggi il passo si spiega semplicemente col fatto che Gesù sta affermando che il regno del Dio che comunica vita è più forte del regno della morte, del regno degli inferi o dell’Ade che dir si voglia, quella bocca che ingoia e divora tutte le vite, buone e cattive.
La stessa correzione è avvenuta nell’Apocalisse 6, 8, dove si leggeva che l’inferno veniva dietro alla Morte. Anche qui il testo greco dice “Ade”, e Ade non può essere scambiato con inferno, sì che finalmente è stato tradotto correttamente con inferi, cioè il regno dei morti. Lo stesso cambiamento si ha anche in Lc 16, 23, dove si parla del ricco epulone e del povero Lazzaro. Qualsiasi testo aggiornato parla oggi di Ade o di inferi, ma non più di inferno.
Perfino nella seconda lettera di Pietro (2Pt 2, 4), dove si leggeva che Dio aveva precipitato gli angeli ribelli nell’inferno, la parola è scomparsa e ci si limita a dire che Dio li precipitò negli abissi tenebrosi (dal greco: tartaro, la parte più profonda dell’Ade), tenendoli prigionieri per il giudizio.
Insomma i pii conservatori della religione si sono visti scippare la parola Inferno, che nei vangeli non c’è.
A questo punto il cattolico doc mi ricorderà che nei vangeli si parla comunque di inferno, quando si usa la parola “Geenna” (n. 1034 Catechismo): ad esempio quando Gesù preso dall’ira apostrofa gli ascoltatori chiamandoli vipere e ricordando che non sfuggiranno al castigo della Geenna (Mt 23, 33). Sempre nel Vangelo di Matteo si legge (Mt 5, 22): “Chi dà del pazzo al fratello sarà sottoposto al fuoco della Geenna”. Teniamo presente che, all’epoca, dare del pazzo a una persona aveva un significato assai diverso rispetto a oggi; il pazzo, nell’antichità, veniva escluso dall’accampamento, ed essere esclusi dall’accampamento significava in quei tempi grami andare incontro a morte certa perché da soli non si sopravviveva.
La Geenna (“Gehinnom” in inglese) è il nome dato all’inferno nella letteratura rabbinica: ma è importante sapere che nell’ebraismo non esiste l’idea di una punizione eterna per i malvagi dopo la morte: “Il Santo, che benedetto sia, condanna i malvagi nella Geenna per 12 mesi. Prima li affligge col prurito, quindi col fuoco ed infine con la neve. Dopo 12 mesi i loro corpi sono distrutti, le loro anime sono bruciate e sparpagliate dal vento sotto le piante dei piedi dei giusti”: i malvagi vengono completamente distrutti; non resta più niente.
Ma, in realtà, cosa è questa Geenna? Se uno fa un viaggio a Gerusalemme può vedere ancora oggi la Geenna, una delle tre valli di Gerusalemme. Ge significa valle, Hinnòm è il nome di una famiglia proprietaria del terreno (Gs 18, 16: valle del figlio di Hinnòm), e quindi Gehinnom, valle di Hinnòm (Gs 15, 8) da cui Ge(h)enna (Ricciotti G.). Ai tempi di Gesù era la valle dove s’incenerivano i rifiuti della città. Si trattava di una valle profonda (oggi assai meno) nella parte sud dove in passato, ai tempi della Bibbia, c’erano i forni crematori in onore del dio Moloch. Quando, in quei tempi, una persona doveva intraprendere un’impresa particolare, cominciare un lavoro straordinario, oppure dare una svolta nella propria esistenza, era pratica normale prendere un proprio figlio, andare in questa valle e gettarlo in quel forno crematorio sacrificandolo al dio Moloch.
