Il nostro calcio è malato, lo è sempre stato.
Dietro ai goal e alle lacrime di felicità si nasconde troppo spesso una parentesi grigia che viene ignorata perché troppo scomoda, ed è il fenomeno del doping.
Quanti ancora dovranno morire prima che qualcuno fermi questo circo?
Il doping e le morte sospette nel calcio sono sempre esistite e hanno sempre mietuto vittime.
Grazie alla testimonianza di Vittorio Pozzo - commissario tecnico della Nazionale italiana e l’unico a riuscire a vincere la Coppa del Mondo nel 1934 e nel 1938 - si può affermare che queste sostanze avevano già iniziato a girare in Italia nei tardi anni Venti:
“Durante il ventennio del mio comando cominciai a sentir parlare di ingredienti chimici che dovevano aiutare i giuocatori nello sforzo. Respinsi, magari con sdegno, ogni offerta. Durante il servizio militare, avevo conosciuto un certo Zambrini che era stato ufficiale nella legione dei volontari italiani che combatté contro i tedeschi sulle Ardenne […]. Anni dopo, […] mi scrisse offrendomi un intruglio da far ingerire agli azzurri nelle partite di grande importanza”.
Ferruccio Mazzola, che ha sempre denunciato a gran voce questa piaga calcistica, ha parlato anche del doping facendo riferimento alla dichiarazioni dei compagni di suo padre Valentino Mazzola, morto nello schianto di Superga del 1949:
“Sul tema del doping esiste addirittura una dichiarazione di Gino Rossetti, campione d’Italia con il Torino ben prima di mio padre. Siamo fine anni Venti, i granata conquistano il loro primo scudetto e altri ne contendono al Bologna del centravanti Schiavio [...] “Non so se fosse un doping che un professore voleva farci prendere. Certo è che erano delle pillole marrone scuro. La partita era Torino-Bologna, finale di campionato. Viene questo professore negli spogliatoi con un barattolo e dice a me e Libonatti: ‘Prendete queste che vedrete!’ Io feci finta di inghiottire, poi andai sotto la doccia e sputai tutto. Vincemmo 1-0 e a fine partita lo stesso professore scese ancora negli spogliatoi. ‘Visto che effetto?’ mi chiese. ‘Ma che roba era, professore? Domandai. ‘Non ti preoccupare: non fanno male al cuore, non ti fanno niente’. C’era già il doping”.
La prima legge antidoping in Italia venne approvata nel 1971 e fu la legge n.1099. Essa fu sostituita nel 1978 dalla legge n.833, che si rifaceva alla legge Herzog francese del 1965 la quale, a sua volta, era stata creata dopo i numerosissimi casi di doping che avevano avuto luogo durante il Tour de France.
Il primo laboratorio di analisi in Italia nacque nel 1961 a Firenze, ma le autorità iniziarono a eseguire seriamente i controlli - come dirà poi in seguito Alessandro Donati - solo dopo la morte in diretta nel 1967 del ciclista Tommy Simpson, durante il Tour de France.
Ma anche a questo punto poco cambiò: si iniziò solo a cercare nelle urine degli atleti gli stimolanti, ormai però sorpassati dagli anabolizzanti.
E’ necessaria una breve definizione: gli stimolanti aumentano l'energia e la concentrazione operando sul sistema nervoso centrale, mentre gli anabolizzanti favoriscono la crescita muscolare e migliorano le prestazioni fisiche. I primi influenzano la vigilanza, mentre i secondi la massa muscolare.
Ci fu uno scandalo nel 1998 al laboratorio olimpico dell’Acqua Acetosa, in cui fu scoperto che gli anabolizzanti non erano cercati nei test delle urine: il motivo era naturalmente di natura economica. Sono passati molti anni da questi avvenimenti e si sono susseguite molte tragiche vicende in Italia. Fra queste, scelgo di parlarvi di un giocatore che per diverso tempo ha vestito la maglia di Firenze e che ha perso la vita in giovanissima età in modo sospetto.
Le vicende che parlano della morte di Bruno Beatrice andrebbero sviscerate ed analizzate con molta attenzione, per far sì che questo nome rimanga scolpito nella mente di ognuno di noi.
Beatrice nacque nel 1948 a Milano, e crebbe nelle giovanili dell’Inter nel ruolo di centrocampista, dove venne fin da subito soprannominato il “Mastino” per la sua forza fisica, la sua bravura e la sua determinazione.
Militò in varie squadre di Serie A - nella Fiorentina dal 1973 al 1976 - e chiuse la sua carriera nel Montevarchi, legando in maniera indissolubile la sua vita sportiva alla Toscana.
Dopo il suo ritiro dal panorama calcistico nel 1984, si ammalò l’anno seguente di leucemia linfoblastica acuta e morì due anni dopo, a soli 39 anni, lasciando una moglie e due figli.
L’origine della malattia di Bruno doveva rintracciarsi, secondo la famiglia dello scomparso, in ciò che ebbe luogo nella primavera del 1976 a Firenze.
In quell’anno subì un infortunio che ai tempi non era qualcosa di facilmente risolvibile con un cambio. Negli anni ‘70 non c’erano le sostituzioni, e sicuramente non c’era un altro Mastino.
