Albero della foresta messicana che lentamente muore
perché soffocato dal “matapalo” che lo avvinghia
(foto di Dario Culot)
La saggezza romana era basata sul senso comune (che arrivava da proverbi, aneddoti, mai da dottrine formali). La conseguente certezza dei giudizi fondati sul senso comune s’identificava con la voce di un’immaginaria maggioranza di benpensanti, che si riteneva fossero muniti di buon senso.
I giudizi di buon senso, però, non possedevano l’assolutezza dei dogmi, ma erano caratterizzati anche da incongruenze e polisemie (Brown P.). Insomma, nessuno pretendeva l’assoluta uniformità, né la verità assoluta.
Con le religioni è tutto diverso, perché ognuna vuol avere ragione (Gebara I.), anche se poi ogni religione, di per sé, appare come superstizione ai seguaci d’una fede diversa (Hobbes T.).
In particolare, la Chiesa di Roma, oltre a voler avere sempre ragione, non accetta alcuna sfida alla sua verità, e per imporre questa sua verità di fede ha messo in campo i dogmi, parenti stretti della Verità Assoluta, definiti come la corretta interpretazione della Parola di Dio (Perrella S.M.). Insomma, per essere a posto con Dio, bisogna credere ai dogmi insegnati dal magistero. Secondo il magistero più ortodosso, o accetti o sei fuori. Si torna dunque al Dio escludente, che Gesù aveva combattuto (cfr. Gesù serve a unire o dividere? al n. 458 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numerigiugnoluglio2018/numero-458---24-giugno-2018/gesu-serve-a-unire-o-a-dividere).
È del tutto evidente che, seguendo questa linea, la salvezza dei dogmi diventa più preziosa della salvezza delle persone. Ed è altrettanto evidente che, allora, ciò che veramente conta nel cattolicesimo non è tanto Gesù, quanto il magistero della Chiesa che ha ideato i dogmi. In effetti Gesù non ha mai invitato a credere a delle verità assolute riguardo a Dio, a lui stesso, alla Madonna, eccetera.
Gesù non si è mai messo sul piano della dottrina, ma sempre su quello dei fatti.
Gli apostoli non hanno seguito Gesù perché attratti dall’esposizione di sublimi dottrine metafisiche o perché catturati da dogmi di fede, ma perché hanno visto come viveva.
Hanno visto ‘dal vivo’ uno che credeva a quello che diceva e si comportava di conseguenza, e soprattutto uno che riusciva a dare speranza a quelli che si erano visti chiudere in faccia tutte le porte, che riusciva a risvegliare la nostalgia di un mondo migliore in quelli che, ormai rassegnati alla posizione che occupavano nel mondo, non credevano più a niente e a nessuno.
Invece la nostra religione si regge, come ha ben spiegato il teologo José Maria Castillo, su:
1) dogmi (o verità di fede) in cui si deve credere,
2) leggi divine (o comandamenti) ai quali si deve obbedire,
3) rituali o cerimonie religiose che si devono praticare.
Ebbene, anche se a qualcuno forse sembrerà strano, nessuna di queste tre cose s’incontra nei vangeli.
Da tutti i vangeli emerge, ad esempio, che Gesù elogiò la fede di persone che non erano della sua stessa religione, per cui non credevano alle stesse verità di fede, non seguivano gli stessi comandamenti, né partecipavano agli stessi riti (Mc 8, 10: un militare romano; Mt 15, 28, una donna cananea; Lc 17, 19 un samaritano curato della lebbra).
È stato sostenuto che ogni dogma della Chiesa di Roma è frutto di una lunga meditazione umana, e questo nessuno lo contesta. Affermare, però, che questa meditazione (si ripete: umana) è giunta sicuramente a conclusioni infallibili e soprattutto eterne, con tanto di timbro dello Spirito santo che le divinizza, vuol dire conferire natura divina (l’unica a poter essere infallibile) alla mente umana che l’ha partorita.
Il dogma, un tabù dal contenuto dottrinale, non è un’argomentazione razionale perché si sottrae ad ogni contro-argomentazione critica, e diventa una dichiarazione autoritativa ritenuta infallibile.
