Pubblicazione del 27 maggio
Quassù a Berlino Ovest l'aria è sempre grigia e acida.
Sarà per il fumo delle fabbriche, le stesse che ormai dieci anni fa spinsero mio padre a venire qui, le stesse che ogni sera me lo restituivano con gli occhi rossi e le braccia sfinite. O forse perché io l'aria vera la ricordo: al paese non era così bassa e soffocante neanche nei pomeriggi più grigi di novembre.
C'era sempre qualcosa a riempirla, e l'unico fumo che conoscevo era quello delle sigarette. Gli uomini tenevano le dita callose sulle Nazionali, che –si diceva– arrivavano direttamente da Roma, mentre gli altri si accontentavano di arrotolarle a mano. A Natale, poi, tornava l'avanguardia: i più coraggiosi erano partiti già un paio d'anni prima alla volta del Veneto, del Piemonte o della Germania.
 Fu proprio uno di loro a descrivercela come a terra ca nun te turna, quella che non ti riporta indietro. Organizzata, funzionale e redentrice, per quanto dura.
 Fu grazie a loro che conoscemmo l'albero di Natale, addobbato coi mandarini, e fu con loro che papà pensò alla partenza. 
Non diedi troppo peso a quell'ombra, finché a primavera le cose furono improvvisamente decise. Si partiva in due, io e lui, ché quattro braccia sono meglio di un paio.
Ancora oggi rammento ogni passo deI mio ultimo giorno fra i monti della Sila. Era una domenica: il gelso stava per fiorire, i campi erano velati d'erba e noi si aspettava che i filari di agrumi prendessero colore. In estate saremmo scesi a Cosenza, a venderne i frutti. Quando fu mezzogiorno mangiammo tutti assieme, nella strada, fra i racconti delle magàre che toglievano il malocchio e aspettavano frementi quel momento della settimana, in cui potevano finalmente raccontare il loro ultimo sortilegio a prova di affàscinu e jettature.
A fianco a me, Salvatore continuava a parlarmi della Vespa tutta rossa che un giorno avrebbe voluto guidare – l'aveva scoperta su una rivista in parrocchia e da un mese non faceva che ricordarla; Domenico invece parlava dell'amore con la faccia stordita di chi non lo sapeva ancora afferrare. Io, che in un'altra occasione sarei stato il miglior sognatore -avrei ambito a una macchina e ad una ragazza dagli occhi verdi– mi limitavo ad ascoltare.
A poca distanza da noi i vecchi parlavano in dialetto stretto, ma lento. Spesso fra loro cadeva il silenzio, rimuginavano su ciò che si erano detti, poi qualcuno schioccava la lingua e dava nuova linfa alla conversazione, che si sarebbe protratta fino all'imbrunire. Sembravano parole sagge, qualsiasi esse fossero.
Mi allontanai da solo, in direzione della Collina, e corsi ancora una volta giù, sdraiandomi a riprendere fiato. Cercai di imprimere nella mente i visi che vedevo ogni giorno, le voci dei compagni, i muretti screpolati e i sentieri scoscesi che in un meno di un'ora portavano al mare. Ci riuscii abbastanza bene, a giudicare dalla mole di ricordi che mi assale quando la foschia della capitale mi avvolge.
Venuta la sera, preparammo le valigie. La mia era di cartone pressato e conteneva tre camicie, una foto della mamma, una della Madonna del Carmine e poco altro. Alla fine si aggiunse un rametto di zagara: “portalo su, che questo profuma anche al freddo”. La nonna, seduta fuori, spostò le mani dal grembiule per stringere le mie con uno sguardo indecifrabile.
La mattina seguente partimmo al chiarore dell'alba: sul cassone del camion che ci avrebbe portati al primo dei tanti treni da prendere, capii che la domenica da poco trascorsa era stata il mio ultimo giorno da bambino.
Fino ad allora avevo provato tristezza, ma non ero mai stato triste. Avevo anche provato la felicità, ed ero stato felice per davvero.
L'infanzia non finiva con un gioco lasciato a metà, ma con un salto nel vuoto e la luna che ancora vegliava sul paese arroccato.