Ci fu finalmente un re, tale Giosia (verso il 600 a.C.), un grande riformatore, che profanò la valle della Geenna dove perfino i re di Gerusalemme avevano in passato sacrificato i propri figli (2Cr 28, 3; 33, 6), affinché nessuno potesse far passare per il fuoco suo figlio o sua figlia in onore al dio Moloch. D’allora in poi la Geenna venne trasformata in discarica dove il fuoco bruciava in continuazione, ma dove l’immondizia veniva consumata; e allora gli ebrei per non entrare in questo luogo che l’immondizia rendeva ovviamente impuro, smisero pian piano di praticare questo culto a Moloch (Maggi A.). Dunque una brillante soluzione pratica per porre fine a una tradizione religiosa che non si riusciva a sconfiggere col convincimento razionale.
Pertanto, già qualche secolo prima di Gesù, la Geenna era stata trasformata nel deposito dell’immondizia, o meglio nell’inceneritore di Gerusalemme. Gerusalemme per quell’epoca era una città abbastanza popolosa, e durante le presenze annuali di pellegrinaggio, raddoppiava e a volte triplicava i suoi abitanti: tutti i rifiuti di questa città venivano buttati giù in questo burrone ed ivi bruciati per essere eliminati: ecco la “valle del fuoco” di Matteo 18, 9.
Tornando al passo evangelico “chi mi dice pazzo”, chi vuole in realtà escludermi dalla sua vita, vuole allontanarmi dalla società; allora Gesù dice: “se tu escludi qualcuno dalla tua vita, la tua fine è la Geenna di fuoco, è la fine definitiva della tua esistenza,” al pari dei rifiuti buttati nella discarica (Maggi A.). Come quando muore un animale e la carcassa viene buttata nella Geenna, così sarà poi anche la tua morte, perché chi esclude qualcuno dalla propria vita, si autoesclude dalla vita di Dio, si autocondanna e alla fine sparisce come cenere nel nulla, come immondizia nell’inceneritore. Parlando della Geenna Gesù parla, come sempre, con esempi concreti che tutti possono capire perché tutti sanno cos’è la Geenna lì vicina: è il fuoco che non si spegne mai, e non perché dura magicamente in eterno, ma perché viene alimentato di continuo. Cioè, è il fuoco che non si spegne mai, non l’immondizia che non si consuma mai. Infatti, cosa fa il fuoco sempre acceso? Distrugge tutto quello che gli si butta. Quindi, in Matteo 18, 9 Gesù avverte che se certi comportamenti non vengono subito stroncati portano l’uomo alla rovina totale, illustrata attraverso l’immagine di un fuoco inestinguibile, com’era quello che bruciava continuamente nella discarica di Gerusalemme (Maggi A.). Anche in Mc 9, 43-49 il fuoco della Geenna descrive semplicemente l’autodistruzione del discepolo che si lascia travolgere dalle proprie ambizioni (Mateos J. e Camacho F.).
Ma da dove, invece, si ricava che l’uomo-immondizia dovrebbe bruciare in eterno, senza consumarsi mai? Com’è che in ognuno di noi è ben chiara l’immagine di un luogo nel quale i diavoli arrostiscono in eterno i condannati su graticole, con enormi forchettoni e con lo scudiscio? Qualcuno ce l’ha raccontato. Non solo Papa Innocenzo III, ma molti santi dicono di aver avuto la visione dell’inferno, del quale ci hanno dato descrizioni terribilmente impressionanti. Ma rivelazioni private, come ha detto a Friburgo Papa Benedetto XVI, non possono fare testo perché solo il vangelo è l’unica identità autorizzata per i cristiani. E il vangelo non ci dice nulla di quello che raccontano i santi e che poi ci è stato insegnato come verità. Il papa emerito ha poi opportunamente anche aggiunto che la fede va ripulita da ciò che solo apparentemente è fede, mentre è mera convenzione e abitudine. Quindi dobbiamo buttar via tutte quelle vetuste immagini derivate da traduzioni e tradizioni sbagliate.
