Intorno al 1960 ha cominciato a delinearsi in Italia la figura del “cantautore”.
Venne offerta una spiegazione vera e propria del termine: i cantanti-autori scrivevano testi “mica stupidi, nei quali cuore non fa rima con amore” [numero del 2 ottobre del 𝘊𝘰𝘳𝘳𝘪𝘦𝘳𝘦 𝘥’𝘐𝘯𝘧𝘰𝘳𝘮𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘦]. Nel gruppo che poteva fregiarsi di questo nuovo titolo figuravano Maria Monti, Umberto Bindi, Gianni Meccia, Giorgio Gaber e Gino Paoli. Fra loro, gli ultimi due sono senza dubbio i più celebri.
Il primo è una figura fondamentale per la nascita e lo sviluppo della scuola milanese.
La città della Madonnina coincide infatti con uno dei principali centri di sviluppo della musica di questo genere, assieme a Bologna, Roma e Genova.
Oggi la memoria di questi artisti viene portata avanti tramite associazioni, premi (su tutti, i riconoscimenti intitolati a Luigi Tenco), celebrazioni e omaggi, come quelli a cui abbiamo assistito all'ultimo Festival di Sanremo, in particolare nella serata di venerdì 13 febbraio. Come da tradizione, i concorrenti hanno potuto rivisitare brani già resi famosi dagli interpreti originali, e ovviamente la scelta di alcuni è ricaduta su capolavori senza tempo.
I liguri Bresh e Olly, ad esempio, hanno fatto rivivere rispettivamente Creuza de mä, pezzo-copertina dell'omonimo album composto interamente in dialetto, e Il pescatore di Fabrizio De André; Brunori SAS ha optato per L'anno che verrà, firmato da Lucio Dalla; l'emergente Joan Thiele si è avventurata in Che cosa c'è di Gino Paoli e così via.
Anche questa volta non sono mancate le critiche da parte degli spettatori, spesso restii ad ammodernamenti e chiavi di lettura diverse. Il rischio di snaturare le opere di alcune colonne portanti, amate e rispettate, è sempre presente, ma portare musica di un certo tipo su un palcoscenico come quello sanremese può avere vari effetti positivi, su tutti quello di avvicinare il proprio pubblico al cantautorato in un'epoca dove a prima vista sembra essere scomparso. Occhi (e orecchie) più attenti, però, noterebbero che è ancora in vita e può essere ancora valorizzato.
Facciamo ancora una volta riferimento alla 75ª edizione della kermesse ligure. Il podio è stato quello del verbo “volere”: dal crescente “Vorrei, vorrei, vorrei”, introduzione del ritornello di Balorda Nostalgia, che si è aggiudicata il primo posto, al “Vorrei cambiare la voce [...] / vorrei cantanti l’amore, amore, amore / La notte che arriva nel giorno che muore” che ritorna ne L’albero delle Noci (terza posizione). In mezzo ai condizionali c'è anche l'imperfetto di Lucio Corsi in Volevo essere un duro. Il suo testo parla proprio di imperfezione, delle pressioni di un mondo che ci vorrebbe inscalfibili e in controllo di ogni situazione. Alla fine, però, le aspettative si infrangono sul timore del futuro, di non essere abbastanza, in un “ho anche paura del buio” quasi sussurrato.
Il cantante maremmano da più di un decennio ha compiuto una gavetta che oggi sembra apparentemente non più dovuta, in un’epoca in cui il favore dei talent show sforna nuove leve che vengono spedite subito nel giro dei grandi numeri.
L'apprezzamento quasi unanime che ha registrato Corsi è un indicatore di quanto, negli ultimi anni, l'offerta musicale sia stata pressoché monotona. Il trentaduenne di Vetulonia è da tempo sotto contratto con l'etichetta Sugar Music, che periodicamente compare fra giganti del settore quali Warner, Universal e Sony.
Alla sua prima apparizione sotto i riflettori nazionali non ha messo da parte le caratteristiche lo distinguono dai colleghi: pareva capitato lì per caso, con il suo trucco bianco, il volto emaciato, il look glam-rock opposto alle collane e ai lustrini che per gran parte delle serate hanno regnato sul palco. In pochi giorni è stato sbalzato dai campi della provincia di Grosseto alla possibilità di esibirsi all'Eurovision Song Contest.