All’allenatore della Fiorentina - Carlo Mazzone - questo non andò affatto bene.
Bruno doveva giocare a tutti i costi: non importava la sua salute, contavano solo i risultati.
Così nel ‘76 Bruno si fidò dei suoi medici e del suo allenatore e si presentò a cadenza quasi quotidiana al presidio di Villa Camerata a Fiesole per tre mesi, sottoponendosi ad una massiccia radioterapia a base di raggi X per curare una pubalgia cronica.
La pubalgia è un dolore nella zona bassa dell'addome, vicino all'osso pubico, che è causato da un'infiammazione dei muscoli o dei tendini. È comune negli sportivi e peggiora con movimenti ripetitivi, o che provocano troppo sforzo. Si cura con riposo, fisioterapia e, in alcuni casi, trattamenti medici.
Il 2 giugno del 1976 a Santa Margherita Ligure, ovvero precedente alla partita di Coppa Italia con la Sampdoria del 3 giugno, dopo aver messo al muro Mazzone, Bruno gli sentì dire “è inutile che fai così - riferito al fatto che era già stato venduto al Cesena - tanto te sputerai sangue fino alla fine dei tuoi giorni”. Questo diverbio fu riferito dalla moglie. (vd Archivio Museo della Fiorentina & Roberto Vinciguerra)
Al termine della terapia, raccontò il calciatore ai suoi parenti, venne sottoposto varie volte a fleboclisi, ovvero ad una terapia endovenosa. Tutto ciò appare strano anche agli occhi di chi di medicina se ne intende poco e niente e, se sommato ai sintomi di insonnia, tremore e spasmi che l’uomo riferì, è chiaro il motivo per cui nel 2005 la vedova - Gabriella Bernardini Beatrice - chiese alla Procura di Firenze di aprire un'indagine sulla morte del marito.
Anche perché Bruno non era l’unico.
In quegli anni - solo nella Fiorentina - morirono in modo sospetto altri quattro compagni di Beatrice. Ricordiamo Nello Saltutti, Ugo Ferrante, Giuseppe Longoni, Massimo Mattolini. Senza contare le vicende di Stefano Borgonovo, Giancarlo Antognoni, Domenico Caso e Giancarlo De Sisti. E parliamo di anni specifici e circoscritti alla sola città di Firenze.
L'indagine dei NAS di Firenze - riguardante la sola morte di Beatrice - si concluse nel giugno del 2008, ipotizzando il reato di omicidio preterintenzionale per l'allora allenatore della Fiorentina, Carlo Mazzone. Il 2 gennaio 2009 la procura di Firenze chiese l'archiviazione del caso per prescrizione.
Ci sarebbero tante storie da raccontare a riguardo - troppi nomi da ricordare - ma ho deciso di parlare di Bruno perché la sua storia è differente, non perché la sua vita conti più delle altre.
Tanti familiari di sportivi sono stati zitti, o si sono fermati dopo un processo perso, ma per Bruno - che era un padre ed un marito - la sua famiglia non ha mai smesso di pretendere la verità.
Ed è per questo scopo che Gabriella, Alessandro e Claudia hanno lottato per tutta la loro vita.
La tifoseria della Fiorentina, di fronte, a tutto questo, non è rimasta in silenzio, ma ha aderito a questa battaglia, portando avanti iniziative in nome di Bruno, ricordandolo con varie coreografie e andando a parlare della sua storia anche al Consiglio Regionale (riferimento - riferimento 2 ).
Per tanti giocatori deceduti in circostanze sospette, purtroppo, questo invece non è mai avvenuto, ma anzi il loro nome è stato spesso dimenticato.
L’unico che ha cercato di combattere prima di morire è stato Carlo Petrini - giocatore di Milan, Roma e Genoa negli anni ‘70 - che ha pubblicato decine di libri per parlare di questo marcio che sta sfigurando il calcio. E’ morto nel 2012 per un tumore al cervello.
Ho avuto la possibilità di avere un confronto a questo proposito con Damiano Tommasi, attualmente sindaco di Verona, ex calciatore di Serie A e presidente dell’Associazione Italiana Calciatori dal 2011 al 2020.
Ho deciso di contattarlo poiché ha scritto la prefazione del libro Qualcuno corre troppo. Il lato oscuro del calcio di Lamberto Gherpelli e, grazie, alla sua disponibilità sono riuscita a porgli due domande.
Damiano Tommasi, nella prefazione del libro di Gherpelli, ha parlato del senso del limite che gli atleti dovrebbero conoscere, e del fatto che il giocatore deve capire coscientemente quando fermarsi.
Circa gli episodi raccontati da Mazzola e dalla famiglia di Beatrice, volevo chiederle se secondo lei i giocatori sono sempre stati consapevoli e consenzienti circa il fatto che venivano loro somministrate medicine irregolari, o che subivano trattamenti medici che sarebbero potuti risultare dannosi per la loro salute.