Pubblicazione del 29 gennaio
"Le città invisibili: Armonoasi" lavoro di gruppo di una terza
Le città invisibili: Armonoasi
Armonoasi è una città che nasce dal rispetto profondo per la terra e per le risorse che essa
ci offre. Ogni suo angolo è pensato per vivere in armonia con l’ambiente, come una piccola
oasi che respira insieme a chi la abita. Le case sono fatte di materiali naturali e riciclati:
legno, argilla, e pietra, tutti materiali che permettono alla città di respirare, mantenendo
fresca l’aria d’estate e calda d’inverno.I tetti sono ricoperti di piante che non solo
abbelliscono, ma aiutano a regolare il clima. Ogni casa ha anche un piccolo orto, dove gli
abitanti coltivano il proprio cibo senza utilizzare pesticidi né fertilizzanti chimici.Le strade di
Armonoasi non sono fatte di asfalto, ma di ciottoli naturali che si adattano al terreno,
favorendo l’assorbimento dell’acqua piovana. Non ci sono macchine a inquinare l’aria, ma
solo biciclette e veicoli ecologici a energia solare che si muovono tra i quartieri. Ogni strada
è circondata da alberi e fiori, e nei giardini pubblici la vegetazione è sempre rigogliosa,
coltivata con tecniche naturali che proteggono la biodiversità.
La città è divisa in piccoli quartieri, ognuno autosufficiente e pensato per ridurre al minimo il
consumo di risorse. Ogni casa ha un sistema per raccogliere e filtrare l’acqua piovana, che
viene poi utilizzata per irrigare gli orti e per altri scopi domestici. L’energia viene tutta dal sole
e dal vento: ogni edificio è dotato di pannelli solari e turbine eoliche, che producono l’energia
necessaria per illuminare le case.
Nel centro di Armonoasi, c’è una grande piazza circondata da grandi alberi e panchine di
legno riciclato. Qui gli abitanti si incontrano, scambiano idee, e organizzano attività che
promuovono la sostenibilità, come mercati di scambio, laboratori di riciclo o incontri sulla
protezione dell’ambiente. Non esistono supermercati tradizionali, ma piccoli mercati locali
dove si vendono solo prodotti freschi e a chilometro zero, spesso coltivati direttamente dai
residenti nei loro orti. Le persone si aiutano reciprocamente, scambiandosi semi, piante e
frutta.
Armonoasi è anche una città che educa. Le scuole non insegnano solo matematica e
grammatica, ma anche come vivere in armonia con la natura. I bambini imparano a fare
giardinaggio, a curare l’orto, a costruire rifugi per gli animali e a rispettare ogni forma di vita.
La notte ad Armonoasi è silenziosa. Non ci sono luci artificiali che disturbano il cielo, ma solo
lampade a energia solare che diffondono una luce morbida e che creano un’atmosfera
serena e tranquilla. Armonoasi è una città simbolo dell’ecologia. È un esempio di come si
può vivere in modo diverso, in sintonia con il pianeta, rispettando e valorizzando le risorse
che ci vengono date.
Le città invisibili: Cecilia
Marco Polo descrive ad un Kublai Khan sempre più incredulo la città di Cecilia, un luogo dove l’armonia tra uomo e natura è perfettamente simbiotica. In questa città, le case non si ergono dalla terra ma si intrecciano con gli alberi, creando abitazioni sospese tra rami robusti e foglie verdeggianti.
A Cecilia, ogni quartiere è dedicato allo studio naturalistico di uno specifico elemento. Nel quartiere dell’acqua vengono studiati gli infiniti utilizzi e benefici della materia stessa. Nel quartiere dei fiori, un paesaggio vivace costituito da un tripudio di colori, dove i fiori vengono curati con la più minuziosa attenzione, rallegra la città. Nel quartiere degli alberi, fusti secolari circondano le abitazioni e si mescolano con l’architettura, trasformando ogni edificio in una parte vivente del paesaggio. Nel quartiere degli animali selvaggi gli esseri umani si prendono cura di ogni creatura osservandone i comportamenti e vivendo senza disturbare l’equilibrio naturale, integrando così la loro esistenza con quella del mondo vegetale e animale che li circonda. Gli abitanti di Cecilia hanno una profonda connessione spirituale con la natura, che si riflette nel loro modo di approcciarsi all’ambiente ed agli altri, motivo per cui vivono in modo semplice e sostenibile. Ogni famiglia possiede alcuni animali ed un orto dove viene prodotto tutto ciò di cui un cittadino può avere bisogno. Gli abiti che indossano vengono ricavati da prodotti e processi prettamente naturali, dall’intreccio del tessuto fino alla tintura. Passando per il mercato centrale si può percepire un'atmosfera di spensieratezza e tranquillità; addentrandosi tra le bancarelle stracolme di prodotti freschi gli abitanti effettuano scambi, i bambini giocano in sicurezza liberi per la piazza e gli anziani si fermano per apprezzare le belle giornate di sole.
