Blazing flames, Irtiza Haider - immagine tratta da commons.wikimedia.org
Come immaginavo l’articolo sull’Inferno ha provocato, più di altri, un certo sommovimento. Per alcuni è stato interessante, per altri sorprendente, ma per molti altri ancora è risultato inaccettabile, perché contrario all’insegnamento tradizionale della Chiesa.
Per quest’ultimo tipo di persone, ogni qualvolta sentono un discorso che oltrepassa gli stretti limiti canonici, la successiva discussione non verte su quanto è stato detto, ma sulla questione se la Chiesa ufficiale condivide o meno la tesi espressa. In altre parole, essi si chiedono soltanto se sia legittimo anche solo pensare a ciò che è stato espresso, nella piena convinzione che l’unico pensiero ammissibile è e sarà sempre il pensiero ufficiale, il quale già contiene tutte le verità. Tutto il resto non ha diritto di circolazione, non costituendo verità, ma solo errore ed eresia. Evidentemente queste persone si ritengono già onniscienti senza neanche dover passare attraverso l’impiccio del ragionamento, e men che meno si sentono in dovere di controbattere le idee che essi reputano errate ed eretiche con convincenti argomentazioni logiche di segno opposto. Come veri soldati di Cristo (2Tm 2, 3) combattono ferocemente ogni eresia, delegando però ad altri la fatica di pensare per loro. Faccio infatti notare che coloro i quali credono senza pensare, convinti di aver già in mano la verità, e perfino convinti di essere gli unici a pensare rettamente, in realtà non pensano affatto, ma si limitano a ripetere pensieri di altri uomini (anche illustri, ma pur sempre uomini), i quali hanno pensato prima di loro, evidentemente anche per loro. Albert Einstein, non propriamente un credente, era stato assai feroce nei confronti di questo tipo di persone: «se qualcuno ama marciare in fila, vuol dire che ha ricevuto il suo cervello solo per sbaglio; per una persona del genere il midollo spinale sarebbe stato del tutto sufficiente». Ed è un dato di fatto che molti credenti credono solo a quello che vogliono sentirsi dire, e giustamente osservava Voltaire: “Le verità della religione non sono mai capite così bene come da quelli che hanno perso la capacità di ragionare”.
Forse per molti, ogni volta che nella chiesa si affaccia uno spiraglio di libertà e c’è la possibilità di uscire dalle righe dell’ortodossia, si scatena l’ansia di essere colpevoli di discostarsi dalla dottrina tradizionale e quindi di essere respinti da Dio (Drewermann E.). Personalmente, appartengo a quel gruppo di persone che non possono condividere l’idea che in mezzo, fra ragione e torto, ci sia il nulla. Questo significherebbe che uno solo possiede tutta la verità, mentre tutti gli altri sono nell’errore. Nella convinzione che nessuno possiede tutta la Verità, ma ne possiede al massimo qualche frammento, ritengo che nessuno possa permettersi di gridare come se questa sua parziale verità fosse tutta la Verità, quella con la “V” maiuscola. Nessuno, neanche il magistero, può perciò pretendere di sapere tutto, di avere in mano la Verità tutta intera trasmessagli da Dio, perché come ha ben detto il grande teologo cattolico indiano Panikkar, quand’anche Dio avesse fatto cadere dal cielo sulla terra la Verità tutta intera, essa, nell’impatto con la terra, si è frantumata in mille pezzi, e l’uomo è in grado di raccoglierne solo qualche frammento per volta. Ecco, mi sovviene quel cartello visto in una fabbrica veneta, che però ben si può applicare anche nel campo teologico:
El ignorante sa poco – El saggio sa niente – El ‘mona’ sa tutto
Penso senz’altro di far parte del primo gruppo, come giustamente han sottolineato alcuni che mi hanno contestato sapendo già tutto, e ribadisco che non ho alcuna pretesa di aver offerto, proprio io, la Verità Assoluta. Dico solo che, leggendo i vangeli, altre soluzioni sono razionalmente sostenibili, e così credo anche di dar voce a tanti che vorrebbero credere, ma non riescono a credere proprio perché quell’unica versione ripetuta per tradizione non riescono a digerirla. Sono anche ben conscio del fatto che qualche secolo fa sarei finito sul rogo dell'Inquisizione, proprio come Giordano Bruno, solo per aver manifestato pensieri non autorizzati; ma è anche vero che, in nome di Dio, per secoli ci comandavano di credere cose che Dio non ci ha mai comandato di credere. Se noi, oggi, dovessimo aderire all’idea che da secoli la Verità dottrinale è ormai stata raggiunta e non c’è più nulla da sapere, ma solo da accettare con umile sottomissione, dovremmo ancora credere che l’Inquisizione aveva ragione e Galileo aveva sbagliato sostenendo che la Terra gira attorno al sole, perché anche a questo ci ordinavano di credere. In ogni caso, visto che Dio stesso ci ha dato la ragione, se l’usiamo lo stiamo onorando, e non certo rinnegando.