Sandro Mazzola - e prima di lui suo fratello - hanno menzionato in varie interviste strani caffè con dentro pasticche (ho letto che Sandro a posteriori ha pensato fosse simpamina) che venivano dati loro negli spogliatoi dell’Inter. Bruno Beatrice per mesi è stato mandato a fare raggi quotidianamente al presidio di Camerata.
Ecco, io ho pensato che se fossi stata al loro posto mi sarei fidata dello staff e dei medici che erano al mio fianco. In questo caso si può davvero parlare di “conoscere i propri limiti”? La maggior parte delle persone morte o ammalate in quegli anni davvero erano coscienti di ciò che stavano subendo o erano solo vittime di allenatori e staff?”
DM: Conoscere i propri limiti fa parte della formazione personale di ognuno di noi. Purtroppo l'utilizzo di farmaci (consentiti o no) è sempre legato ad un rapporto professionale di fiducia con il o i medici che seguono gli atleti.
ùNel mio percorso da dirigente sportivo ho insistito molto sul tema della formazione perché, come tutte le professioni, anche l'atleta necessita di conoscenze specifiche che spesso vengono trascurate. Una delle competenze che è richiesta a qualsiasi atleta è la conoscenza del proprio corpo e di ciò che serve per curarlo, mantenerlo, allenarlo, preservarlo.
Il ruolo degli staff è fondamentale nel crescere atleti consapevoli e coscienti dei rischi che si corrono in determinati sport, attività preparatorie, terapie curative e somministrazione dei farmaci.
Sicuramente i principali protagonisti di tutta questa attività sono gli atleti e le atlete, e per questo è interesse di tutto il sistema (o dovrebbe esserlo) preservare i protagonisti da abusi e uso illegale di farmaci e terapie.
Concludo con un pensiero alla nostra quotidianità, che comunque vede in tanti altri ambiti uso e abuso di farmaci poco considerato e spesso causa di cattive abitudini dannose per la salute.
AM: “Sono passati 10 anni da quando è uscito il libro di Gherpelli. Durante il tempo che è passato si sono susseguitI vari crolli cardiaci sul campo da gioco. Essendo di Firenze, i primi che mi vengono in mente sono Davide Astori ed Edoardo Bove.
Come è possibile che accadano ancora in un periodo in cui la medicina ed i controlli dovrebbero essere ai loro massimi storici?
Lei ha parlato di risveglio della responsabilità. A distanza di 10 anni, crede davvero che ciò abbia avuto luogo? Crede che arriverà il momento in cui tutto questo si interromperà?
DM: Il tema dei controlli è stato ampiamente dibattuto anche dall'Associazione Calciatori che ho presieduto in concomitanza della tragica scomparsa di Piermario Morosini sul campo di Pescara.
Da sempre l'Associazione ha avuto come obiettivo primario la salute degli atleti, e anche grazie alla sua attività abbiamo oggi nel sistema professionistico un sistema di controllo all'avanguardia sul tema della salute.
Purtroppo alcune patologie non sono di così facile individuazione, e questo spesso non riguarda l’utilizzo di farmaci o la somministrazione di terapie mediche.
I controlli da intensificare e da migliorare per qualità e cadenza temporale sono invece quelli che riguardano il mondo dilettantistico dove ancora oggi molti ragazzi praticano le attività sportive, non solo il calcio, dilettantistiche o amatoriali senza i dovuti approfondimenti medici, qualitativamente sufficienti a prevenire eventuali patologie gravi.
Negli ultimi anni e in questi ultimi giorni è nelle cronache sportive il tema dei calendari intensi e delle troppe partite/gare. Il tema dei calendari è comune a molte discipline sportive (tennis con la posizione di Djokovic e altri tennisti) che nella ricerca di migliorare e ottimizzare gli introiti commerciali rischiano costantemente di andare ad incidere non solo sulla qualità dello spettacolo, dove lo sport è anche show televisivo, ma soprattutto sulla salute dei protagonisti.
Credo che sarà un dovere con spirito di sopravvivenza dello show business dover fare i conti con la umana sostenibilità di alcune calendarizzazioni degli eventi sportivi.
fonti:
link 1 - link 2 - link 3 - fonti testimonianze
Renascentia
“In latino, la parola utilizzata per indicare una rinascita è renascentia. Deriva dal verbo renascor, che significa "rinascere" o "riprendere vita". Questo termine viene utilizzato per esprimere l'idea di un nuovo inizio o di un rinnovamento.”
Marc Marquez vince.
La stagione della MotoGP è iniziata da poche settimane, e in questo breve lasso di tempo lo spagnolo è riuscito a monopolizzare l’attenzione del pubblico, mettendo anche in luce in solo due GP quello che tanti ormai stavano iniziando a pensare, ovvero che il titolo di Campione che da qualche anno è dedicato a Bagnaia non ha alcun senso. Ecco cosa ha avuto il coraggio di urlarci Marc Marquez dalla pista: l’italiano non ha la statura dei grandi.
E’ una constatazione che gira nell’aria ormai da un paio d’anni, che è stata sempre di più accentuata dalla lotta serrata contro un vero pilota - Jorge Martin - che pista dopo pista lo ha spogliato di ogni attributo anche lontanamente positivo
I tifosi della prima ora, gli appassionati veri, fin dalle sue corse nelle categorie minori erano consci di questa cosa, così come lo era la Ducati, che lo aveva usato consapevole che un qualsiasi pilota su una moto della loro Casa sarebbe stato in grado di vincere.
