RACCONTI

Nelle fauci della belva di Sara Parenti

Nelle orecchie sentivo ancora echeggiare l'orribile grido della belva, e la pelle d'oca e la paura affioravano ad ogni passo che facevamo verso il castello. Stavamo camminando a passo spedito nel cuore di un'immensa pineta di montagna, l'odore degli alberi diffuso nell'aria che si faceva man mano più fredda e pungente, mentre i nostri cuori si affaticavano dall'attesa. Non vedevo più l'inizio del sentiero, che ormai era perso sotto la coltre di aghi di pino.

Zio Frederick avanzava a lunghe falcate, brandendo il fucile. Zia Louisa gli camminava a fianco, lo sguardo valoroso. Marguerite li precedeva nonostante la paura e zia Berenice borbottava tra sé e sé parole che non riuscivo a cogliere ma che potevo facilmente immaginare: prevedeva disastri.

Io li seguivo muto, accanto ai miei cugini Charlotte e Dante. A fatica mi stavano accanto, perché un mio passo equivaleva a due dei loro.

Nonostante fuori stessi mantenendo la calma, dentro la paura della belva cresceva e mi struggeva lentamente, avvinghiando il mio stomaco in una fredda morsa. Sentivo che c'era qualcosa che non andava, ma zia Louisa diceva che non ci si poteva affidare alle proprie sensazioni.

Quando il castello apparve davanti a noi, sentii ancor più forte l'istinto di scappare. 

Zio Frederick e zia Louisa entrarono senza esitare.

Prima di seguirli, squadrai il castello, il cui aspetto parve rispondere al mio sguardo con uno altrettanto minaccioso, il tetto spiovente, i muri di pietra divorati dal tempo, le finestre squadrate che nascondevano le sale.

Dentro, trovammo il marito di zia Marguerite, Leon, ad aspettarci. Riferì che nei sotterranei non vi era traccia della belva, quindi di dover proseguire per i saloni del castello, bui come una notte priva di stelle. Indicò il corridoio stretto alla sua destra. “Poco fa, da laggiù provenivano dei rumori” spiegò. 

Imboccammo il corridoio finché non andammo a sbattere contro una colonna. Era la quinta di sei che dividevano il corridoio da un salone infinito, di un buio spettrale. 

Zio Frederick alzò il fucile e disse: “Vado io. Voi, continuate per di là”. Scomparve nel vuoto non appena ebbe superato la schiera di colonne.

Il corridoio ci condusse a un varco, oltre il quale una scaletta a chiocciola, davanti al fondo di una stanzetta, portava a una specie di mansarda. 

“È lassù”, disse Dante, “lo sento”. Mentre lo diceva, con l'indice puntava l'alto.

Non appena ebbe pronunciato tali parole, mi sentii assalire da un terrore agghiacciante e mi sentii mancare il fiato. Allora, senza neppure rendermene conto, esclamai: “Là no! Non andiamo lassù, sento che c'è qualcosa di sbagliato!”

“Ma sta là, non possiamo farla scappare” ribatté Dante, altezzoso.

“E cosa senti?” domandò zia Louisa, con tono superficiale.

“Non lo so, ma vi prego di ascoltarmi”.

“Se non la sai definire, significa che non è niente”.

“Vado!” esclamò Dante, precipitandosi per le scale, seguito a ruota da Charlotte.

Pensai fossero degli sciocchi, prima di correre loro dietro. 

La mansarda era buia e non si riusciva a distinguerne la fine. Ma prima che potessi finire di salire le scale, sentii la peggiore delle sensazioni affondare i suoi artigli nella carne dei miei fianchi, cominciando a tirarmi verso il basso. Distesi un braccio per ricevere il supporto del corrimano, ma la belva era mostruosamente più forte di me ed ebbe la meglio. La mia vista si fece offuscata e la mia percezione lenta mentre le due massicce braccia della bestia, spuntate dal pavimento come un fantasma, mi tiravano dabbasso.

Caddi per tre metri senza che nessuno potesse aiutarmi.

Al mio risveglio, mi trovavo sul mio letto dell'albergo. I primi raggi del tenero sole entravano nella camera e irradiavano una tenue luce. Nessuna parte del corpo mi doleva, se non i fianchi. Buttai via la coperta. Scoprii che la mia carne era intatta. Nella camera vi erano ancora le borse mie e dei miei cugini, con cui condividevo la stanza. Allora capii che era stato tutto un sogno.

Ma di quanto tempo aveva vagato la mia mente? 

Erano le sei di mattina del sedici novembre.

La missione al castello cominciava quello stesso giorno. Dovevo impedirlo.



La traccia di Sara Parenti

“Una tazza di tè, signori?”

Il maggiordomo versò del tè alle erbe fumante da una teiera di ceramica; dopodiché girò sui tacchi e lasciò il salotto di casa ai padroni e agli ospiti tanto attesi, rispettivamente seduti sui divanetti intorno al tavolo da caffè, su cui poggiavano le quattro tazze e un vassoio di biscotti.

All'estremità di un primo sofà sedevano la signora e il signor Châtaigne. La prima attendeva con pazienza apparente che la discussione venisse aperta: i suoi occhi andavano dal marito, agli ospiti, alla porta, con fare ossessivo.

Di fronte a lei, la signorina Marshall stringeva tra le mani una valigia marrone, tanto gonfia da fare pensare che potesse esplodere da un momento all'altro. Guardava i signori Châtaigne con un timido sorrisetto imbarazzato, in attesa del momento più opportuno per attaccare con il suo discorso.

Accanto a lei, suo fratello stava resettando il suo orologio da polso, disinteressato alla situazione.

Quando Henrique Châtaigne spiccicò il palmo da sotto il mento, Elka Marshall fece spazio sul tavolino, vi poggiò la valigia e la aprì, rivelando una montagna di scartoffie e cartoline, taccuini e una lettera rossa.