Si tratta di definizioni solenni del magistero, dei concili o dei papi, che devono essere accettate per tali, nella convinzione che contengano verità che hanno valore perenne ed irreformabile, in quanto sono garantite dall’infallibilità magisteriale, e non possono essere più rigettate; al più possono essere integrate od espresse in termini contemporanei (Bonifazi D.). Solo se si trova una formula secondo la quale un insegnamento risulti oggi come la “evoluzione”, e non come la contraddizione, di un insegnamento di ieri si può giungere a una modifica (Küng H.). Insomma, nemmeno se il Padreterno in persona scendesse in terra una seconda volta e volesse chiarire che il dogma era sbagliato, e che quel punto va interpretato in altro modo, potrebbe più farlo.
Di ciò di cui non si può più parlare si deve tacere, diceva se ben ricordo Ludwig Wittgenstein, e così spera il magistero che ci si comporti davanti ai suoi dogmi.
Ancora oggi, molti pii credenti e molti presbiteri si scandalizzano se uno fa un discorso teologico che va fuori le righe, in particolare se uno si azzarda a toccare un dogma, mentre il fatto che sia una persona poco umana appena esce fuori di casa, questo conta assai meno. Invece se chi si proclama rappresentante di Dio o credente non si comporta con amore, non si mette al servizio degli altri, è lui che non ha nulla a che vedere con Dio (Gv 8, 47), anche se crede a tutti i dogmi di questo mondo. Questo lo dice espressamente il Vangelo, il quale invece non dice in nessuna parte che bisogna credere ai dogmi. Allora c’è forse da farsi qualche domanda.
1) Come aveva detto Papa Giovanni XXIII: “non si arriva di tanto in tanto a un’interpretazione diversa del vangelo perché il vangelo è cambiato, ma perché siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Com’è allora razionalmente spiegabile il fatto che i vangeli si possano sempre interpretare, dando ancora oggi interpretazioni anche contraddittorie e diverse rispetto al passato, mentre nessuno (neanche il papa, neanche Dio in persona) ha più la libertà di interpretare il dogma, che ha pur sempre la sua base nei vangeli, soprattutto quando si riconosce che il magistero non è superiore alla parola di Dio, ma ad essa serve (così Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione del 18.11.1965 – Dei Verbum - § 10)?
2) Se il dogma non è previsto nei vangeli, quale base scritturale c’è per accertare il dogma? L'insegnamento del magistero? La Tradizione? Ma se la Scrittura non offre alcun indizio, come possiamo essere certi di essere rimasti sulla rotta della Tradizione originaria? È stato forse inserito il pilota automatico? Come distinguiamo l’evoluzione arricchente ispirata dallo Spirito santo dallo stravolgimento assai poco santo? (Lenaers R.).
Anche perché è risaputo che spesso il messaggio evangelico è stato più volte inquinato dal magistero ufficiale (antisemitismo, crociate, roghi, lo sfarzo, l’autorità esercitata come potere anziché come servizio, tutte cose in disaccordo con lo spirito di Gesù così come pacificamente risulta dal NT), sì che questo filone non può di certo rivendicare alcuna validità.
E il Concilio Vaticano II ha insegnato che la catechesi deve radicarsi sul vangelo, sulla centralità delle sacre scritture(§ 24 Costituzione dogmatica Dei Verbum, 18.11.1965), non sui dogmi.
3) Com’è possibile pensare di contenere l’inesauribile pienezza della verità in una formulazione limitata e concreta della verità? (Castillo J.M.).
Fra l’altro, Gesù non ha mai detto che l’avremmo trovato nei dogmi dell’istituzione romana. Di più: se le congregazioni romane che presiedono alla dottrina della fede fossero state di quel valore che pretendono di avere e che molti, oggi, riconoscono loro, Cristo l’avrebbe detto: “un giorno a Roma si fonderanno questi dicasteri, ascoltateli! E invece: No! Gesù ha soltanto detto: “ascoltate lo Spirito santo”. E lo Spirito santo ognuno lo ascolta in sé, senza che nessuno possa ascoltarlo per un altro (Vannucci G.).
Il dogma è cristallizzazione; Gesù è dinamismo, e solo il movimento è realtà. Il dogma si presenta come una fotografia, e ogni fotografia è la formulazione razionale di una fase del movimento: ogni fotografia resta statica (Vannucci G.) e quel frammento che ha fissato il movimento non può mai rappresentare il movimento intero.