Per il momento, tuttavia, continua a dare la priorità agli strumenti e a uno stile fiabesco che si porta dietro dagli esordi. Nei suoi lavori anima gli animali, il vento, le piante, mentre negli ultimi due singoli del 2024 ha raccontato l'amore ai tempi del liceo con Tu sei il mattino per poi pubblicare alla vigilia di Natale Nel cuore della notte, solo pianoforte e voce, sei minuti senza ritornelli: qualcosa di rarissimo.
Molto apprezzato, dicevamo, è stato anche Brunori SAS, medaglia di bronzo. Da più vent'anni scrive e suona, vincendo anche riconoscimenti di alto livello, ma si è rivelato al grande pubblico solo di recente. In Calabria, la sua terra, lo hanno eletto a simbolo e all'età di 47 anni è arrivata la sua consacrazione definitiva.
I cantautori, dunque, esistono ancora?
Sicuramente, sebbene in una veste diversa rispetto al passato, e per quanto, da un certo punto di vista, siano oggi meno “impegnati”. La difficoltà è emergere in un panorama sempre più uniforme e superficiale. Quelle che abbiamo approfondito sono eccezioni che confermano la regola: tutti gli altri sono soffocati da un mercato sempre più veloce, pre-impostato, che spinge sui release fridays –le uscite della mezzanotte del venerdì per entrare nelle classifiche settimanali per cui il conteggio parte proprio in quel momento– e le produzioni in serie, relegando la musica ad un ruolo di fondo; oppure, al contrario, il mercato spinge verso la costruzione di idoli da seguire e venerare ad ogni costo, senza prestare attenzione alle parole utilizzate e ai comportamenti scelti.
Alcuni interpreti si possono scovare solo se si cerca intenzionalmente nei risvolti delle playlists meno cliccate, e prendendosi del tempo per ascoltarne davvero le strofe.
Per avere un quadro completo della situazione è d'obbligo inoltre parlare dell' indie. In Italia questa branca viene vista in modo sostanzialmente diverso rispetto ad altri paesi, dove quello indipendente, piuttosto che un vero e proprio stile, è un approccio alla produzione caratterizzato, almeno in origine, da budget limitati, libertà creativa e accompagnamenti chitarristici marcati.
Lo spartiacque fra una concezione alternative e più rock, come quella della band toscana dei Baustelle, e un’idea più lineare, lenta e fondata sulla rappresentazione di immagini quotidiane risale al 2011, e viene fatto coincidere dalla critica con il lavoro di debutto di un artista che probabilmente non avrete mai sentito nominare.
L'autore è Niccolò Contessa, che si firma come “I Cani”, e dopo un paio di apparizioni sulla piattaforma Soundcloud pubblica Il soprendente album d'esordio de I Cani. Il curioso nome del progetto, il fatto che durante le sue esibizioni si copra il volto con un sacchetto e il suo talento nella comunicazione su Facebook, in quel momento un social in grande ascesa, attirarono non pochi interessamenti. La one-man band ha pubblicato la sua terza e ad oggi ultima raccolta, Aurora, ormai sette anni fa: le parole conclusive erano: “pure a sparire ci si deve abituare” e in effetti, salvo alcune comparse sporadiche, Contessa si è dedicato in gran parte alla stesura per altri interpreti e alla realizzazione di alcune colonne sonore.
Fatto sta che la sua figura, sempre accompagnata da un certo alone di mistero, ha segnato una nuova pagina della musica italiana, con i suoi ritratti crudi dell’età giovanile, l’uso del synth per creare melodie via via più tristi, e opere come Il posto più freddo o Una cosa stupida con le quali ha dimostrato che creazioni introspettive e dal ritmo più intimo possono fare breccia.
La stampa di casa nostra dunque ha cominciato a parlare di “itpop”. Il re incontrastato di questo genere è Calcutta, che con il grande successo raggiunto una decina di anni fa ha dato origine ad un sentiero comune incentrato, ancora una volta, nel Lazio, battuto anche da nomi come Coez o Fulminacci. Si tratta di un movimento che unisce versi dalla poetica profonda a metafore ed accostamenti che sembrano quasi senza senso. In Paracetamolo, per esempio, il cantante classe '89 esordisce con “lo sai che la Tachipirina 500, se ne prendi due, diventa 1000?”; Gazzelle ripete invece per ventuno volte la frase “Te lo ricordi lo zucchero filato?” in un brano del disco Superbattito, che al tempo stesso contiene però pezzi dal testo apprezzabile e ragionato. Mi riferisco agli estratti Quella te e *Nmrpm, lontani anni luce dalle penne del secolo scorso. La galassia indie diventa di conseguenza uno spazio dove addentrarsi solo se disposti ad un simbolismo certe volte esasperato, affiancato dal denominatore comune della malinconia, che ultimamente ha abbracciato anche elementi più pop e rap sull’onda di nuove leve quali Ariete, Chiello o il duo Psicologi.