Aggiungiamo anche che Bagnaia è uno dei ragazzi - dei “discepoli” - di Valentino Rossi.Il binomio marchio italiano e presunto “erede” del Dottore non potevano che suscitare introiti ed importanza mediatica, cosa che da sempre - parliamo del rapporto con Rossi - era stata recriminata ad Andrea Dovizioso.
Nessuno però avrebbe mai potuto immaginare quello che sarebbe accaduto, ovvero l’abbandono della Honda da parte di Marquez al termine della stagione 2022|2023 per poi passare prima al Team Gresini (satellite Ducati) e successivamente in Ducati, strappando letteralmente il posto ad uno Jorge Martin reo di aver vinto il campionato mondiale su una Ducati Pramac (era ovvio agli occhi di tutti che dopo tanto quel posto sarebbe toccato a lui).
La notizia di questo passaggio lasciò tutti esterrefatti - anche se se ne era vociferato - poiché fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Un po’ come il passaggio di Lewis Hamilton in Ferrari. Sono quei sogni - talvolta quelle scommesse - che vengono nominati ai tavolini di un bar o durante una chiacchierata tra amici, con la consapevolezza che sono utopie, assurdità, cose dette tanto per dire.
Ma i sogni sono diventati realtà, regalando ai tifosi - quelli veri - e a questo sport delle pagine di storia inaspettate e sicuramente memorabili (nel bene o nel male).
Sicuramente chi non aveva questo desiderio o questa voglia di mettersi alla prova era Pecco Bagnaia che si è trovato all'improvviso tra capo e collo un sette volte campione del mondo venuto per strappargli tutto quel (poco) che aveva racimolato negli anni.
Il mondo ha capito in poche settimane che la differenza tra questi due sportivi è abissale: parliamo di talento, fame e voglia di segnare un'epoca. Ora però bisognerà vedere quanto tempo servirà al pilota piemontese per rendersi conto che è arrivato il momento di aprire gli occhi e di darsi una svegliata. Perché Marc Marquez è tornato, pieno di una fame che, pur avendolo da sempre connotato, ora più che mai è infinita. Vuole tutto, è tornato per prendersi tutto.
Al netto di ciò, questa si preannuncia come una delle migliori stagioni degli ultimi anni!
Amalia Martini
Uno dei timori più grandi per le donne durante il ciclo mestruale è la paura di sporcarsi di sangue. Non a caso, tra amiche e colleghe si sente spesso la classica domanda: “Puoi controllare se sono macchiata?”.
Ora, immaginate quanto questo problema possa essere amplificato per le atlete che competono ad alti livelli, sotto i riflettori, spesso con divise poco adatte a garantire sicurezza e comfort.
Per anni, il ciclo mestruale è stato un argomento tabù nello sport femminile, ma negli ultimi tempi sempre più atlete hanno iniziato a parlarne apertamente, contribuendo a rompere il silenzio.
Un momento chiave per questa rivoluzione è stato alle Olimpiadi di Rio 2016, quando la nuotatrice cinese Fu Yuanhui ha dichiarato senza mezzi termini di essersi sentita debole e stanca perché il giorno prima le erano iniziate le mestruazioni. La sua franchezza ha aperto la strada ad altre atlete, che da allora hanno iniziato a condividere le loro esperienze.
Tra loro c’è la judoka francese Clarisse Agbegnenou, oggi ambasciatrice di un marchio di biancheria mestruale, che sottolinea l’importanza di affrontare le peculiarità dello sport femminile, incluse le necessità sanitarie legate al ciclo. “Come persona che ha praticato il judo in un kimono bianco, so quanto possa essere complicato”, ha dichiarato a France Info.
Anche la golfista neozelandese Lydia Ko ha parlato apertamente dei dolori e delle tensioni mestruali durante il Palos Verdes Championship del 2022. “Quando ero più giovane l’avrei trovato imbarazzante, ma ora non credo sia un problema parlarne: non sono certo l’unica, giusto?”.
Molte atlete stanno contribuendo a sdoganare l’argomento. La pattinatrice artistica Maé-Bérénice Méité, ad esempio, ha dato voce a diverse sportive sul suo canale YouTube, raccogliendo le testimonianze di campionesse come la statunitense Ashley Cain-Gribble (pattinaggio), la marocchina Assma Niang (judo) e le francesi Youna Dufournet (ginnastica artistica) e Jessika Guehaseim (lancio del martello e rugby).
In Italia, tra le prime a parlare apertamente del ciclo mestruale nello sport è stata Federica Pellegrini. Dopo la sua deludente prestazione a Rio 2016, la campionessa azzurra ha spiegato che aveva calcolato male l’arrivo del ciclo: “Mi sono trovata a gareggiare nel momento per me peggiore fisicamente: mi sentivo su un’altalena, con cali e stanchezza improvvisi. Ma non è una scusa, è un aspetto che ho sottovalutato.” Altre sportive azzurre, tra cui Benedetta Pilato, Vanessa Ferrari ed Elisa Di Francisca, hanno successivamente affrontato l’argomento, contribuendo a normalizzarlo.