Lo stesso Papa Benedetto XVI, ancora prima di diventare papa aveva riconosciuto che oggi il dogma fa problema e si era accorto che i dogmi ci stanno ingabbiando in un abbraccio asfissiante: il dogma diventa appunto come quella liana (detta in spagnolo matapalo, cioè “ammazza alberi”) che comincia ad avvolgere l’albero della foresta, e lentamente comincia a stringere, a stringere, finché l’albero, per quanto grosso e ben radicato, resta soffocato e muore.
Nel momento il cui il matapalo comincia ad avvinghiarsi all’albero, quest’ultimo deve irrevocabilmente aderire, e non ha più nessuna possibilità di scrollarselo di dosso, non può più rigettarlo (proprio come il cristiano col dogma); ma a quel punto né l’albero può più crescere fisicamente, né l’uomo può più crescere spiritualmente, avanzare nel suo cammino di fede come prevede il vangelo, il quale dice che tutti saranno istruiti da Dio (Gv 6, 45), il che significa che la storia che il Padre fa con tutti è una logica di crescita, un ammaestramento continuo (Rosini F.).
Col dogma, invece, tutti devono restare nella dimensione ormai raggiunta che li avvolge, come il matapalo fa con l’albero. L’albero resta sempre più strettamente legato e alla fine, così imbalsamato, muore perché il matapalo non lo lascia respirare autonomamente. Insomma, quando abbiamo finalmente definito un dogma, ben che vada, abbiamo in realtà costruito un altro muro difensivo attorno alla nostra insicurezza (Spong J.S.). Mal che vada resteremo soffocati dal dogma.
Ma avendo in passato la Chiesa affermato che il dogma è un’affermazione che obbliga a un’irrevocabile adesione di fede, senza poter più essere revocato, non è facile uscirne: e allora ecco solo una timida apertura. Ha detto lo stesso papa emerito (Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 256) che la fede ha i suoi flussi e reflussi. “Ne viene anche che la fede conosce affermazioni definitive – il dogma e il simbolo – nelle quali articola la sua interna definitività. Di nuovo, ciò non significa che quelle formule non comportino, nel corso della storia, ulteriori aperture e possano essere comprese in modi sempre nuovi, proprio come ogni singola persona, nelle vicende della sua vita, deve continuamente imparare a comprendere in modo nuovo la sua fede. Ma significa anche che, in tale più matura comprensione, non si può né si deve buttare a mare l’insieme di ciò che è stato compreso”.
Scusate, ma mi sembra che la frase, degna di un diplomatico di lungo corso, comporti una certa ambiguità: cosa s’intende per ulteriori aperture? La parola ‘ulteriore’ può anche significare ‘altro, nuovo che prima non c’era,’ e quindi l’ulteriore apertura può sottintendere qualcosa di completamente nuovo rispetto a prima, perfino contraddittorio rispetto al passato e non necessariamente solo un’evoluzione migliorativa.
Dunque non solo la forma, ma anche il senso sostanziale potrebbe uscirne modificato dall’ulteriore apertura e anche dalla nuova comprensione. Non mi sembra si possa intendere il pensiero del papa nel senso che l’ulteriore formulazione potrebbe portare il dogma solo ad una più profonda comprensione, nel senso cioè che si può sempre aggiungere qualcosa, senza però entrare in contraddizione col passato, perché il papa parla anche di aperture e non solo di nuove comprensioni. E allora, se con la nuova apertura si toglie anche solo un filino al dogma, vuol dire che prima c’era l’errorino. E anche quando il papa parla di “comprendere in modo nuovo” non esclude che il modo vecchio fosse un pochino da correggere (come Papa Giovanni XXIII ha detto parlando dell’interpretazione dei vangeli), e quindi non esclude, di nuovo, l’errorino. Ora, se ci si accorge che il dogma è anche in minima parte sbagliato, vuol dire che già gli si toglie il crisma della indefettibilità e della irrevocabilità, e implicitamente significa ammettere che il dogma potrebbe essere anche tutto sbagliato, perché quello che appariva giusto col modo di pensare di una volta, può essere ritenuto sbagliato con un nuovo approccio mentale, col mutamento della cultura nel corso del tempo, oppure semplicemente perché il significato delle parole è cambiato completamente nel corso dei secoli. Basti pensare al concetto di “persona” che oggi ha un significato del tutto diverso da come lo intendevano i padri che l’usarono al tempo del Concilio di Calcedonia.