Prima di parlare, sollevò una foto e si soffermò a guardarla per un paio di secondi, con sguardo mesto. Infine trovò le parole e disse: “Io e mio fratello vi siamo grati per tutto l'aiuto che ci avete dato in seguito alle recenti scomparse dei nostri familiari e alle ricerche che sono susseguite fino a qualche settimana fa. Noi due, però, abbiamo trovato una traccia: porta all'aeroplano del nostro tutore. Siamo convinti che trovando lui, troveremo le altre persone scomparse, quali i nostri genitori e gli altri studiosi che lavoravano con loro”.

La reazione dei padroni di casa non fu come se l'era immaginata nella sua testa per giorni: non vi furono lacrime o sguardi affranti, bensì la più pura e irritante semplicità e naturalezza.

“Bene”, disse il signor Châtaigne afferrando un biscotto dal tavolino, “e dove vi porta questa traccia?”

“In Norvegia” rispose Elke.

“E come mai così lontano?”

“È quello che ci stiamo chiedendo pure noi. Ma è là che conducono gli appunti del nostro tutore”.

“Perfetto, quando partite? E quanto vi serve per la ricerca?” domandò Harriet Châtaigne, prendendo carta e penna e mettendosi a sparare delle alte cifre, che i due fratelli Marshall potevano solo vedere nei sogni.

“In realtà, questo non era compreso nel nostro piano: abbiamo un'amica che abita a Öslo e che provvederà a darci alloggio. Voi, per noi, avete già fatto tanto”.

“Be', allora non ci resta che sperare che troviate una prossima pista”.

Quando uscirono dal portone di Villa Châtaigne per l'ultima volta, Elke e Joële Marshall erano molto fiduciosi della traccia che avrebbero seguito di lì a poco, nonostante un brivido di impaziente attesa corresse lungo le loro schiene. Si erano fatti una vaga idea su ciò che il futuro teneva in serbo per loro, ma niente si avvicinava minimamente a quel che effettivamente avrebbero incontrato: tra i freddi, immensi ghiacciai della Norvegia, sferzato da un gelido vento, l’Havets brus li attendeva, gonfiava le vele e si preparava a salpare.

Il Ruggito dei Mari avrebbe cavalcato le onde per un'ultima volta.



Lo scrigno per il mio cuore di Sara Parenti

Un respiro e mi trovo sul molo, un altro e vago per la pineta. 

I ricordi scivolano, sinuosi, davanti ai miei occhi in nemmeno il tempo di un battito di ciglia, invadendomi di una certa, dolce sensazione, al tempo stesso malinconica, che mi preme sul cuore un irreprimibile desiderio di tornare in quel luogo, speciale al mio cuore.

Se avessi saputo prima che mi sarebbe mancato così tanto, sono sicura che non avrei aspettato un secondo di più per passarvi le giornate: mi sarei seduta sul masso del molo più lontano dalla riva e non avrei fatto niente se non guardare l’immenso mare, cercare di vedere le isole che vi apparivano a largo solo nei giorni più limpidi, quando non erano avvolte dalla nebbia; e mi sarei riposata; avrei sentito sulla pelle gli ardenti raggi del sole e gli schizzi delle onde che battevano ai lati del molo, ne avrei udito il moto mischiato alle voci vivaci dei bagnanti mentre avrei guardato il volo dei gabbiani fino a vederli appollaiarsi sulla montuosa superficie dell'acqua.

E quando il sole si sarebbe fatto più caldo, mi sarei riparata all’ombra della pineta, nel mio cuore ricca di storie fantastiche; avrei bighellonato tra gli alti pini e avrei respirato l’odore del legno e delle foglie e della terra. 

Insomma, avrei reso quel posto tanto speciale.

Ricordo che quando mi sedevo sul molo e guardavo l'infinito mare, mi sentivo tanto leggera, come se mi fossi trovata sul confine del mondo, interminabile e di un blu intenso.

Ricordo il tramonto che vi vidi: aveva tinto tutto il cielo e l'acqua di pennellate rosse e arancioni e reso le nuvole rosee. Restai fino a vedere il sole, diventato ormai una piccola sfera biancastra, scomparire dietro l'orizzonte.

Ho lasciato il cuore in quella spiaggia, e ancora lo si può sentire battere tra lo scrosciare e borbottare dell'acqua, senza mai venirne di meno.



La pioggia che allevia di Sara Parenti

Corse fuori dal riparo della tettoia, sotto all'acqua che veniva giù a secchiate, rendendo la vista offuscata e confusa.

Aprì le braccia e buttò all'indietro la testa, mentre i suoi vestiti e capelli erano ormai zuppi d'acqua.

“Vieni anche te!” mi gridò in una risata.

Io esitai. Mi strinsi nel cappotto, mentre guardavo la nuvoletta del mio respiro disperdersi nell'aria.

“Avanti! Tanto non ti salvi nemmeno con l'ombrello!” ripeté lei, “Non hai niente da perdere!”

Allora sorrisi vittoriosamente, poiché il mio ombrello era abbastanza grande da coprire anche la mia cartella.

Lei cominciò a girare su se stessa. Aveva un che di comico che mi strappò una goffa risata.

Avanzai sotto la pioggia, senza ombrello: lo avevo lasciato sotto alla tettoia assieme allo zaino e alla cartellina.

“Eccoti qua!” Kaylee mi sorrise, io ricambiai con una scrollata di spalle.

“Mi sarei comunque fatto la doccia, oggi” mi giustificai.

“Ricordati bene questo momento, mi raccomando”, disse, “perché questo, mio caro amicaccio, è un nuovo inizio per entrambi. Da grande, quando i tuoi figli ti chiederanno quando fu il giorno che entrasti all'Accademia delle belle arti, ti balenerà in testa il ricordo di noi che ridiamo sotto la pioggia e ci alleggeriamo della faticosa, lunga strada che ci ha condotti fin qua, che ci ha resi capaci di trasformare un sogno in realtà. Intesi?”