La gestione dei rifiuti e la produzione di energia non è un problema per Cecilia, infatti nulla viene buttato, ma ogni rifiuto riciclato; le vecchie stoffe, i rifiuti organici vengono utilizzati ingegnosamente. L’energia di Cecilia proviene esclusivamente da fonti rinnovabili. Il vento che soffia tra le fronde degli alberi muove pale eoliche silenziose, mentre il sole, filtrato dalle foglie, alimenta pannelli solari disposti con discrezione tra i rami. Ogni abitazione è progettata per massimizzare l’efficienza energetica e le notti sono illuminate da lanterne a energia solare, che diffondono una luce soffusa, creando un’atmosfera magica e serena.
Le scuole sono all’aperto, insegnano ai bambini l’importanza del rispetto e della cura per il pianeta. Le festività a Cecilia celebrano i cicli naturali. La festa della fioritura in primavera vede la città esplodere in una sinfonia di colori e profumi. In estate, la festa del raccolto è un momento di gioia e condivisione. L’autunno, con la caduta delle foglie, è un periodo di riflessione e gratitudine per i doni della natura, mentre l’inverno è il momento della festa della quiete, dove si celebra il riposo e la rigenerazione della terra.
Marco Polo conclude il racconto con un sorriso e così, Cecilia rimane impressa nella mente dell’imperatore, come un faro di speranza di ciò che il mondo potrebbe diventare.
Le città e l'ambiente: Elide
Mentre mi avventuravo nel bosco innevato, lasciando dietro di me le orme dei passi sulla neve, scorsi in lontananza il paesino composto da poche casette, di cui tanto avevo sentito parlare. A tratti questo scompariva dietro le foglie. Proseguii lentamente lungo il sentiero formato dalle impronte degli animali selvatici.
Udii un rumore, un fruscio lieve, come di vento, a tratti ben udibile, a tratti più sottile. Veniva sicuramente dal villaggio.
Arrivata al margine del bosco osservai le case, ormai più vicine, circondate dalle pale di tanti mulini a vento e generatori eolici, che giravano nella brezza della sera.
Le luci delle case facevano assomigliare il paese a un cielo trapunto di stelle.
Gli edifici fatti di travi di legno sostenute da larghi muri di sassi, con i loro tetti un po’ spioventi, si trovavano raccolti sulla sommità di una collina, attorno a un campanile che si intravedeva più alto sullo sfondo del cielo ormai nero.
Al di sotto del paese, grazie al chiarore irradiato dalla luna unito a quello delle luci artificiali, si intravedevano i campi coltivati a terrazze, ulivi, qualche piccola vigna e strappi di terreno ancora incolto invaso dal bosco.
Raggiunsi infine la prima casa, osservai le deliziose finestre di ciliegio, alcune dipinte di un verde salvia, mi avvicinai alla porta, attesi un attimo e poi decisi di bussare.
La donna che mi venne ad aprire aveva un’età indefinibile, indossava un vestito lungo con un grembiule e mi guardò con due occhi azzurri senza dire una parola, dietro di lei un chiarore caldo fatto di tantissime lampadine elettriche accese e la luce che ne proveniva era appena tremolante. Imbarazzata dissi che venivo da lontano, che ero stanca dal lungo camminare e le chiedevo ospitalità per un breve riposo. Mormorando qualche parola che io non capii, apri la porta e mi indicó sulla sedia un vecchio con una pipa che mi salutó con un cenno della testa. Fuori intanto si alzava il vento e man mano che questo faceva più chiasso sembrava che la casa s’illiminasse più forte. Anche l’acqua fuoriusciva improvvisamente più vigorosa dal rubinetto che la signora aveva aperto poco prima, per lavare i due o tre cocci della cena. Il vecchio lesse lo stupore nei miei occhi. Si schiarì invano la voce e con parole intrise di fumo, prese a raccontarmi a modo suo che la luce, l’acqua e la corrente elettrica di tutto quel paese erano prodotti dal vento. Erano i mulini a fare questa magia. L’acqua proveniva dai pozzi artesiani a valle del paese. Per la prima volta capii quanto la forza della natura poteva da sola sostenere le esigenze energetiche di un’intera comunità, e ne gioii.