Oggi prende sempre più piede l’idea che l’inferno non abbia un’esistenza oggettiva, ma debba piuttosto essere interpretato come immagine della sorte infelice dell’uomo che si autocondanna, visto che Dio non ha bisogno di condannare all’inferno: l’inferno «non ha un’esistenza oggettiva; esso è semplicemente una reale possibilità nelle mani dell’uomo, creazione quindi della creatura e non del Creatore. Per questo ormai si parla di auto dannazione e non più di condanna»[1].
Certo, a molti fa ancora comodo giocare sul termine “fuoco eterno”, che non finisce mai (Is 66, 24), perché questo è funzionale all’idea di un Dio che deve fare paura. Il fuoco segno di distruzione, al contrario del Regno dei cieli, non è stato però preparato fin dalla creazione del mondo (Mt 25, 34 e 41), ma in esso si realizza quanto Gesù aveva detto: «A colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha» (Mt 13, 12), il che non significa che i ricchi saranno ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri, ma che a chi produce vita il Padre regala ancora più vita, mentre a chi non si dona non solo non verrà dato più niente ma, tolto quel poco che ancora ha (= l’ultimo soffio di vita), non sarà più nulla, perché subirà la distruzione totale (Maggi A.), la seconda morte.
Nel NT non si parla di infermo, ma si parla espressamente di seconda morte (Ap 20, 6; 20, 14; 21, 8), cioè dell’annientamento totale. Si muore forse due volte? Sì, e anche questo i preti non ce l’hanno spesso detto. Esistono due morti; la prima è la morte biologica. Anche oggi, in ogni persona, sono morte milioni di cellule, domani ne morranno altrettante, ma ogni persona continua a vivere tranquillamente, senza che se ne accorga, e neanche gli altri se ne accorgono. Poi arriva anche il momento della morte biologica dell’individuo, la prima morte: gli altri se ne accorgono; ma se la morte biologica incontra una persona carica di amore, carica di vita, questa morte non le fa assolutamente niente, perché l’interessato non se ne accorge: è questa la resurrezione, o la seconda nascita, cioè il passare indenni attraverso la morte biologica.
A questo punto, si può notare come anche le speranze siano identiche al momento della prima nascita e al momento della morte biologica-rinascita-resurrezione. La differenza sta solo nella consapevolezza della speranza: il neonato spera inconsapevolmente le stesse cose che chi sta per morire spera consapevolmente. Entrambi sperano che troveranno un volto che li salvaguardi (su questa terra la madre, e poi Dio); entrambi sperano di essere riconosciuti per quello che sono, che saranno chiamati per nome; che il loro nome sia scritto nei cieli (Lc 10, 20); entrambi sperano di trovare uno spazio accogliente che li faccia vivere; entrambi sperano di essere illuminati, di andare incontro a un’accoglienza che faccia loro comprendere il senso profondo della vita.
La resurrezione non è, perciò, la rianimazione di un cadavere, ma è una nuova azione creatrice di Dio che consente che la persona prosegua la sua esistenza, nonostante la prima morte (quella biologica). Se però la prima morte trova un individuo svuotato di energia vitale, indurito nel male, pietrificato nel suo egoismo, ecco che l’Apocalisse parla di morte seconda per la quale non c’è più rimedio.
Anche il vescovo cattolico olandese Schillebeeckx, pure famoso teologo, aveva proposto come ipotesi plausibile la distruzione totale degli empi da parte di Dio; ma il magistero più ortodosso, avendo per tradizione parlato dell’inferno come pena eterna, non vuol sentir parlare di ipotesi diverse. Non posso condividere l’idea che in mezzo, fra ragione (solo loro, che sanno tutto) e torto (di tutti gli altri), ci sia il nulla, perché così pensano i refrattari alla riflessione. Ma se solo riflettiamo, se la comunione con Dio è il fondamento della vita eterna, perché l’assenza di questa comunione, cioè la ‘seconda morte’ (Ap 20, 6) non potrebbe essere la fine di ogni esistenza? Non avere parte alla vita eterna è già inferno, senza bisogno di essere torturati in eterno.