“Intesi” ripetei prontamente.

Dicci di più, papà, di come sei diventato un eccellente pittore!, ti chiederanno. E allora tu dirai, con voce saccente: Ma certo, ragazzi. Tutto questo è merito della zia Kaylee!

“È vero”.

“Macché, lo sai che scherzo”.

“No, dico sul serio. Se tu non mi avessi fatto credere che ce l'avrei fatta, ora mi troverei a fare domanda a chissà quale altro istituto, invece di realizzare il mio sogno. Grazie, Kay”.

Corsi sotto alla tettoia a riprendere i miei oggetti. Lei mi seguì. 

Ridemmo per tutto il tragitto fino a casa, perché non aveva senso camminare sotto all'ombrello se eravamo già mezzi d'acqua.

Arrivati davanti casa sua, la ringraziai.

“Kaylee, davvero, è tutto grazie a te”.

“Il merito è tuo: io ti ho solo dato una spintarella” disse e si affrettò a entrare in casa. Prima di chiudere la porta mi urlò una delle sue battute d'uscita che soleva dire: “Pensa se quest'acqua ci ha fatti prendere un raffreddore! Sarebbe terribile ammalarsi d'estate!”


Proseguii i miei studi all'Accademia delle belle arti e a ventisette anni cominciai la mia carriera di pittore, che porto avanti da quasi vent'anni.

Eppure, non ho mai raccontato ai miei figli né a mia moglie di quella sera d'estate, di tanto tempo fa, del perché sono diventato quel che sono.

E se ci penso mi viene da piangere.

Non è certo stato per egoismo: sono state le partite della vita ad allontanare me e Kaylee l'uno dall'altra. Litigi inutili, sogni non condivisi. Era la mia migliore amica, ma non ricordo di averle più parlato dopo due anni da che entrai all'Accademia. Perché non l'ho fatto. È incredibile come tendiamo a ricordare certe persone solo per gli errori che hanno fatto e allontanarci per stupide litigate, e non per tutto il bene che ci siamo voluti e per le volte in cui abbiamo riso fino a esaurire l'aria nei polmoni. Non credevo che mi sarei mai potuto scordare di lei. Forse, se io e mia moglie non ci fossimo trasferiti a Parigi qualche cosa sarebbe stata diversa, forse ci sarebbe stata la possibilità di tornare ad essere gli amici di una volta. Ma, fino ad allora, ne sarebbe valsa la pena incontrarci per le strade del nostro paese e vederci l’un l'altra come ormai perfetti sconosciuti?

Mi torna tutto in mente mentre passo in rassegna alcuni dei miei vecchi vestiti: il cappotto che indossavo quella sera mi lascia un vivido ricordo davanti agli occhi. 

Dopo una lunga pausa, prendo il telefono e scrollo la rubrica.

Kaylee Joanne Moris: è ancora lì, a occupare il suo singolo posticino alla K, tra il numero di mia mamma e quello dell' amministratore del condominio.

Indugio sul cliccare o meno il pulsante “CHIAMA”.

Mi porto il telefono all'orecchio. Mentre digita il numero, una parte di me spera che Kaylee non sia più raggiungibile a quel numero.

Ma quando una voce mi risponde dall'altra parte del telefono, mi rassereno e sopprimo quel pensiero.

In un attimo, sembra che il tempo non sia mai passato, e che la spensieratezza della gioventù sia ancora viva dentro di me.

Le vere amicizie sono quelle su cui niente ha potere. Basta poco per riaccenderle.

E niente può porvi fine, stavolta per sempre.



Punti di vista di Sara Parenti

Ricordo che quel giorno la luce entrava a fiordi dalle finestre socchiuse e che in classe si ribolliva nonostante le ventole girassero in un brusio sommesso. 

Noi trattenevamo il respiro, troppo spaventati per dire qualsiasi cosa. La professoressa stava riprendendo Ed Flint, che stava in piedi di fronte a lei, la testa china a terra. Non lo avevo mai visto così. I suoi occhi erano tristi e imbarazzati, qualcosa che credevo impossibile per lui.

Era la prima volta che veniva ripreso.

Sentii i miei compagni mormorare qualcosa come “Gli sta bene, godo un monte”, ma io non lo pensavo. Non so perché. Non sopportavo Ed Flint, lo avevo sempre visto come un ragazzo sicuro di sé, con la risposta pronta, a cui non importa degli altri, né tantomeno di qualcuno come me. Non credevo nemmeno che fosse bello. Sfoggiava sempre un sorriso compiaciuto e beffardo. O almeno secondo me.

Ma ora che lo guardavo, mi faceva tristezza, pena. Come se non se lo meritasse. Dopotutto, non era stata colpa sua se il vaso della professoressa era caduto in mille pezzi. Lo avevano spinto. Ma la prof non gli voleva credere, e quel qualcuno – che in realtà non avevo visto bene in faccia, doveva essere di un'altra classe – non si voleva prendere la responsabilità delle proprie azioni.

Quando la campana suonò le tredici, la classe si svuotò. Io mi stavo dirigendo verso l'uscita quando mi chiamò.

“Pandora”.

Mi voltai.

Edmund era in piedi davanti al suo banco e giocherellava con una spallina della cartella.

Mi fermai sulla porta e attesi che dicesse qualcosa.

Lui alzò la testa e mi guardò con due occhi tristi.

“Tu mi credi?”

Era una domanda del tutto inaspettata, poiché non capivo perché me lo stesse chiedendo. Glielo dissi.

“Tra tutti, perché lo chiedi a me?”

“Perché te non segui il gregge. Tu te ne stai per le tue e osservi tutto e tutti… Per caso, gli altri hanno detto niente?”

“Tipo?” Non me la sentivo di fare la spia.

“Si sono, ecco… divertiti a vedermi rimproverare? Non dirò niente a loro, voglio solo capire. Anche se credo di sapere già la risposta. Perché io non gli piaccio?”