Le città e la rinascita: Veloria
Della città di Veloria non rimane molto se non gli echi lontani del suo antico splendore, gli anziani che abitano nelle città vicine raccontano che Veloria un tempo era un punto cruciale per l’industria e per il commercio, ma a seguito di un incendio di proporzioni apocalittiche, la città venne ridotta ad un cumulo di macerie. Andando avanti si può notare un bosco dove, stranamente, non sono gli alberi le piante più alte, ma i rampicanti, i quali sembrano toccare il cielo; questo è il bello della città di Veloria: una città che, nonostante sia stata distrutta dalle forze della Natura, è riuscita a rigenerarsi proprio grazie ad essa. Veloria ha infatti la particolarità di rigenerare ciò che si disperde nelle immense foreste che la circondano; gli abitanti vengono soprannominati “gerascofobici”, dato che, come la natura che li culla, essi non sembrano invecchiare mai. La vita nella città di Veloria è sempre vivace, data la calorosa accoglienza che trasmette a chiunque passi per di qua anche per pochi istanti
Le città e l’ambiente: Amaranta
Amaranta sarebbe una città quasi nella norma se non fosse per il fatto che si trova in mezzo al nulla, protetta dal clima afoso del deserto che la circonda da una bolla di un colore non ben definito che comprende sfumature dal rosso al viola. Non ci è dato sapere come si possa visitare il suo interno, forse da una porta, poco o ben visibile, questo perché la città in questione ha un effetto amnesico sui suoi visitatori dovuto alla sua bellezza che fa passare il momento dell’ingresso in secondo piano fino a farlo dimenticare. Fattostà che una volta entrati nella città quest’ultima sembra completamente differente dal suo esterno; non pare di essere dentro ad una bolla però i suoi colori si percepiscono, nel cielo infatti è costantemente visibile un arcobaleno che sembra essere alimentato dal carburante delle centinaia di macchine imbottigliate nel traffico ed ognuna di esse emana un gas di scarico di un colore diverso, questo rende la città stravagante e speciale agli occhi dei nuovi visitatori. Amaranta a primo impatto appare come la città perfetta, circondata da parchi con alberi sempreverdi di forme bizzarre, fiori che non appassiscono mai, la benzina delle sue macchine che sembra addirittura non essere dannosa e in più grazie alla bolla il clima è mite durante ogni stagione, senza distinzione tra estate e inverno. Ma basta spendere poco meno di una settimana ad Amaranta per comprendere che quest’ultima è tutta una finzione. I suoi parchi verdi attenti all’ecologia con piante in fioritura perenne sono in realtà prati sintetici che ospitano alberi in metallo modellati per ottenere le forme desiderate, come se fossero delle sculture. Se si presta più attenzione alle persone nel traco anziché all’aspetto affascinante e incantatore di Amaranta, è possibile sentire i conducenti e i rispettivi passeggeri lamentarsi, imprecare e tossire a causa dell’esposizione prolungata con le emissioni delle loro macchine. Nonostante le difficoltà di Amaranta i suoi cittadini non la abbandonano perché quest’ultima è situata nel bel mezzo di un deserto e un trasferimento sarebbe impossibile da effettuare data la lunga strada da percorrere e il peso dei loro possedimenti da portare appresso, infatti solo i suoi visitatori riescono ad andarsene definitivamente perché non dispongono di un domicilio fisso e proprietà ingombranti da portare con sé.
Le città e l’ambiente: Narumitsu
Al centro di Narumitsu, megalopoli molto movimentata e chiassosa, daı mille rumorı, il silenzio è solo un'idea lontanissima e utopica, un desiderio irraggiungibile. Le vie di Narumitsu sono fitte di vita e di metallo: tram che stridono sui binari, clacson che si rincorrono come in un litigio perpetuo, e martelli pneumatici che scavano con esasperante audacia nella crosta della città come se volessero raggiungere il cuore della terra.
I cittadini qui hanno imparato a vivere bene anche dentro questo tumulto. Inavvertitamente il rumore diventa parte di loro stessi e della naturale quotidianità. Lo si assorbe inconsapevolmente e lo si integra alla vita. In un certo senso il rumore diventa sinonimo di silenzio. A Narumitsu il tempo non viene misurato in secondi, minuti e ore, ma in ritmi di rumori, nell'avvicendamento degli strepiti con la loro ordinaria ciclicità: la mattina nel ruggito sfiancante delle motociclette; fino al tardo pomeriggio nel fragore sinfonico dei cantieri, in un alternarsi di suoni lunghi e molto brevi, alti e stridenti e di colpo molto bassi e gravi; la sera nell'ululato dei treni merci che attraversano la periferia, scuotendola e strattonandola, come in una serie interminabile di brevi terremoti. E infine c'è la notte, quando il silenzio sembra sul punto di posarsi e abbracciare tutto e tutti, per essere poi costantemente spezzato dalle urla della vita notturna nei suoni acuti di qualche allarme o di frenate improvvise di macchine in corsa, ai semafori.