Su questa linea sembra porsi anche il Vangelo di Matteo, quando Gesù dice: “non abbiate paura di quelli che vi possono togliere la vita, abbiate paura di colui che può distruggere la vostra esistenza nella Geenna” (Mt 10, 28). Avete notato? Gesù parla di “distruggere, far perire”, non di torturare in eterno. E chi è costui che può far perire? Ad es., è mammona, il dio del denaro, il dio del successo, questo è il diavolo che porta alla distruzione. Ricordo che per Pietro Lombardo, il noto teologo medioevale, “Mammona” era proprio un diavolo (in Sententiarum Libri Quatuor, Libro II, Distinctio &, §4, in www.documentacatholicaomnia.eu).
Nei vangeli – nonostante la contraria opinione della dottrina ufficiale - non si parla di castighi eterni. Ci sono dei moniti: chi vive per gli altri realizza sé stesso, chi vive fino alla fine per sé distrugge sé stesso. Fine del discorso. L’inferno significa seconda morte (Ap 20, 6), ed è semplicemente la massima infelicità che l’uomo realizza tutta da sé: la prima morte non fa che sigillare ciò che l’uomo ha modellato durante la sua vita terrena (Boff L.).
Si può notare che anche nella Genesi, quando Dio proibisce ad Adamo ed Eva di mangiare dall’albero della conoscenza del bene e del male, cosa minaccia in caso di disobbedienza? Forse l’inferno eterno? No! la morte (Gn 2, 16-17). Quando un genitore proibisce qualcosa al figlio, lo avverte di quale sarà la punizione in caso di disobbedienza: “Se fai questo, ti arriverà uno sculaccione!” Adamo ed Eva hanno condannato con la loro disobbedienza sé stessi e l’intera razza umana, eppure Dio non li ha mai preavvisati che sarebbero bruciati all’inferno per sempre. Neanche dopo la loro disobbedienza menziona la condanna dell’inferno, ma dice solo che torneranno ad essere polvere (Gn 3, 19): questa è la punizione. Ma per tornare a una condizione iniziale bisogna esserci stati, e dov’era Adamo prima che Dio lo creasse? Non esisteva, era polvere. Ma allora Dio avrebbe imbrogliato Adamo dicendogli che tornava alla terra, quando invece lo aspettava un bell’inferno, con un fuoco eterno che mai l’avrebbe ridotto in polvere.
Anche nel Salmo 37, 9 Dio proclama che i malfattori saranno stroncati, mentre i buoni vivranno per sempre. Stroncare vuol dire sempre distruggere una volta per tutte, non far torturare nel fuoco eterno.
Ma nell’Apocalisse (Ap 14, 10), insisterà il ferreo tradizionalista, c’è un chiaro richiamo all’inferno perché si dice che la bestia e il suo falso profeta vengono gettati vivi nel lago di fuoco e zolfo (Ap 19, 20); analoga fine per il diavolo (Ap 20, 10), per chiunque non abbia il suo nome scritto nel libro della vita (Ap 20, 15), e pure per gli idolatri, i vili, gli increduli, gli abbietti e gli immorali (Ap 21, 8), per tutti coloro che hanno adorato il mostro (Ap 14, 8-10). È vero, ma le cose non stanno proprio così. Si dimentica, infatti, una cosa fondamentale: che anche la morte e l’Ade vengono scagliati nel fuoco (Ap 20, 14), e l’unico pensiero che può venire in mente è che ci si trovi di fronte a una metafora per dire che saranno definitivamente distrutti. È fuori di ogni logica pensare che la morte possa essere torturata in eterno col fuoco, come si sostiene accada invece agli uomini, e come se fosse una persona. Lo stesso per l’Ade, il regno dei morti.
In Ap 21, 27, poi, non si parla più neanche di fuoco, ma solo si esclude che possano entrare nella nuova Gerusalemme coloro che commettono abominio o falsità.