La credetti una domanda a tranello. Inoltre, non ero la persona giusta a cui fare una domanda del genere, poiché non ero tanto popolare in classe, ero nella “classe media”, non spiccavo per popolarità, ma nemmeno ero invisibile agli occhi di tutti.

“Non lo so” borbottai.

“Per favore”.

Lo guardai negli occhi e un misto di pena e rimorso mi invase.

“Be'... forse perché te la cavi sempre in tutto”.

“Ma io a scuola sono discreto. Non sono il migliore, ma nemmeno il peggiore” obiettò lui.

“Non a scuola. In generale. Riesci sempre a uscire incolume da qualsiasi situazione. E poi sei tanto sicuro di te. E talvolta diretto, tanto diretto; e schietto. E sempre entusiasta e chiacchierone”.

“Davvero? Io non lo faccio apposta”.

Si guardò attorno, mesto.

“È per questo che non abbiamo mai parlato, io e te?”

Allora non seppi che dire. Non parlavamo mai perché eravamo l'uno l'opposto dell'altra: mentre lui era spensierato e aperto, io rimuginavo ed ero riservata. Non volevo essere inglobata nella sua persona estroversa ed essere vista a malapena, ma essere considerata come persona anch'io, non fargli da zerbino per farlo apparire ancor più “figo” o “potente”.

“Non abbiamo mai parlato per vari motivi, ma non per questo” mentii.

Rimase a pensare per un po'. 

“Cosa posso fare per migliorare? Per piacere agli altri?” Me lo chiese con tutt'altro tono, più convinto e fiducioso. “Mi puoi aiutare?”

“Perché lo chiedi a me?” chiesi ancora.

“Perché ora non mi fai sentire giudicato, ma ascoltato. C'è tanta differenza tra le due cose”.

“Be'...” Mi persi in una riflessione forse fin troppo lunga, che tenne il mio interlocutore sulle spine per tutto il tempo, su delle spine aguzze e dolorose, e di questo mi dispiacqui.

“Va bene” accettai infine.

Fu come se avessi appena sollevato Edmund da un grosso peso schiacciante.

“Bene, grazie Pandora. E scusa se non ti ho mai rivolto parola se non nel bisogno”.

“Tranquillo, sarà qualcosa su cui lavoreremo entrambi” gli risposi.

E fu così che Edmund Flint divenne il mio migliore amico.



Tute scarlatte di Sara Parenti 

Sedeva in veranda, le braccia conserte sul petto che si gonfiava e si abbassava ad ogni respiro grave che l'uomo traeva. Scrutava il cielo con ciglio sospetto e aspettava, e aspettava. 

Il cane abbaiò due volte, dentro casa. 

Lui allungò un braccio con fare distratto e aprì al Golden Retriever la porta che dava sulla veranda. Poi si fece nuovamente serio.

Il campo si srotolava sotto al cielo scuro come una vasta distesa ombrosa, dalla quale si levavano le spighe di grano; il vento le faceva vibrare dolcemente, facendole danzare al chiar di Luna.

Allorché un lampo biancheggiante irruppe nella calma del cielo, l'uomo alzò la testa, dunque prese a squadrare le stelle con i suoi occhi arzilli. Ma ormai tutto era tornato immobile e il lampo di luce non si presentò una seconda volta. Così, corrucciato, si fece nuovamente vigile. Se loro fossero arrivati quella notte, come le sue ricerche sostenevano, lui li avrebbe visti e avrebbe finalmente provato la loro esistenza.

Come il tempo scorreva ozioso, pure il più tenue, soffocato canto dei grilli si spense col sopraggiungere della mezzanotte.

L'uomo avrebbe dovuto abbassare lo sguardo dal bagliore delle stelle al campo per rimanere sorpreso: tre figure scarlatte stavano emergendo dalle spighe, e avanzarono invisibili, le pistole basse, i colpi caricati, verso la porta sul retro. Si accertarono che non ci fosse nessuno, dunque fecero scattare la serratura ed entrarono in casa. Un alito di calda aria viziata li travolse, filtrò attraverso i pori delle maschere e li fece ondeggiare. 

Presero a setacciare i cassetti della cucina, l'armadio della camera da letto, rovistarono nella spazzatura e tra i cuscini del divano. 

Finché non trovarono qualcosa di insolito, che i loro occhi non avevano mai visto.

Si protesero attorno a quella strana tavoletta avvolta in una carta marrone con su scritto “Hershey’s milk chocolate” in grigio. La scartarono, incuriositi, e si ritrovarono a contemplare una tavoletta marroncina dall'odore angelico. 

Uno dei tre viaggiatori la prese in mano con troppa forza, spezzandola, allorché tutti sussultarono.

Il primo decise di darle un morso. Si tolse dunque il casco e l'assaggiò. Un dolce tepore si diffuse nella sua bocca, incantandolo. Così vollero provarla anche gli altri e convennero di portarla via con loro.

Così ripresero a setacciare l'abitazione. Quando trovarono ciò per cui avevano intrapreso il fatidico viaggio, rimasero di stucco, sbigottiti. Tutta l'economia del pianeta Terra girava attorno a un pezzo di carta grigiastra, con su stampato un numero e un uomo dallo sguardo serioso? Gente pativa la fame a causa di ciò? rubava per entrarne in possesso? I viaggiatori si scambiarono degli sguardi confusi, ma poiché la loro missione era giunta al termine, uscirono di casa, la banconota in tasca, proprio come la Corte Spaziale della Nube di Oort aveva loro incaricato di fare.

Di ritorno all'astronave, un ululato li fece voltare. Una bestiola pelosa, di colore nocciola, li stava guardando con due occhi scuri. Non avevano mai visto creature del genere. Uno di loro gli diede un buffetto sulla testa, in mezzo alle orecchie a punta. Subito l'essere si lasciò cadere sul prato, la pancia all'insù, domandante carezze.