Lo Spirito soffia dove vuole (Gv 3, 8), e allora come si fa ad essere certi che al di fuori della retta e tradizionale dottrina ortodossa tutto il resto è pura eresia? Come si può pensare che lo Spirito Santo resti agli arresti domiciliari solo nelle stanze degli uomini che si sono succeduti alla guida della Chiesa cattolica romana? Anzi, neanche lì, dal momento che oggi sono proprio i più tradizionalisti a contestare l’attuale Papa quando non segue esattamente la dottrina che essi hanno ben chiara in mente, evidentemente nella convinzione di avere l’esclusivo monopolio della Verità Assoluta, tanto da dire che questo Papa sta portando la Chiesa alla rovina. Sapendo già tutto, non riescono a concepire che chi esprime idee diverse dalle loro non necessariamente vuol distruggere la Chiesa, che è di tutti e non soltanto loro.
Ora, se qualcuno è a disagio per ogni idea che sta al di fuori delle spiegazioni dottrinali ufficiali, e vuol restare aggrappato ai vecchi insegnamenti perché questo gli dà sicurezza, continui tranquillamente a mantenere le sue credenze; ma non pretenda di imporre le sue idee immobili e cristallizzate a chi invece sente il suo stesso disagio interiore proprio perché, al contrario, gli viene impedito di riflettere su domande che continuano a interpellarci, e, non ritenendosi soddisfatto dalle spiegazioni ufficiali, cerca altre soluzioni possibili. Faccio parte di quelle persone che cercano di pensare in proprio e sono stufe di ripararsi dietro al sistema di dighe e di chiuse costruite dall’istituzione nel corso dei secoli, con la pretesa di tenere lontane le onde spumeggianti del mare agitato della vita, che resta sempre in movimento. Ma se – come detto - lo Spirito soffia dove vuole, non serve costruire dighe contro l’Infinito (Drewermann E.).
Bene! Tutta questa lunga tiritera mi è servita per spiegare perché non risponderò a critiche generiche in cui mi si rimprovera duramente di essere ignorante, di non aver studiato abbastanza teologia o di non seguire la retta ortodossia insegnata dal magistero, il che mi pone automaticamente nell’ambito dell’eresia con destinazione finale (sempre in automatico) all’inferno, perché è chiaro che queste persone non tollerano alcun dialogo. Sapendo già tutto, certamente non sono neanche sfiorate dall’idea che le loro affermazioni valgono per lo meno quanto altre, visto che comunque stiamo tutti parlando di cose che, in realtà, trovandosi al di là del nostro orizzonte, non possiamo conoscere. L’uomo è diviso da Dio da uno (spazio) muro invalicabile, che solo Dio, mai l’uomo, può superare, per cui, come dice il teologo Paolo Ricca, su questo tipo di questioni tutti possono fare affermazioni, ma nessuno può dimostrare un bel nulla.
E ora passiamo finalmente alle contestazioni mirate che mi sono state mosse.
1) Mi è stato fatto notare che c’è un collegamento stretto fra il giudizio universale (Mt 25, 32) e il fuoco eterno (Mt 25, 41) o il castigo eterno (Mt 25, 46), destino finale dei maledetti da Dio, per cui non si può negare l’esistenza dell’inferno, dove i peccatori sconteranno una pena eterna dopo il giudizio di Dio, e non certamente dopo un auto-giudizio.
Rispondo. Se Dio accoglie e dichiara giusto un esattore disonesto che si affida alla sua misericordia (Lc 18, 9-14) forse bisogna rivedere e impostare in modo nuovo la religione che benedice gli osservanti e maledice i peccatori, aprendo fra le due categorie un abisso invalicabile. Se Dio raggiunge per strada un ferito non attraverso i suoi rappresentanti religiosi, ma attraverso l’azione compassionevole di un eretico samaritano (Lc 10, 25-37), forse bisogna rivedere e impostare in modo nuovo la religione (Pagola A.).