Uno degli aspetti più discussi è l’abbigliamento sportivo: molte atlete sono costrette a indossare completi bianchi, aumentando il disagio durante il ciclo. Il caso più emblematico è Wimbledon, dove il regolamento impone divise completamente bianche, intimo incluso. Per venire incontro alle tenniste, dal 2023 è stato introdotto il permesso di indossare biancheria colorata sotto il classico completo bianco, riducendo così stress e imbarazzo.
Lo stesso tema è emerso nel calcio femminile, grazie alle dichiarazioni dell’attaccante britannica Beth Mead, che ha sottolineato quanto il bianco sia “poco pratico durante il ciclo”. Un’osservazione che ha portato diverse squadre a modificare l’abbigliamento per i Mondiali femminili del 2023, scegliendo pantaloncini blu invece di quelli bianchi.
Molte atlete stanno anche usando i social per sensibilizzare sul tema, partecipando a campagne come #SportYourPeriod. Un esempio recente è quello della squadra femminile dell’Arsenal, che ha collaborato con Persil per un video pubblicato su Instagram, in cui giocatrici come Kim Little, Beth Mead, Leah Williamson e Katie McCabe raccontano le proprie esperienze sul campo durante il ciclo. Il messaggio della campagna, “Every Stain Should Be Part of the Game”, vuole ribadire che una macchia di sangue non è diversa da quelle di fango, erba o sudore: fa semplicemente parte dello sport.
Grazie al coraggio di queste atlete, il ciclo mestruale nello sport non è più un argomento da evitare, ma un aspetto reale che merita attenzione e rispetto. E, passo dopo passo, il mondo dello sport sta iniziando ad ascoltare.
THE 50 YEAR BAN ON WOMEN’S FOOTBALL
Women’s football today is still less popular than men’s football. People think that women’s football is less enjoyable or entertaining, but that couldn’t be further from the truth.
In fact, on many occasions women’s football has captivated audiences just as much, if not more, than men’s. However, this success hasn’t always been welcomed by everyone.
WORLD WAR I
In England, in the 1800s, football was rapidly growing in popularity. Women naturally wanted to join in on the action, but they were widely ridiculed by the national press. During the First World War, the men’s football league was suspended. Women’s teams began to form in their workplaces, such as factories, growing to an estimated 150 teams across the country. These teams played charity matches to help fund the war effort. They even played international games, with the largest team being formed in an ammunition factory. Dick Kerr’s Ladies was by far the most famous and one of the most successful of the factory-based teams of the time, playing against France to a huge audience.
After the First World War, the men returned and the teams re-formed. However, the interest in women’s games was at an all-time high, with a game at Goodison Park on Boxing Day drawing a full crowd of 53,000 people.
THE BAN
On 5 December 1921 The FA met at its headquarters in London and announced a ban on the women’s game. No matches were allowed to be played at professional grounds and pitches of clubs affiliated to The FA, stating “the game of football is quite unsuitable for females and ought not to be encouraged.” This meant the women’s game was side-lined to being played in public parks for the next 51 years. This ban changed the course of the women's game forever.
Gail Newsham, the author of a book on the Dick, Kerr Ladies, believes the record-breaking Boxing Day match was instrumental. The players were furious. “When I spoke to Alice Norris (one of the Dick, Kerr players at the time) and some of the other ladies they all said they thought the FA was just jealous because they were getting bigger crowds.” Newsham says. “They were devastated. Everybody knows how much work the women did during the war, all the hard work, the manual jobs, everything that they did, so it didn’t stack up.”
Though hampered by a lack of decent-sized facilities, women’s football carried on throughout the ‘30s, ‘40s, ‘50s and most of the 1960s. Games were played at smaller grounds which couldn’t house many fans. Though the women continued to play, they became increasingly overshadowed by the men’s game. In 1947, Kent County Football Association suspended a referee because he was also working as manager of the Kent Ladies Football Club. It justified its decision saying that "women's football brings the game into disrepute".
Reports about the ban were mixed. On one side, the Hull Daily Mail was delighted by the ban and praised the FA.
Others instead gave space for the players to have their say.
The Dick, Kerr Ladies’ captain, Alice Kell, described in the press as an “unassuming, intelligent working girl”, said:
“We girls play football in a proper spirit. We do not retaliate if we are bowled over, and we show no fits of temper. We are all simply amazed at the action of the authorities in placing a ban upon the sport we love with all our heart. Surely to goodness we have the right to play any game we think fit without interference from the Football Association! We are all working girls dependent upon our weekly wages and living with our parents and others partly dependent upon us.”
The ban extinguished crowd sizes in an instant. Teams were forced into parks and friendly rugby or athletics clubs, but the stadium capacity offered by men’s football clubs could not be matched. Without the opportunity for the masses to watch games regularly in large-capacity venues the interest naturally faded.