Certo, i sostenitori dei dogmi cercheranno ad ogni costo di mantenerli inalterati ed impedire che vengano toccati, perché ne va di mezzo l’autorità della Chiesa. In nome di una pretesa autorità sovrannaturale vieteranno di metterli in discussione, ma così ci presentano un Cristo imbalsamato, come l’albero avvinghiato dal matapalo. Se invece si crede che Dio, l’Emmanuele, viaggia con noi, cammina al nostro fianco, si adatta al nostro intelletto e ai nostri modi di vedere, si manifesterà in modo differente a seconda delle circostanze, va rifiutata ogni dottrina che lo renderebbe invariabile e immutabile (Gounelle A.).
Del resto, anche Papa Benedetto XVI aveva argutamente sostenuto che, a differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita spirituale delle persone “non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale”. E allora, perché questo non succede per i valori dei dogmi, che invece devono essere obbligatoriamente ereditati?
Dovrebbe essere sempre l’esperienza, mai il dogma, la fonte della dottrina, il cui compito è di esprimere la prima in termini intellettuali e razionali. La teologia cristiana non dovrebbe riflettere idee o formule, ma dovrebbe fondarsi su esperienze di vita tradotte in racconti. Il punto di partenza deve essere sempre l’esperienza che si racconta.
Il dogma dovrebbe essere ridotto alla formulazione (riassuntiva) che una generazione ha dato alla propria esperienza di fede, senza pretesa di eternità. L’esperienza, poi, deve sempre riuscire a favorire l’inserimento nel flusso di vita, senza fermarsi e cristallizzarsi in formule eterne. Il racconto di allora perciò, o continua a coinvolgere, o altrimenti finisce per parcheggiarci in un’ansa del fiume, senza inserirci nel flusso di vita che invece continua inesorabilmente a scorrere. Il mondo va avanti, il credente nel dogma resta fermo. L’esperienza va sempre rinnovata perché la vita è cammino, e il cammino non si ferma mai. Troppo bella la pagina di frate Giovanni Vannucci su questo punto, per non riportarla per intero:
“E allora voi vedete bene che il cammino nostro, religioso, di cristiani, non può essere altro che un cammino verso un’avventura continuamente nuova nella vita. Non abbiamo verità da affermare, conosciute ieri o sancite oggi. Non abbiamo delle dogmatiche da annunciare, non abbiamo neppure delle precettistiche da portare avanti.
Siamo in cammino verso l’assoluto. E Cristo è il Vivente. Ecco, di questa verità dobbiamo persuaderci, senza scandalizzarci e senza fermarci in inutili domande, perché quando noi costruiamo attorno al cristianesimo una dottrina, oppure edifichiamo delle precise strutture, morali, giuridiche, istituzionali, noi ci ingabbiamo e non viviamo più la fede. Abbiamo delle credenze, cioè tutto un sistema di concetti espressi in parole… ma ancora non abbiamo la fede.
La fede è credere che la nostra coscienza personale è chiamata ad andare sempre oltre, verso un infinito che si fa sempre più vasto e più sconfinato, verso un orizzonte che, mano a mano ci avviciniamo, si dilata e diventa sempre più immenso. E allora le nostre piccole credenze, le nostre piccole dogmatiche, le nostre piccole strutture sono edifici di carta che vengono spazzati via da questo nostro procedere.” (da: Nel cuore dell’essere, ed. Fraternità di Romena, Pratovecchio (AR), 2004, p.121).
Nella stessa ottica si pone il teologo protestante André Gounelle, il quale afferma che, se Dio incontra l’uomo, si dovrò fare per forza un discorso antropomorfico, il quale si deve servire di immagini e categorie umane per dirlo; non si può fare a meno di immagini per percepire l’invisibile. Tuttavia esse non vanno confuse con la realtà che richiamano, ma non rappresentano. Le immagini sono necessarie, perché senza di esse non si vedrebbe nulla. Però, mentre si utilizzano, occorre saperle anche subito strappare, perché altrimenti le icone finiscono per trasformarsi in idoli. E padre Ernesto Balducci diceva che proprio “le chiese del dogma” sono quelle che “si difendono dagli assalti dello Spirito santo”.