Ora, per quel che riguarda questo giudizio finale, e in particolare la separazione dei capri che andranno al castigo eterno (Mt 25, 31ss.), ribadisco che questa indicazione non dimostra indiscutibilmente l’esistenza dell’inferno nei termini che ci sono stati insegnati. Immaginiamo di aver sentito questo racconto dalla bocca di Gesù come pagani: il racconto è di speranza, perché sembra dare possibilità di salvezza perfino a coloro che non hanno mai sentito parlare di Dio, come appunto i pagani (cosa all’epoca inconcepibile per i giudei, che li vedevano già condannati per l’eternità). Va messo in rilievo che Gesù dice: “venite benedetti dal Padre mio”, ma non dice agli altri: “maledetti dal Padre mio”. I maledetti si sono auto-condannati. La vita eterna o la morte definitiva si avranno in base a un giudizio che ogni persona emetterà da sé, e il metro non sarà la religione seguita, ma il come ci si è comportati verso gli altri. Coloro che si condannano da soli sono stati colpevoli di omissione, non avendo dimostrato la benché minima solidarietà verso gli emarginati, restando indifferenti alla loro vita e alla loro morte (Mateos J. e Camacho F.).
E questo, ognuno lo può fare da sé, che creda o non creda in Dio.
Papa Clemente I aveva ben espresso questo concetto quando fa dire a Dio che ha di fronte a sé il malvagio: “ti confonderò e ti porrò faccia a faccia con te stesso” (Lettera ai Corinti, XXXV, 10). Non serve il giudizio di Dio, e men che meno serve un dio vendicativo che manda i cattivi a bruciare per l’eternità.
La maggior parte della gente, in linea con la tradizione, pensa che ci sarà un duplice giudizio: quello individuale che avverrà alla morte di ciascuno e quello finale che coinvolgerà tutta l’umanità (Lorizio P.), ma l’evangelista Giovanni (Gv 3, 18) sembra dirci che siamo sempre davanti a Dio, per cui il giudizio avviene momento per momento: «chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato». In altre traduzioni, al posto di condannato, si legge che chi crede non è giudicato mentre chi non crede “è già” giudicato. Qualunque sia il termine usato, sembra che per Giovanni non ci sia da aspettare alcun giudizio al momento della morte. E allora ben si possono interpretare tutti questi passi nel senso che il giudizio di Dio in realtà spetta a noi stessi. Del resto se uno è accolto non pensa neanche che vi sia stato un giudizio (seppur positivo) nei suoi confronti; solo se c’è condanna pensa di aver subito un giudizio. Quindi il termine “giudizio,” analogo a “condanna”, è parola contrapposta a “salvezza”, e ben può venire da un’auto-valutazione. Il giudizio c’è, ma viene fatto da sé stessi: Dio viene per tutti come salvatore e non come giudice. Egli però non forza nessuno, invita. Il suo invito può essere accolto o respinto. Chi accoglie entra nella dinamica di Dio e si lascia trasformare (convertire); chi rifiuta non entra in questa dinamica e si chiude alla salvezza (Pagola A.).
La vita è piena soltanto quando si è vissuto per gli altri; chi non vive per gli altri, ma vive per sé stesso ha una vita mutilata. Quindi questa è la punizione: “eri un progetto di vita, e sei invece un aborto di uomo. Sì, sarai stato anche una persona molto religiosa (si vede che si rivolgono a Gesù chiamandolo “Signore”- Lc 25, 44). Eri pronto a servirlo, ma . . . il Signore non chiede di essere servito lui, chiede con lui e come lui di servire gli altri” (Maggi A.). ‘Quello che avete fatto a ogni piccolo lo avete fatto a me’ (Mt 25, 45).
Adoperando le immagini tipiche e il linguaggio colorito dei profeti della scrittura, Gesù parla poi di “ fuoco e castigo eterno” semplicemente inteso come frustrazione per la perdita dell’unica occasione della propria vita: vita per l’eternità avendo imboccato la strada giusta, oppure non-vita per l’eternità (Mt 25, 46) avendo imboccato la strada sbagliata. Comunque non si parla di tortura eterna, e nell’articolo contestato ho già spiegato la differenza fra fuoco che dura e immondizia che invece si consuma.