THE LIFTING OF THE BAN
Then, 50 years later, in 1971, following the huge success of the 1970s men’s tournament, Mexico hosted an unofficial Women’s World Cup. Crowds numbered in their hundreds of thousands, and there were huge lucrative deals with important brands, such as Martini. The England team was overwhelmed; until then, they had only ever played on park pitches because they were not allowed to play on affiliated football grounds. Now, they found themselves playing in a stadium in front of 95,000 people.
After the huge popularity of the Mexico Cup, the FA was finally pressed into lifting the ban. However, it took a further 20 years for them to host an official World Cup in China in 1991, wanting to distance this venture from the men’s World Cup. It was named “The First FIFA World Championship for Women’s Football” for the M&M’s Cup.
THE EVOLUTION OF WOMEN’S FOOTBALL
Since the World Cup the popularity of the game has gradually grown, with the Olympics and increasing publicity around international tournaments helping to raise the profile of women’s teams. England’s games are now broadcast on primetime television, receiving immense media coverage.
The women’s game reached a new milestone in 2022 when England won the UEFA Women’s EUROs at Wembley, breaking the record for the most spectators in a EUROs game (men’s or women’s) with a total of 87,192 spectators. This victory boosted media coverage and interest in the sport and created over 400,000 new grassroots football opportunities for girls and women. The win was particularly meaningful as it coincided with the 50th anniversary of England Women’s football, and the original 1972 team was presented with their long-awaited caps at Wembley. In 2023, the Lionesses made history again ,reaching new heights, continuing to push the women’s game forward.
Of course, there is still a huge gap between the profile of the men’s game and the women’s, but with this increase in attention, these changing attitudes, and increases in funding, women’s football is slowly becoming more accessible for everyone.
L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE BERRETTINI
Il timbro di Jannik Sinner è ovunque: nelle parole degli appassionati come dei semplici spettatori occasionali, sulla vetta del ranking mondiale di tennis, sulla risalita di un movimento -quello italiano- che fino a pochi anni fa versava in condizioni critiche. Ma all’ombra del campione altoatesino ce n’è un altro, forse più “umano”, con tutto ciò che di buono o meno questo aggettivo può portare.
E’ Matteo Berrettini, e la recente vittoria ottenuta con la maglia dell’Italia in Coppa Davis lo ha riportato sui grandi palcoscenici dopo un periodo complicato, che lo ha visto poche volte protagonista di campo e tante, troppe, di infortuni e cronaca rosa.
La differenza fra i due è visibile a primo impatto: da un lato la perfezione, il rigore e la volontà dello sportivo di mestiere e di pensiero -condizione che l’ha spinto a rifiutare impegni e atteggiamenti più “mondani”- quasi inafferrabile; dall’altro un talento più spontaneo e una maggiore inclinazione a tutto quel che è “fuori” dal rettangolo di gioco.
Berrettini nasce a Roma nell’aprile di 28 anni fa da una famiglia di origini brasiliane e fiorentine - tanto che nel calcio tifa viola e nel 2022 il sindaco Dario Nardella gli ha conferito le chiavi della città. Si avvicina alla racchetta seguendo le orme del fratello minore Jacopo, al quale è legatissimo. Quando muove i primi passi, piccolissimo, sulla terra rossa di Conca d’Oro (zona a nord-est della capitale), dice che non fa per lui, che preferisce basket e judo. Poi, per fortuna, cambia idea e appena maggiorenne, ancora impegnato al liceo scientifico, comincia a farsi strada in un mondo che proprio in quel periodo la federazione azzurra sta cercando di rifondare a suon di riforme, strategie e mentalità nuove. L’anno della consacrazione è il 2019, malgrado i problemi fisici -che presto diventeranno il suo tallone d’Achille- e le eliminazioni precoci da diversi tornei. Per Matteo si alza costantemente il coefficiente di difficoltà e questo significa potersi confrontare con i grandi nomi che quotidianamente si spartiscono le prime posizioni nelle varie competizioni e classifiche globali come Zverev, Ruud, Rublev e le tre leggende Federer, Nadal e Djokovic. Soprattutto, arrivano il terzo titolo nel circuito maggiore a Stoccarda (nonché il primo sull’erba, dove sta perfezionando ritmo e meccanismi e che a breve diventerà il suo terreno di caccia preferito) e l’ingresso nella Top-10 ATP, l’élite di questa disciplina, che scalerà fino al sesto posto.
E’ il preludio di tempi prolifici, i migliori in carriera: successivamente infatti arricchisce il proprio palmarès con il successo al Queen’s e riporta il nostro paese sulla mappa della pallina gialla con la finale giocata nel tempio di Wimbledon, eguagliando e superando i traguardi centrati sessant’anni prima da Nicola Pietrangeli. In mezzo a tante affermazioni, però, qualcosa inizia a scricchiolare: gli addominali, le caviglie e anche la testa. D’altronde, si sa che è un gioco di braccia e di mente e che se il fattore psicologico e motivazionale non persiste -come dimostra, tanto per restare entro i nostri confini, il caso Camila Giorgi- neanche quello fisico può salvarti.