Quando i tre viaggiatori si volsero per riprendere il cammino, il cane li seguì e loro non glielo impedirono.


Fatto ritorno sull’asteroide 0L3 della Nube di Oort, la Corte Spaziale si trovò a fare i conti con un foglio grigiolino, una nuova fonte di energia e un essere peloso e giocherellone; l'uomo, derubato di 50 dollari, dell'ultima barretta di cioccolato rimasta e del suo cane, attese tutta la notte la venuta dei viaggiatori dello spazio, invano. Passerà le prossime settimane nello studio con la testa china su calcoli e dati, in attesa del loro ritorno e chiedendosi che fine avrà fatto il fedele Bobby.



Quando tutto cominciò di Sara Parenti

Di notte, l'istituto in fondo a via dei Cipressi celava spettrali misteri, o almeno era l'aria che le sue alte mura grigie davano. Nelle ampie classi e nei lunghi corridoi regnava un silenzio opprimente e surreale. Non si udiva neppure il rumore del vento attraverso i cespugli del cortile. 

Eppure, quella notte esplose un rumore sordo, e sotto alla finestra dell'aula 17 si sparsero dei vetri. Quattro figure umane passarono per volta attraverso il varco nella finestra e calpestarono le schegge a terra.

Una di loro, Hannah, accese una torcia e la stanza s'illuminò tutta d'un pezzo.

Noah fece cenno ai compagni di seguirlo, dunque uscirono nel corridoio. Dovettero ammettere che l'ala nord, a quell'ora della notte, aveva un aspetto tetro e angosciante, eppure i ragazzi procedettero coraggiosamente verso la biblioteca, senza dare peso alle strane sensazioni che emergevano ad ogni passo.

Entrati nella stanza, si chiusero le porte alle spalle. Marianne scostò le cortine di una finestra e osservò i dormitori, avvolti nel silenzio della notte. 

“Quale è, ragazzi?” chiese Hannah studiando il pavimento a quadretti.

“La quinta dallo scaffale C-F” rispose Noah.

La ragazza dunque contò le mattonelle a terra e all'ultima si inginocchiò. “Marianne, prendi la mia torcia e fammi luce, grazie. Tobey, tu vieni a darmi mano a sollevarla…”

I due ragazzi presero la mattonella che traballava e la alzarono, scoprendo una buchetta in fondo alla quale si trovava un piccolo scrigno. Noah lo prese e lo contemplò. Aveva le bordature, erano polverose ma, quando vi passò un dito sopra, rivelarono un colore quasi dorato, lucente. 

Prese dalla tasca la chiave che avevano trovato i giorni precedenti e la infilò nella toppa, la girò finché non vi fu un rumore di ingranaggi. Appena sollevò il coperchio, i compagni si fecero vicini. 

Conteneva uno specchio, uno di quelli col manico argenteo e il piatto rotondo, e un frammento di una lettera. Quest' ultimo fu preso da Tobey, mentre lo specchio lo pescò Marianne. 

“Che c'è scritto?” chiese Hannah.

“Sullo specchio non c'è niente” disse Marianne, “ma è molto bello, ci sono delle incisioni particolari…”

“Intendevo sul foglio. Cosa dice?”

“Non lo so, è latino” borbottò Tobey. “Datemi un po' di tempo per riflettere…”

Marianne prese a camminare in su e in giù per la stanza, specchiandosi nello specchio e chiedendosi perché fosse custodito nello scrigno di Margot Feuille, la fondatrice dell'istituto. Lo specchio le restituì il suo riflesso, con dietro il quadro della fondatrice sulla parete. Quando incrociò i suoi occhi, a Marianne parve che si fossero mossi.

All'improvviso, il riflesso della donna del quadro scomparve. La ragazza urlò e si voltò. Il quadro, ora, giaceva vuoto sulla parete.

“Ragazzi…!”

Qualcosa picchiò alla porta della biblioteca, violentemente. I ragazzi sobbalzarono. 

“È lei” piagnucolò Marianne. “Lo sapevo che non dovevamo cercare lo scrigno, lo sapevo!”

Gli altri scattarono in piedi e spostarono due banchi davanti alla porta, bloccandola. Ma i colpi non cessavano, così si fecero piccoli in un angolo. 

“La finestra!” sussurrò Hannah, nonostante la paura le bloccasse la voce.

Si precipitarono ad aprirla, ma la serratura era vecchia e difettosa. Alla fine cedette e i ragazzi uscirono nel cortile. Si nascosero tra i cespugli, sotto ordine di Marianne, che aveva il terrore negli occhi.

Attesero così per pochi istanti, prima di vedere avanzare una figura nel buio del cortile. Era Margot Feuille, indossava i vestiti e aveva lo sguardo con cui era stata impressa nel dipinto, solo che i suoi occhi erano vuoti pozzi rossi e le sue labbra erano tirate in un ghigno. Ad ogni passo un rumore sordo di stivali si perdeva nell'aria.

“Tobey, il foglio! Che c'è scritto?” sussurrò Noah. 

“Fa’ presto!” 

“Non sono sicuro… dice qualcosa su un ‘lago di riflessi’... Lo specchio!”

Hannah strappò lo specchio dalle mani di Marianne e lo lanciò fuori dal cespuglio, lontano da loro.

Il fantasma della fondatrice dell'istituto girò la testa, producendo un rumore agghiacciante, e in soli due passi fu sopra l'oggetto. Quando lo raccolse, si volse verso il nascondiglio dei ragazzi e a loro parve che sorridesse. Poi, come era comparsa, svanì nell'aria, con lo specchio. Qualcosa nel vento cambiò, preannunciava disordini, ma i ragazzi erano pietrificati per rendersene conto. 