2) C’è poi la famosa parabola del banchetto. Mi si obietta che nella parabola del banchetto, in cui i primi invitati non vengono accampando scuse varie, sì che il re fa chiamare altri nelle strade, non sembra che l’uomo entrato nella sala del banchetto senza veste nuziale si auto-escluda, visto che viene cacciato fuori dallo stesso re: «legategli le mani e i piedi e gettatelo fuori nel buio, ivi sarà il pianto e lo stridor di denti» (Mt, 22, 13). Ecco che il re (Dio) giudica e manda all’inferno, dove si soffrirà visto che si parla di pianto e stridor di denti.
In primo luogo va osservato che questa parabola viene dopo quella dei vignaioli assassini (Mt 21, 33ss.), che ha scatenato l’ira dei sacerdoti e dei farisei in quanto, scrive l’evangelista, essi capirono che Gesù stava parlando di loro. Da parte loro, però, nessun segno di pentimento, né di conversione; anzi, intenzione sempre ferma di catturarlo per eliminarlo definitivamente. Ebbene di fronte a questa minaccia Gesù, non solo non indietreggia, ma rincara la dose con la parabola del banchetto, con la quale Gesù polemizza di nuovo con le autorità religiose giudaiche. Avendo le autorità religiose del tempo un forte senso dell’autorità e della gerarchia, capiscono perfettamente cosa Gesù intenda dire quando parla di un padrone della vigna o di un re. Esse si richiamano in continuazione a questo re (Dio), convinte di avere ricevuto da lui (in delega) i suoi poteri per esercitarli su questa terra, mentre Gesù fa loro capire che questo re non sta dalla loro parte.
Anche qui, pertanto, si può dare un’altra spiegazione oltre a quella tradizionale e letterale: l’episodio del banchetto chiarisce meglio che l’offerta d’amore di Dio è data a tutti quanti, anche se privi dell’invito formale, per cui non c’è nessuna persona che si possa sentire esclusa dall’amore di Dio (quelli che hanno l’invito in mano non vengono per loro scelta; quelli che non hanno l’invito in mano possono venire tutti); però non basta entrare nella sala del banchetto: una volta entrati, una volta che uno ha accolto l’amore di Dio, è chiaro che il suo comportamento deve cambiare. Gesù ha messo la conversione come condizione per appartenere al regno di Dio (Mc 1, 15). A una società basata sui valori dell’avere, del salire, del comandare, Gesù offre una possibilità alternativa di una società diversa dove ci sia la condivisione, lo scendere e il servire (Maggi A.). Se manca questo atteggiamento, manca l’abito! Quindi una volta che si accoglie questo amore, questo amore deve manifestarsi nel nostro atteggiamento quotidiano. Ad esempio, se Dio, pur vedendo la situazione tragica del peccatore, lo perdona sempre completamente, come potrebbe costui rifiutare di perdonare l’altro? Io non posso pretendere per me il perdono, se per primo sono incapace di perdonare l’altro (cfr. anche parabola Mt 18, 23-35 del servo perdonato che non perdona). Se non perdono l’altro, sono io che, col mio comportamento da falso cristiano sto dando scandalo; e sono sempre io che già mi autoescludo dal banchetto al quale sono stato invitato.
“Allora il re ordinò ai servi: ‘Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti’. Anche qui, adoperando le immagini tipiche e il linguaggio colorito dei profeti della scrittura, Gesù parla semplicemente della frustrazione per la perdita definitiva di un’occasione unica nella propria vita (Maggi A.). Un po’ meno di come, nella parabola dei cattivi vignaioli, gli stessi sacerdoti riconoscono che il padrone della vigna li avrebbe fatti perire tutti malamente (Mt 21,41): qui, semplicemente i non convertiti sono cacciati e in quanto legati non possono ritornare sui propri passi e rientrare nella sala illuminata dove si fa festa. Non vien data loro un’altra possibilità, una seconda vita. Invece di dire “pianto e stridore di denti” si potrebbe oggi dire: “sbatteranno la testa contro il muro”, avendo capito tardi che non hanno più possibilità di partecipare alla festa. All’epoca, poi, le strade erano buie (ecco le tenebre); non c’era l’illuminazione pubblica che c’è oggi. Se questi esclusi finissero all’inferno ci sarebbe stato il chiarore delle fiamme, non il buio della notte. E ricordo poi che neanche “perire” o “morire” significa tortura eterna.