Anche nel parlare di fuoco e zolfo, perché non pensare che si faccia riferimento solo al concetto che in un simile stagno non potrà germinare mai più alcuna vita, per cui non c’è alcuna speranza di continuare ad esistere per tutte quelle persone che non hanno avuto abbastanza amore su questa terra per aprirsi loro stesse alla vita? Se uno durante la sua vita terrena ha seminato e comunicato vita, sarà questa a prevalere; se ha seminato morte, sarà questa a prevalere. L’inferno, dunque, non deve essere visto come una realtà simmetrica e negativa rispetto al paradiso, ma semplicemente come non poter aver parte nella nuova vita. Il chicco di grano marcisce e muore senza diventare spiga. Il non esistere più è già una punizione, ed è la conseguenza del proprio comportamento, e non un atto positivo della giustizia punitiva di Dio che manda i peccatori a bruciare in un fuoco eterno.
Nessuno si ricorderà più di queste persone che sono state incapaci di amare. Non occorre immaginare un regno-ombra dell’inferno accanto a quello eternamente felice di Dio, e ai beati verrà risparmiato che a un tiro di schioppo dalla loro felicità esistano altri esseri umani tormentati per sempre con sofferenze indicibili. Sarebbe abbastanza incongruo pensare che i beati, i quali non hanno perso il proprio senso di misericordia, possano gioiosamente esultare per l’esistenza, accanto al paradiso, di questo campo di concentramento cosmico in cui gli oppressori di una volta sono ora tormentati in eterno: i giusti hanno già sperimentato in terra la coesistenza del bene e del male; farla persistere ancora, e per sempre, stonerebbe con l’idea che la bontà ha sempre un futuro, anche dopo la morte, mentre il male, no. Inoltre, Dio-Amore non può vendicarsi: lascia semplicemente il male alla sua stessa (limitata) logica. Dunque, proprio per il suo stesso senso di vuoto, per la sua stessa inconsistenza, il mondo del male, prima tanto potente e perverso, in base alla sua stessa logica sprofonda nel nulla assoluto.
Un’ultima osservazione: siccome in natura tutto quello che brucia si consuma e alla fine si dissolve (e così la pensava l’ebraismo sulla fine dei cattivi, come si è detto), in base alla concezione ortodossa cattolica si può notare un’ulteriore gentile nota di sadismo in più da parte di questo Dio cristiano che, lungi dal confermare di essere Amore eterno, assomiglia più a un kapò di una Auschwitz eterna: infatti una punizione ha senso se serve per tutelare altri o comunque per educare il castigato, ma se ha come fine solo sé stessa è incompatibile con l’amore. Di fronte alla idea cristiana che Dio è Amore, ci si dovrebbe necessariamente domandare com’è compatibile questa idea con l’esistenza di un campo di concentramento cosmico eterno, dove non c’è alcun significato terapeutico alla sofferenza, ma si è davanti alla pura vendetta di Dio perpetrata in eterno? (Schillebeeckx E.). Come può superarsi la evidente contraddizione fra un luogo di punizione eterna e l’insegnamento di Gesù, secondo il quale il Padre perdona sempre (Mt 18, 21-22)? E perdonare non significa appunto eliminare la vendetta? Difficilmente si sopporta un Dio che entra in conflitto e in contraddizione con ciò che è più profondamente umano.
Perciò, contro il fondamentalismo cattolico che grida che esiste una sola Verità Assoluta (la sua), bisogna opporsi a far sapere alla gente che possono esistere anche altre strade.
Dario Culot
[1] “Non si tratta di un castigo di Dio inflitto dall’esterno, ma dello sviluppo di premesse già poste dall’uomo in questa vita. Le Scritture usano un linguaggio simbolico” (Udienza generale del 28.7.1999, §§ 1 e 2, in www.vatican.va/ Sommi Pontefici/Papa Giovanni Paolo II/Udienze/1999). Cfr. anche Frosini G., La pena dell’inferno, “Famiglia Cristiana” n.4/2012, 11.