“Torniamo ai dormitori…”, decisero, ancora scombussolati e spaventati. Nei giorni a venire avrebbero rimpianto la curiosità verso il tesoro della Feuille, nata da una voce che girava nell'istituto. E avrebbero dovuto fare i conti con ciò che avevano liberato… 



Casal Pedrini di Sara Parenti

In fondo alla via in cui vivevo c’era una casa. Più che altro, era una villetta, che un tempo doveva essere stata assai sontuosa. I suoi muri si erano sbiaditi col passare del tempo, e la grondaia era penzolante, mentre i vetri, polverosi, impedivano di spiarne gli interni; i giardini ricoperti di una coltre di foglie. Era disabitata da decenni ormai. Ma ogni notte si accendeva una luce, al piano di sopra, tremula. Pulsava, si accendeva e spegneva, in modo meccanico. Io la riuscivo a vedere dalla finestra di camera mia, sentendo ogni volta un brivido corrermi lungo la schiena. Poiché neppure la corrente arrivava a quell’abitazione. Per giustificare l'inspiegabile fatto, tra i giovani girava la voce che i fantasmi dei vecchi proprietari, la famiglia Pedrini, non avessero mai lasciato la casa e che, ogni notte, attrassero nuove vittime attraverso il pulsare della luce, per vendicarsi di quanto gli era accaduto, nonostante nessuno lo avesse mai scoperto. Si credeva questo, ed io ci ero cascata capo e collo. Per questo non osavo mai avvicinarmi. Persino parlarne mi metteva i brividi.

L’estate dei miei undici anni, mia cugina la trascorse a casa mia. I suoi stavano divorziando, e i miei genitori avevano avuto la brillante idea di ospitarla da noi. Dico così, non per crudeltà, ma perché lei mi incuteva paura dalla notte dei tempi. Ero il suo zimbello e approfittava della mia incredulità e disponibilità per arrivare a ciò che voleva, mettendo sempre me nei pasticci. 

Tuttavia, per quella volta decisi di mettere da parte il rimorso e di darle conforto se e quando ne aveva bisogno. Magari saremmo diventate vere cugine. E invece, cambiò poco.

Subito la prima sera, il suo vispo occhio catturò il pulsare della luce della “villetta infestata”. Mi chiese spiegazioni, ma io non gliene diedi. Perciò, il giorno dopo intervistò un gruppetto di ragazzi di scuola mia. Loro seppero illustrare l’intera storia per filo e per segno, senza mancare del più microscopico dei dettagli. E fu allora che nella testa di mia cugina scattò l’idea: quella sera ci saremmo dovute andare. Invitò anche quei tipi; io li conoscevo, ma non mi sembravano abbastanza in gamba da affrontare qualsiasi cosa si nascondesse dietro quelle mura. Perciò stavo in guardia.

Mia cugina raccontò una frottola ai miei genitori, che saremmo andate a prendere un gelato con dei miei amici. Quindi uscimmo di casa che erano quasi le nove di sera. Ricordo che non era particolarmente buio e che tirava un piacevole venticello. 

Quando ci avvicinammo allo steccato, allora rimpiansi di essere là. Più di tutti ce l’avevo con mia cugina, poiché io ero venuta solo per non lasciarla sola. 

Il cortile appariva ancor più austero di quel che sembrava da lontano.
Mia cugina colpì la porta di spalla. Questa si aprì in un cigolio sinistro. La prima cosa che mi colpì fu il tanfo di muffa e di vecchio che, in un’alitata dal buio dell’ingresso, ci arrivò addosso.

“Bene, ora, prima di andare tutti, sarebbe meglio se entrasse uno a vedere com’è” disse una ragazza.

Tutti gli occhi si volsero verso di me. Ero la più minuta, dunque perfetta per l’incarico. Provai a ribellarmi, ma non so se fu l’orgoglio di dimostrare a mia cugina che ero forte anch’io o per un’involontaria scarica di coraggio, alla fine, armata di torcia, mi inoltrai nella casa. Sentivo lo sghignazzare degli altri dietro di me, ma lo ignorai e mi feci avanti nell’ingresso. A terra giacevano accatastati scatoloni, mobili mangiati dal tempo e vetri rotti. Pregai di non trovarvi insetti o topi. Le pareti erano tappezzate di quadri, di una gran varietà di forme e colori, ma tutti ricoperti di polvere. Non mi azzardai nemmeno per sogno di sfiorarli.

“Al piano di sopra! Vai là!” sentii dire una voce da fuori casa. Cercai dunque, e molto ingenuamente, le scale e salii al primo piano. Prevaleva una tremenda puzza di marcio, e vecchi vestiti e giocattoli. Cominciai a perlustrare il piano con la paura che si faceva sempre più preda di me. La sentivo risalire lo stomaco. Il mio cuore martellava possentemente. Sentivo che qualcosa non andava. Qualcosa mi stava osservando. Percepivo degli occhi maligni calarsi su di me. E fu allora che la vidi. Mi si paralizzarono le braccia lungo i fianchi e le gambe, inchiodate a terra, tremavano come foglie. Nemmeno mi resi conto della torcia che mi cadeva dalle mani e la mia bocca aprirsi in un grido. Là, accanto alla finestra, c’era una lampadina, accanto alla quale stava una sagoma senza contorni, nera come la pece; aveva la testa come allungata in un cappuccio. Riuscivo solo a distinguere due fessure aguzze, come tagliate con un coltello, di un chiaro giallo, che mi incutevano di correre. E così feci. Ancor prima di vederla distendere un braccio verso di me, ancor prima di vedere la luce iniziare a pulsare come sempre faceva, io mi fiondai giù per le scale e corsi con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Non mi fermai neppure per dare spiegazioni a quei rintronati. Entrai in casa mia. Il cuore mi batteva ancora forte e la testa mi girava. La prima cosa che feci fu chiudere le tende della finestra della mia stanza, per non vedere quell’orrore di casa. Poi trassi una serie di profondi respiri per calmare il mio battito cardiaco. Mi dissi che non sarei mai più tornata in quel casale, che non mi ci sarei più nemmeno avvicinata, che non l’avrei più guardata. 