3) Nella parabola del servo infedele, che fa i comodi suoi, - mi viene obiettato - non è certamente il servo che si auto-squarta: è il padrone (Dio), che torna all’improvviso, che «lo farà a pezzi e gli assegnerà la sorte degli ipocriti; ivi sarà pianto e stridor di denti» (Mt 24, 51). Anche qui, secondo chi mi critica, siamo davanti a un’altra prova evangelica dell’esistenza dell’inferno, nei termini ben conosciuti.
Anche in questo caso, a mio avviso, può valere lo stesso discorso fatto per il banchetto: se curi solo il tuo interesse, se non cambi comportamento e non cominci a pensare agli altri, sei sempre tu che ti autoescludi. E quando ti renderai conto di cosa hai fatto, sarà troppo tardi, perché non ti sarà data una seconda possibilità. In ogni caso, l’uomo fatto a pezzi muore definitivamente. Non si dice che, una volta fatto a pezzi, il castigato sarà ricomposto e poi di nuovo fatto a pezzi per l’eternità.
4) Altra obiezione: nei vangeli forse non si parlerà di fiamme che torturano per l’eternità, ma nell’Apocalisse, sì! Basta leggere Ap 20, 10: “E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta, e saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli”. Difficile – mi si dice – sostenere che lo stagno di fuoco e zolfo non sia l’inferno e che la pena non consista nella sofferenza eterna.
L’obiezione è legittima e seria, ma non mi sembra colga nel segno.
In realtà, in questo racconto complesso e articolato e quindi non di lineare interpretazione, al diavolo sembra essere riservato un trattamento speciale, diverso da quello riservato agli uomini. Insomma, a differenza degli uomini, questo povero diavolo, prima viene buttato giù dal cielo (Ap 12, 9), poi viene incatenato negli abissi per mille anni (Ap 20, 2s.), poi torna libero e gli si permette perfino di sedurre le genti fino a costituire un mega esercito, ma al momento del “dunque” tutti sono divorati in un batter d’occhio da un fuoco sceso dal cielo (Ap 20, 9). Solo il diavolo seduttore, ancora una volta, la scampa, ma viene subito preso e gettato nello stagno di fuoco dove sarà torturato in eterno (Ap 20, 10). Già qui si potrebbe dire: ma se lui viene torturato, dove ha il tempo e la voglia di torturare gli uomini dannati? Avrà altro cui pensare.
Comunque, prima di lui, anche i due suoi fedeli servitori (la bestia e il falso profeta) erano stati gettati vivi nello stagno di fuoco (Ap 19, 20), mentre tutti gli altri erano stati sterminati dalla spada (Ap 19, 21). Quindi, per tutti gli altri (uomini), una morte immediata e meno terribile che essere gettati vivi nel fuoco per essere bruciati in eterno. Non si parla di una tortura eterna per tutti questi altri.
Da ultimo, anche la Morte e il Regno dei morti (l’Ade) – non prima di aver sputato fuori tutti i morti che avevano ingoiato nei secoli,- sono giudicati (Ap 20, 13) e vengono gettati nello stagno di fuoco (Ap 20, 14), e con essi quelli il cui nome non era scritto nel libro della vita (Ap 20, 15). E chi è stato cancellato dal libro della vita? Forse il praticante credente che ha vissuto in modo indegno e che non può perciò portare la veste bianca (Ap 3, 5) perché ha vissuto la propria fede come un’arma, come un muro di divisone rispetto agli altri? O forse si tratta dei non credenti i quali però non si sono uniti all’esercito del diavolo? Ma se chi ha impugnato le armi (dimostrando maggior opposizione a Dio, e non solo disinteresse) è stato ucciso con la spada, era meglio unirsi all’esercito perdente: si otteneva una morte più rapida e definitiva.
Comunque, di nuovo, di nessuno di questi, all’infuori del diavolo e dei suoi due sodali, si dice che sarà torturato in eterno. Neanche della Morte e dell’Ade.