Lo sa bene Berrettini, che in pochi mesi vede crollare quanto di buono aveva costruito. Fra infortuni, rottura con lo storico allenatore e indiscrezioni dei media, scivola sino a toccare la 154esima piazza della graduatoria planetaria. All’improvviso “The Hammer” (soprannome datogli dai suoi colpi martellanti e una condotta sempre alla ricerca dell’attacco e della potenza”) non è la punta di diamante che trascina il tennis di casa nostra fuori dall’anonimato e con quei capelli sapientemente arruffati, quel sorriso a favor di telecamera, quei servizi atomici che spesso impediscono ai concorrenti di rispondere, dà l’impressione di avere in mano la situazione e modellarla a suo piacimento. Anzi, la scena non è più sua e in tanti che lo designano come la meteora di turno, portata in alto da un exploit a metà fra merito e fortuna, profetizzano che per riguadagnarsela sarà il prossimo ospite di questo o quel programma, seguendo un’innata predisposizione per il red carpet e gli shootings fotografici. Anche perché di stilisti pronti a vestirlo e uomini in cravatta che si sfregano le mani per ospitarlo c’è la fila.
Incassa le offese, le insinuazioni di chi dimentica i suoi trascorsi e come ha risollevato una corrente che, fino alla sua esplosione, si affidava ad un calante Fabio Fognini e poco altro. Prova a rialzarsi e cade di nuovo, tradito da un corpo così slanciato, eppure così fragile per sprigionare missili da 220 chilometri all’ora. I servizi sono la sua arma principale assieme ad un approccio assoluto all’incontro e al cinismo nei momenti importanti, quando la partita si incunea nelle stanze più segrete di questo sport e per risolverla non basta l’ennesimo ace, ma serve un confronto totale con l’altro. Virtuoso, tecnico e contemporaneamente rapido, risoluto.
Matteo comincia faticosamente a risalire la china, cercando di trovare e sfruttare proprio queste caratteristiche. Lotta con sé stesso e con una parte del tennis che non gli appartiene: lui, abituato a rivali pluripremiati e posizioni aristocratiche, costretto ad un ritorno alle origini e a fronteggiare giocatori per cui il professionismo non è neanche stabile, è un lusso da prendersi ad ogni game, sotto il sole battente in gare dall’agonismo puro. Pian piano però si intravedono segnali positivi e a partire dal successo di gennaio scorso a Marrakech è un crescendo di fiducia e prospettive speranzose.
Giungiamo quindi alla Coppa Davis, che l’Italia ha vinto due volte, una ai tempi di Adriano Panatta, l’altra nel 2023. Dopo aver superato la fase a gironi si aprono le porte del tabellone a eliminazione diretta, con la formazione di capitan Volandri (una specie di CT, capo della spedizione e delle scelte tecniche) impegnata ai quarti di finale con l’Argentina. Serve il doppio -a seguito del pareggio nei singoli- per decretare i vincitori e a portarlo a casa è il tandem Berrettini/Sinner, tanto diverso quanto armonioso. La vittima successiva è l’Australia: il tennista romano fa il suo compito e consegna al compagno il match point, che ovviamente non viene sprecato. E’ Sinner a completare l’opera, ma ancora una volta in precedenza a trionfare era stato il 28enne con una prestazione solida culminata in un secco 6-4 6-2. L’opponente era il mellifluo Van de Zandschulp, qualche mese fa vicino al ritiro e in effetti piuttosto vuoto, triste, di poche iniziative e diametralmente differente rispetto al calore dell’azzurro.
L’epilogo non poteva che essere la terza “insalatiera” nella bacheca italiana.
Sulla Davis c’è il marchio di Matteo Berrettini e del suo passato. Del tennista che era diventato incudine e si è rimesso in piedi, tornando a recitare il ruolo del martello.
Del resto, lo chiamavano “The Hammer”...
IL SINGOLO VINCE, LA SQUADRA TRIONFA
Quante volte abbiamo usato l’espressione “l’unione fa la forza” in situazioni di vita quotidiana? La sentiamo dalle scuole elementari, quando dovevamo svolgere degli esercizi in gruppi e le maestre ci spronavano a collaborare, e continueremo a sentirla, in ambienti lavorativi, quando per poter completare un incarico serviranno più di 2 mani.
Ma avete mai pensato quanto questo concetto sia lampante nello sport?
Il calcio è forse l’esempio più banale ma efficace che possiamo trovare. Infatti, prima di analizzare le capacità del singolo, ci concentriamo sulla squadra, che per “girare” bene deve fare affidamento su un gruppo solido di giocatori che scendono in campo per la vittoria della squadra, concentrandosi sulla prestazione di gruppo e non su quella personale.
Potremmo parlare della Fiorentina di Palladino,che continua a collezionare vittorie anche grazie al gruppo affiatato che si è venuto a creare quest’anno.
Palladino ha parlato di questo concetto dopo la vittoria contro il Genoa: “Oggi Quarta ha fatto un discorso alla squadra che mi ha fatto venire i brividi. Sono segnali importanti di un gruppo che sta crescendo [...] Ha detto (riferendosi al difensore della Fiorentina) cose molto belle che rimangono nello spogliatoio e fa capire la forza di questo gruppo. Non era facile creare questa magia che si sta creando in questo gruppo”
Ribadendo questo pensiero anche dopo la partita con il Como: “C’è unione, spirito di squadra. Si è creato qualcosa di meraviglioso.”