E ogni sera la luce del piano di sopra si accendeva e spegneva, e ogni sera sentivo quegli occhi perfidi scrutarmi dalla finestra.



La frana nel bosco di Sara Parenti 

LA FRANA NEL BOSCO


Stava piovendo; l’aria era impregnata di un forte odore di terra bagnata; tra le fronde degli alberi, gli scoiattoli cercavano riparo dall’acqua.

Sebastian, il pelo arruffato, correva veloce nel bosco, abbaiando forte, diretto alla strada. Si fermò in mezzo e richiamò l’attenzione della prima automobile che vide passare. L’autista, una donna di mezza età, parcheggiò al lato della strada e gli si avvicinò per vedere se aveva il collare; lui scattò sulle zampe, abbaiò e sparì nel bosco. La signora lo seguì a corsa con tutte le forze che aveva, perché il terreno era scivoloso e il cane veloce, finché esso non si fermò davanti a delle rocce franate davanti a una parete di pietra; abbaiò qualche volta e mugolò, e prese a raschiare contro la parete. Allora la donna chiese se ci fosse qualcuno. Allorché una voce le rispose dall’altra parte dell’ostacolo, ella estrasse prontamente il cellulare e chiamò i soccorsi. Allontanò il cane dalle rocce che stava grattando, per evitare spiacevoli conseguenze. Gli aiuti arrivarono più in fretta che potevano, e in men che non si dica la persona intrappolata nella caverna fu liberata. Il cane le corse addosso e prese a leccarle tutta la faccia, mentre i medici le chiedevano se si fosse ferita nell’incidente; eccetto qualche graffietto, stava bene. Ringraziò i presenti per l’aiuto e, con Sebastian che le trotterellava accanto, scodinzolando allegramente, tornò a casa. Mai e poi mai si sarebbe allontanata da lui.



Quando si fece sera di Sara Parenti 

QUANDO SI FECE SERA


L’oscurità era calata. Le stelle, timide, nascoste nel cielo, iniziavano a farsi coraggio e a mostrarsi sopra la mia testa in un lieve barlume soffuso. 

Le lucciole si erano alzate dal prato e, come esse, i miei pensieri trovarono modo di prendere vita al chiarore della lanterna, ed erano accompagnati dal monotono frinire dei grilli. 

Lasciai che i miei pensieri venissero colti da quella calda brezza e portati chissà dove nella vastità della radura dinnanzi ai miei occhi, ormai fatti stanchi. Mi sentii come liberare da un peso che altrimenti non mi avrebbe fatto altro che male. 


Lontano, una luce di un’abitazione si accese e parve deliziare la serata con quel suo tepore arancio.

Cercai nel cielo la Luna, arrivata a un quarto, e mi tornò in mente la prima volta che ebbi l’occasione di osservarla al telescopio: la sua superficie era solcata da grandi, distinti, ombrosi, crateri, e il suo contorno andava a sfumarsi di blu, fino a terminare nel cielo. 

Ho impressa nella mente tale immagine come se non se ne volesse mai andare e ancora mi trasmette la sensazione che ebbi la prima volta: di totale incanto e piccolezza nei confronti di quella sfera perlata tanto amata e riconosciuta nelle poesie di Leopardi quanto dall’intera umanità, che ogni sera le sofferma uno sguardo. 

La sua luce si rifletteva sulla superficie del lago e io ne potevo vedere le increspature causate dal soffio del vento giunto da ovest. 

Pensai che in quel momento non volevo essere altrove se non là, sui gradini della mia casa di campagna, a trarre calma dal dipinto che si snodava attorno a me.



Pensando di Sara Parenti 

PENSANDO


Sento le onde, un moto così calmo e regolare da farmi dimenticare della critica situazione in cui mi trovo; e le stelle… puntini luminosi nel cielo che mi sussurrano, seppur lontani, che non c’è niente di cui preoccuparsi e che, ora, sono al sicuro. 

Sento il mio corpo, dalla punta dei piedi alla testa, farsi, piano, sempre più leggero. Non temo più l’oceano su cui galleggio: ora mi sembra qualcosa di familiare e quieto, come il cielo stellato. 

Riesco a vedere la Via Lattea… Solo ora comprendo il motivo per cui gli antichi romani la chiamarono così: sembra proprio del latte versato sulla scura volta celeste. I suoi colori mi fanno venire i brividi da quanto sono belli: bianco, rosa e violetto, lentigginati di stelle. 

Ora provate a chiudere gli occhi e a immaginare il moto delle onde; focalizzate il cielo boreale. Vedete, nella costellazione del Boote, la stella Arturo? Quel pallino giallo luminoso? Riuscite a vedere la punta di stelle che la testa e le spalle formano? E, se vi spostate a nord, riuscite a vedere l’Orsa Maggiore? Potete distinguerne il Grande carro? E dalla sua stella più a est, se tracciate una linea andante in quella direzione, vi appare la stella polare?

Potrei continuare a illustrarvi le bellezze del cielo boreale, ma il suono più dolce che abbia mai sentito cattura la mia attenzione. Sembra seguire uno schema ripetitivo producendosi in lunghi, potenti sospiri, e dà un senso di pace che mi è nuovo. Quindi deduco che questo canto appartiene a una balena, e mi sporgo dalla zattera per poterne distinguere l’aggraziata forma che mi sta nuotando vicino; vederla mi riempie il cuore di gioia.

Mi sdraio nuovamente sotto al letto di stelle, e torno a consultarle. Mi sembra di essere a un passo dal toccarle, quindi allungo un braccio cercando di raggiungerle, ma non riuscendoci lo ritraggo. Sfioro invece la superficie dell’acqua che mi scorre dolcemente fra le dita, mentre mi conduce chissà dove in mezzo al mare. 

Se solo la notte non finisse mai, resterei per sempre così.