Un compromesso fra i ritornelli da radio e il cantautorato più puro, che sopravvive grazie a perle da ricercare e riconoscere.
La musica di adesso
A molti di noi- che ascoltiamo molta musica e che badiamo alla sua qualità capita spesso di chiedersi: “Perché la musica non è più come prima?”.
La principale ragione è che le persone non percepiscono più la musica come prima, e ciò perché ora, grazie a Youtube e ad app come Spotify o Apple Music, è molto più semplice avere accesso alla musica. Prima dell'avvento di internet, l'unico modo per ascoltare ciò che desideravi e che non era trasmesso alla radio era comprare le copie fisiche degli album. Questo comportava una maggiore affezione ed un maggiore attaccamento all'artista che avevi scelto ed all'album che avevi acquistato, in cui avevi investito. Prova ne sia che i veri appassionati continuano ancora adesso a collezionare vinili e cd, se non addirittura audiocassette, nonostante la loro qualità audio scadente.
Se l'ascoltatore è meno interessato alla qualità della musica e investe emotivamente meno in essa, di conseguenza gli artisti sono meno invogliati e motivati ad innovare o a ricercare. Quello a cui si assiste oggi è un'omologazione dei prodotti musicali: se a chi ascolta non importa di sentire qualcosa di nuovo e unico, a che serve metterci l'anima? Basta andare sul sicuro, ripetere qualcosa che ha avuto già successo variando il minimo indispensabile e mirare a fare più soldi possibile.
Certo, anche in passato l'aspetto economico era importantissimo; ma, in questo momento storico, si ha l'impressione che l'essere unici, l'essere coraggiosi, l'essere autentici non paghi o sia diventato troppo difficile. Guardate gli album usciti negli ultimi anni e ditemi se la loro qualità non è andata sempre più abbassandosi.
A rendere malata, se non moribonda, la musica attuale contribuiscono sì le playlist, le collections di “best of”, TikTok, Instagram e tutto il resto, ma la colpa vera tocca agli artisti stessi; per la fretta di pubblicare un nuovo album e di partire per il nuovo magnifico tour, si accontentano di un paio di canzoni discrete, fatte alla svelta e senza troppa riflessione, riempiendo il resto delle tracce di roba già sentita migliaia di volte, nella speranza che uno di quei due brani spopoli sui social per il tempo sufficiente a riempirsi le tasche; invece di imbarcarsi in un progetto ponderato, coeso, con un senso ed un intento precisi, la cui lavorazione però non si sa quanto potrà durare, e il cui successo virale non sia immediatamente garantito.
Altro capitolo, i testi delle canzoni e le basi musicali. Ora, io non sono un fanatico del testo, quel che più mi importa, quel che più mi tocca è la musica; però ritengo che la serietà di un album, la sua originalità, la sua freschezza non possano prescindere da testi scritti con l'intenzione di dire davvero qualcosa, e non solo per sventolare una superficiale empatia all'ascoltatore. Un testo degno di questo nome deve raccontare una storia o parlare di argomenti importanti in modo sincero.
Quanto alla qualità ed all'accuratezza delle basi musicali, sembra che la maggior parte degli artisti non ci presti quasi più attenzione, col risultato che in giro non capita di ascoltare che motivi banalissimi, noiosi e senz'anima, con mixing spesso frutto di improvvisazione. Con la crescita in popolarità dei software di musica digitali è infinitamente più semplice ed alla portata di chiunque creare una base musicale; ma per realizzare qualcosa di veramente interessante e originale occorre studio e applicazione, occorre non accontentarsi.
In aggiunta, se quando ci si avvale di suoni finti, cioè ricreati digitalmente, questi non vengono utilizzati nel modo giusto, con arte e conoscenza, il rischio è di creare qualcosa che non sembra nemmeno lontanamente un prodotto umano; qualcosa di asettico, di robotico, di inanimato. Provate ad ascoltare musica fatta con l'IA e ditemi se è piacevole.
Forse sto esagerando, forse sono troppo legato a certa musica del passato per apprezzare quella di adesso, forse mi aspetto troppo dalla musica e da chi si spaccia per artista; però questa è la mia opinione. A voi la vostra.
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