L’importanza del gruppo si è resa evidente, negli ultimi giorni, con la vittoria della Coppa Davis e della Billie Jean King Cup conquistata dall'Italia.
In entrambe le coppe, rispettivamente maschile e femminile, la forza del IL SINGOLO VINCE, LA SQUADRA TRIONFA
Quante volte abbiamo usato l’espressione “l’unione fa la forza” in situazioni di vita quotidiana? La sentiamo dalle scuole elementari, quando dovevamo svolgere degli esercizi in gruppi e le maestre ci spronavano a collaborare, e continueremo a sentirla, in ambienti lavorativi, quando per poter completare un incarico serviranno più di 2 mani.
Ma avete mai pensato quanto questo concetto sia lampante nello sport?
Il calcio è forse l’esempio più banale ma efficace che possiamo trovare. Infatti, prima di analizzare le capacità del singolo, ci concentriamo sulla squadra, che per “girare” bene deve fare affidamento su un gruppo solido di giocatori che scendono in campo per la vittoria della squadra, concentrandosi sulla prestazione di gruppo e non su quella personale.
Potremmo parlare della Fiorentina di Palladino,che continua a collezionare vittorie anche grazie al gruppo affiatato che si è venuto a creare quest’anno.
Palladino ha parlato di questo concetto dopo la vittoria contro il Genoa: “Oggi Quarta ha fatto un discorso alla squadra che mi ha fatto venire i brividi. Sono segnali importanti di un gruppo che sta crescendo [...] Ha detto (riferendosi al difensore della Fiorentina) cose molto belle che rimangono nello spogliatoio e fa capire la forza di questo gruppo. Non era facile creare questa magia che si sta creando in questo gruppo”
Ribadendo questo pensiero anche dopo la partita con il Como: “C’è unione, spirito di squadra. Si è creato qualcosa di meraviglioso.”
L’importanza del gruppo si è resa evidente, negli ultimi giorni, con la vittoria della Coppa Davis e della Billie Jean King Cup conquistata dall'Italia.
In entrambe le coppe, rispettivamente maschile e femminile, la forza del gruppo italiano non è passata inosservata, infatti ha rappresentato un punto di forza per le due squadre italiane.
Proprio Berrettini, dopo la vittoria del primo set in finale, ha parlato di questo concetto di squadra: “Credo che il segreto sia quello di entrare in campo in 5-6 con tutto il team, non importa chi giochi. Dopo l’inno ci siamo detti che avremmo disputato questa finale tutti insieme”
E lo stesso ha fatto Musetti:“Purtroppo anche quest'anno non sono stato partecipe in campo di grossi risultati, ma la vittoria della Davis mi fa capire come il gruppo e il team possa fare la differenza. L'amicizia domina questo gruppo ed è la forza che ci fa vincere così tanto”.
L’allenatrice azzurra ha parlato dell’unità del gruppo dopo la vittoria della Billie Jean King Cup: “È stata una vittoria di squadra, tutte le ragazze hanno portato una loro unicità in questa bellissima trasferta. Ognuna di loro ha colto quello che è lo spirito di squadra […] Le scelte sono difficili, ma abbiamo (riferendosi a lei stessa e all’allenatore della squadra maschile) la consapevolezza di avere dei ragazzi straordinari, che capiscono l'importanza dell'evento e mettono da parte il valore personale per un valore di gruppo.”
Quindi possiamo concludere affermando che, all’interno di una squadra, i singoli, per poter rendere al meglio, devono collaborare e riuscire a formare un gruppo unito, che la maggior parte delle volte fa la differenza.
gruppo italiano non è passata inosservata, infatti ha rappresentato un punto di forza per le due squadre italiane.
Proprio Berrettini, dopo la vittoria del primo set in finale, ha parlato di questo concetto di squadra: “Credo che il segreto sia quello di entrare in campo in 5-6 con tutto il team, non importa chi giochi. Dopo l’inno ci siamo detti che avremmo disputato questa finale tutti insieme”
E lo stesso ha fatto Musetti:“Purtroppo anche quest'anno non sono stato partecipe in campo di grossi risultati, ma la vittoria della Davis mi fa capire come il gruppo e il team possa fare la differenza. L'amicizia domina questo gruppo ed è la forza che ci fa vincere così tanto”.
L’allenatrice azzurra ha parlato dell’unità del gruppo dopo la vittoria della Billie Jean King Cup: “È stata una vittoria di squadra, tutte le ragazze hanno portato una loro unicità in questa bellissima trasferta. Ognuna di loro ha colto quello che è lo spirito di squadra […] Le scelte sono difficili, ma abbiamo (riferendosi a lei stessa e all’allenatore della squadra maschile) la consapevolezza di avere dei ragazzi straordinari, che capiscono l'importanza dell'evento e mettono da parte il valore personale per un valore di gruppo.”
Quindi possiamo concludere affermando che, all’interno di una squadra, i singoli, per poter rendere al meglio, devono collaborare e riuscire a formare un gruppo unito, che la maggior parte delle volte fa la differenza.