Cara Giulia 

Cara Giulia, 

tu neanche mi conosci e forse io non  avrei mai sentito il tuo nome se non fosse successo ciò che purtroppo conosci meglio di me. Sono una ragazza non molto più piccola di te, che vive una vita più o meno normale (una di quelle che molto probabilmente tu ora stai un po’ invidiando), ma che come le altre donne deve portare con sé tanti fardelli pesanti, massi che la tua storia ha portato un po’ a galla. Da quando il tuo nome è apparso sulla prima testata giornalistica, mi sveglio ogni mattina con un senso di pesantezza che prima provavo a sopprimere o nascondere, ma che ora invece preme senza sosta sul petto. Sono sicura che tu sai di cosa sto parlando: ognuna di noi purtroppo l’ha sentito almeno una volta.


Non so se dal posto in cui sei adesso ogni tanto guardi giù per vedere cosa stiamo combinando. Mi piacerebbe davvero tanto sapere cosa ne pensi, ma purtroppo non è possibile. Provo a immaginarmi con quante domande senza risposta tu ora ti stia tormentando.

Probabilmente ti chiedi perché una cosa del genere sia successa proprio a te o come hai fatto a fidarti per così tanto tempo di una persona del genere, ti domandi chi abbia voluto ciò o perché tu non sia riuscita a salvarti. Non ho una risposta a queste domande, nessuno di noi ce l'ha, cara Giulia, perché davanti a cose come queste noi esseri umani non siamo capaci di dare una spiegazione totale, anzi alcune volte siamo talmente limitati che cerchiamo di dare una giustificazione a cose INGIUSTIFICABILI. Alcuni addirittura sono arrivati a pensare che te lo saresti dovuta aspettare, che ti saresti dovuta accorgere di alcuni comportamenti sospetti; ma come potevi pensare a una fine del genere? Una persona non dovrebbe mai immaginare che colui che fino a poco tempo prima baciava e abbracciava per stare bene sarebbe capace di arrivare a strappargli la vita. Tua sorella si è opposta fermamente a questo schifo, e sta combattendo in tuo nome una battaglia dura, in modo che tu sia una delle ultime a subire una cosa simile. Non sarebbe meraviglioso se ci riuscisse davvero? 

Tuttavia la mia fiducia nel genere umano non è salda come la sua, e credo che per arrivare a un punto ci sia ancora bisogno di moltissima strada, che spesso non riusciamo neanche a vedere, e ti chiedo scusa per ciò.

Con questa lettera non voglio dare una risposta a nessuna domanda o smentire giustificazioni. Sono solo stanca di dover sentire storie come la tua, di costringermi a superarle o a non avere paura. 


Sai, Giulia, il tuo corpo è stato ritrovato il giorno del mio compleanno, e per questo è stato ancora più devastante: forse è il motivo per cui mi sento in dovere di scriverti, di chiederti perdono per un mondo che ha portato col tempo  l'accumularsi di storie come la tua, di vite strappate, corpi uccisi e di anime di donne dilaniate. 

Quindi eccomi: una donna che chiede scusa a un’altra donna per un omicidio commesso da un uomo. Sembra ironico detto così, e me ne rendo conto, ma onestamente non me la sono sentita di limitarmi a stare in silenzio per un dannatissimo minuto.

Vorrei davvero che da questa lettera qualcuno riuscisse a leggerci qualcosa di bello, perché 106 ragazze in un anno sono troppe, sono uno strappo troppo grande in questa società che si sta scucendo e sgretolando da sola. 

Un’ultima cosa Giulia: vorrei ringraziarti  perché all’interno della tua storia c’è qualcosa che è andato in modo diverso rispetto alle altre volte. Come sei comparsa in fondo a quella lista il tuo nome si è come illuminato, accendendosi di una luce rossa come il fuoco e il sangue,  iniziando a viaggiare  da individuo a individuo, lasciando macchie rubine ovunque si fermasse. Io non so cosa sia successo, e non credo che questa cosa sia giusta, ma se servirà a portare qualche occhio in più sul sangue e quello strappo, allora non possiamo che essere grati. 

Ora ti saluto cara Giulia, ti chiedo ancora scusa, per una cosa che non può essere scusata. 

Riposa in pace. 



All'ultimo momento di Sara Parenti

ALL’ULTIMO MOMENTO

Mancavano meno di sessanta secondi al fischio di fine partita dell’arbitro. Tre a due, bel modo di perdere. Ma non sarebbe successo. Elliot si scambiò uno sguardo complice con Mac; e sarebbe stato quello, secondo lui, a segnare la vittoria sua e dei suoi compagni. Appena fu possibile, Mac riuscì a prendere la palla alla squadra avversaria e la lanciò in direzione dell’amico, ma Michael Anta, loro avversario, si parò in mezzo tra il pallone e Elliot, il quale, perciò si dovette lanciare in un salto. 

Sentì i suoi polpastrelli toccare il pallone, chiuse le mani su di esso e, palleggiandolo a terra ad ogni passo, corse al canestro. Si fermò, fletté le ginocchia. Saltò più in alto che poté, coinvolgendo tutta la forza che ancora gli rimaneva. Lanciò la palla, pregò che entrasse nel canestro. La gente sugli spalti trattenne il fiato. Alcuni chiusero gli occhi. Nella palestra calò un silenzio, interrotto unicamente dal brusio del condizionatore. 

Il pallone roteò in aria e parve non voler mai cadere, ma restare lassù, levato tra le mani del giocatore numero otto e il canestro, che anch’esso pareva attendere irrequieto che l’arancia segnata da un inconfondibile marchio Spalding terminasse di disegnare infiniti cerchi in quell’aria fatta d’un tratto pesante. Poi si decise a fare la sua discesa verso l’abisso di quel cono bucato e, come una scintilla che appicca un fuoco ardente, accese gli applausi dei mille, esultanti spettatori: due punti. Fine partita. Era fatta: gli Iceheart avevano vinto ancora.