Insomma, quanto spazio creativo da sfruttare abbiamo davanti a noi! Questa è la religione che mi piace, mentre il gelo del dogmatismo reprimerà anche le eresie, ma finisce per reprimere anche tutti i cristiani.
In definitiva, mi sembra che i dogmi potrebbero essere paragonati a dei chiodi che si mettono in parete durante una scalata in montagna: in quel momento sono punti fissi di ancoraggio e quindi di sicurezza; ma non è detto che in seguito si debba continuare ad usarli, che si debba necessariamente fare affidamento sempre sugli stessi chiodi, perché si può scalare la stessa parete lungo una via diversa, oppure anche lungo la stessa via ma con maggiore capacità tecnica. Nessuno deve essere costretto a risalire la montagna sempre e solo per la via percorsa in passato da chi ha piantato quei chiodi e, per di più, servendosi obbligatoriamente di quei chiodi. Questo vuol dire che non è possibile restare imbalsamati all’interno di una struttura dogmatica, e sostenere che fuori di questo “spazio di verità” ormai eterno e immodificabile, certificato con tanto di timbro dallo Spirito santo, esiste solo l’eresia, perché di eterno ed immutabile c’è solo Dio. Come diceva del resto San Tommaso – con parole più difficili, - l’atto di fede non ha il proprio termine nella formula dogmatica, ma nella realtà ultima cui tale formula si riferisce; tradotto in parole più semplici, il credente non può fermarsi all’enunciato, ma deve mirare dritto alla realtà.
Può darsi che il dogma sia anche corretto, e che sbagli chi lo contesta perché la formulazione che una generazione ha dato alla propria esperienza di fede può restare perfettamente valida anche ai giorni nostri, ma occorre prima discuterne senza pregiudizi: insomma, il dogma non può essere equiparato a un tabù, a un’eredità immodificabile ancorata al passato, perché se Dio è sempre creatore è prima di tutto anche innovatore: fa nuove tutte le cose (Ap 21, 5). Quando la teologia ufficiale rifiuta la possibilità di confutare una tesi e di creare nuove ipotesi opera come il matapalo, spegne ogni anelito di ricerca e dimentica che spesso è proprio il corto circuito scatenato da nuove prospettive e da inediti quesiti e risposte a far imboccare una strada nuova, forse migliore, comunque non necessariamente sbagliata solo perché scoperta al di fuori dell’intoccabile principio di autorità (Mancuso V.).
Perché mai una nuova interpretazione di un fatto non potrebbe consigliare di proporre un’interpretazione diversa, non potrebbe portare a compiere una revisione? Dal presente nascono sempre nuove domande da rivolgere al passato, e il passato viene riesaminato secondo nuovi punti di vista: questo è vero in ogni attività umana. Noi oggi, avendo visto pregi e difetti della Rivoluzione francese, riusciamo senz’altro a interpretarla meglio di coloro che la vissero in prima persona sulla propria pelle. Non sempre neanche bisogna continuare a guardare solo in avanti! Qualche volta occorre fermarsi e magari tornare anche indietro, prima di riprendere per altra strada. Mi sembrano attualissime le parole della teologa Adriana Zarri, la quale, vedendo che tanti cattolici erano ormai degli ex, perché incapaci di accettare formule dogmatiche immutabili ma inaccettabili, si chiedeva perché i vescovi sconfessassero sempre ogni tentativo di fornire un’interpretazione non conforme all’ortodossia: «Perché tagliano l’ultimo ponte da cui tanti potrebbero passare?»
Il grande maestro andaluso sufi Ibn al-Arabi (1165-1240) sosteneva che nessuna religione è in grado di esaurire la Verità tutta intera, ma può catturarne solo frammenti.
La varietà delle credenze è ricchezza, mentre l'unicità finirebbe per condizionare Dio alla propria singola religione, rinunciando a captare le dimensioni del mistero. Tutti coloro che s’incollano alla divinità delle convinzioni dogmatiche e si fanno prigionieri delle loro stesse limitazioni cessano di percepire la Divinità come assoluta, che non può essere delimitata da nessun contenitore. Negare le altre manifestazioni del Reale significa negare l’infinità del Reale. È un musulmano a farci ricordare questa ovvia verità.
Dario Culot