Dunque, nessuna di queste obiezioni mi sembra così decisiva, e neanche così incontrovertibile per poter confermare, senza ombra di dubbio, che l’inferno esiste nei termini che ci hanno sempre raccontato, e che l’interpretazione tradizionale sull’inferno debba accettarsi come verità unica e indiscutibile. Ricordo anche che Urs von Balthasar, uno dei grandi teologi del XX secolo, sostenne la possibilità che l’inferno fosse vuoto, e la Chiesa non ha mai condannato la sua posizione, confermata anzi da Papa Giovanni Paolo II il quale si limitò a dire che «la dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è dato conoscere, senza speciale rivelazione divina (ndr: che evidentemente non c’è nelle Scritture, altrimenti il papa l’avrebbe richiamata) se e quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti» (udienza generale, 28.7.1999).
Insomma, è mai possibile che Dio abbia costruito un inferno solo al fine di andare incontro alla struttura immaginata dalla Chiesa, per poi lasciarlo vuoto? Non è che l’inferno, così come ci è stato prospettato, è un’idea che serviva al magistero per placare il suo desiderio di giustizia retributiva? Questo hai fatto, questo ricevi.
Al contrario, non mi stupisce incontrare persone che si definiscono atee semplicemente perché ritengono che non si può credere a un castigo eterno se uno ha solo un briciolo di umanità, per cui, se Gesù (che ha raggiunto il massimo dell’umanità) avesse veramente detto questo (e come Dio avesse anche creato l’inferno insieme al Padre e allo Spirito santo), c’è un motivo serio per non credere in lui. In realtà queste persone incredule non credono all’insegnamento della Chiesa. In effetti penso che, quando ci viene prospettata una dottrina, dovremmo sempre domandarci: il Dio in cui credo è il Dio che Gesù ci ha raccontato?
Nel 2016, parlando ai giuristi, Papa Francesco aveva detto che non c’è pena valida senza speranza, e che una pena che non porta speranza è una tortura, non una pena.
Ora, un inferno dove si tortura in eterno avrebbe una sola finalità: far soffrire.
Ma se – come raccontato da Gesù - Dio è Amore e Bontà, come può creare un’atrocità così spaventosa e brutale? Ho già detto alla fine dell’articolo sull’Inferno, che ogni castigo può razionalmente giustificarsi come mezzo per realizzare qualcosa di buono (educare, evitare mali maggiori), ma un castigo non può essere un fine in sé stesso.
Se esistesse veramente l’Inferno descrittoci, ciò che non potrebbe esistere è il Dio Amore, perché questo asserito Dio Bontà sarebbe in realtà il dio più crudele e vendicativo che si sarebbe mai potuto inventare (Castillo J.M.).
Forse è superfluo ricordare che, stando ai vangeli, Gesù non è mai andato al Tempio o in una sinagoga per seguire un rito celebrativo (non è cioè mai andato a messa), e ha anche detto (Mt 15, 11): «non quello che entra nella bocca contamina l’uomo», per cui il prosciutto mangiato di venerdì non fa di chi lo mangia un peccatore dannato. Eppure (ancora ai miei tempi) ci veniva propinata l’immagine di un dio che mandava all’inferno - “dove sarà tormentato giorno e notte per i secoli dei secoli” - chi aveva mangiato di venerdì un panino col prosciutto o chi aveva saltato una messa domenicale. E in tempi ancor più lontani s’insegnava (seguendo sant’Agostino) che questo dio mandava all’inferno - “dove saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli” - i neonati non battezzati o i coniugi che avevano cercato il piacere nell’atto coniugale.
Come non cogliere l’illogicità in queste affermazioni? Come si può sostenere che i dannati per l’eternità restano sempre sottoposti ad una giusta pena e hanno avuto ciò che hanno voluto, perché coscientemente avevano fatto una scelta contro Dio? Mangiare un panino col prosciutto non è una scelta contro Dio se fatta di giovedì, ma lo è se fatta di venerdì? Ma dove sta la logica? Come si può sensatamente affermare che i dannati non amano Dio, ma Dio li ama ancora, perché anche nella giustizia Dio non abbandona l’amore? (così il domenicano Cavalcoli G.). Che soddisfazione sentirsi dire da Dio, mentre si patiscono le pene dell’inferno per sua decisione, che lui continua ad amarci!
Come ormai detto altre volte, se arriviamo alla conclusione che l’amore umano riesce ad essere migliore dello strombazzato immenso amore di Dio, è scontato che, quando l’uomo si scopre migliore del dio al quale viene invitato a credere, rifiuta questo dio che gli sembra inferiore a noi umani nella capacità di amare
Dario Culot