Si dice che gli abitanti di Narumitsu portino il suo rumore ovunque vadano. I viaggiatori che la abbandonano, cercando pace altrove, invece, si accorgono che nel profondo della loro mente resta un frastuono fantasma, un eco che pulsa come un cuore metallico. Eppure, c'è chi a Narumitsu trova bellezza. Alcuni poeti urbani scrivono versi sugli intrecci sonori della città, descrivendo il caos come una sinfonia sempre nuova, in cui suoi sono perennemente gli stessi, ma con alternanze diverse, cambiando anche di poco la loro collocazione.
In pochi, inabili a farne l'abitudine, vendono tappi per le orecchie ad altri inadatti come loro oppure a chi è in transito, guadagnando in tal modo fortune. Chi visita Narumitsu per la prima volta se ne va con la sensazione che non si possa mai raggiungere fino in fondo l'esperienza del silenzio, non dopo aver ascoltato il suo costante e brutale annientamento. Ma forse, pensano i cittadini, è proprio nel frastuono che ci si sente vivi, pervasi violentemente che dalla vitalità meccanica non conosce tregua.
Le città e l’ambiente: Bifae
Durante il mio viaggio incontrai popolazioni intere che mi misero in guardia sulla città di Bifae, descrivendola come un luogo chiuso in una bolla lorda e opprimente.
Come la città, anche i suoi cittadini erano etichettati come persone sgradevoli e prive di identità, monotone e ripetitive. Si vociferava che la vita a Bifae fosse mancante di contatti col mondo esterno, poiché concentrata tutta in sé stessa, e racchiusa in un involucro grigiastro e nebuloso, che a causa dell'eccessivo inquinamento dell'aria ti sopprimeva; proprio per questo si diceva che la salute degli abitanti fosse compromessa. Spinto dalla curiosità, decisi di incamminarmi verso quella città tanto vittima di pregiudizio.
Arrivato ai suoi confini, un ometto ricurvo dai capelli bianchi e con una barba folta e nodosa mi squadrò e tossicchio. Rimasi immobile per una manciata di secondi in attesa di domande riguardanti la mia provenienza, ma queste non furono pronunciate infatti l'anziano signore si limitò a fissarmi, e, con un cenno del capo, mi indicò la via sulla quale avrei dovuto proseguire. Cosi feci il mio ingresso a Bifae. La città mi apparve come una lunga serie di casette dalle pareti rocciose e dalle porte in legno di quercia, con finestrelle oscurate da tendine colorate e di diverse fantasie. Tra un'abitazione e l'altra comparivano piccoli scorci, e ogni tanto ci si imbatteva in qualche negozietto o bancarella. Le persone sembravano rilassate e felici, ne rimasi profondamente colpito, viste le voci che mi erano giunte.
Un bambinetto che camminava a fianco di un'alta signora, che presunsi fosse sua madre, sventolò la manina nella mia direzione e mi regalo un ampio sorriso che mi scaldò il cuore. Le altre persone intorno a me parlavano e ridevano. Tutti sembravano avere un animo puro e gentile. Un giovane ragazzo in sella ad una bici mi strecció accanto e senti una vecchietta lamentarsi. Poi alzai lo sguardo sopra la mia testa e rimasi ancora più confuso di prima: un cielo azzurro, con piccole nuvolette bianco sporco, era attraversato da stormi di uccelli che si muovevano creando forme particolari. Capii quindi che tutto ciò che avevo sentito al di fuori di Bifae era falso: gli estranei giudicavano e basta, senza avere le prove che quello che dicevano fosse vero, come per il caso dell'inquinamento dell'aria, che da occhi esterni appariva eccessivo, ma che in realtà era sopportabile La comunità di Bifae infatti se ne prendeva cura giornalmente, non per smentire i peltegolezzi, ma per nuscire a vivere in un luogo pulito e sano
Mi ci appoggiai su quel muro, fingendo di poter riprendere la conversazione.
"Oggi la Luna è bellissima"
E lo era effettivamente. La guardavo dal basso, con la punta degli occhi. Qualcosa di così lontano e romanticizzato, così criptico e sfaccettato; nonostante tutti la vedessero allo stesso modo. Io non vedevo che la ripetizione di macchie, fosse, spigoli; ognuno mi dipingeva uguale, nonostante il cambiare delle eclissi. Così lontana e così amata, come l'immaginazione di un futuro, del poter avere tempo.
Dalla finestra filtrava la sua luce, quella che un tempo mi dipingeva d'argento ora non mi dipingeva. Quello scintillio fantasma schizzava, fiero e leggiadro, e non si fermava per il tempo, non lo faceva respirare, insinuandosi come dubbio del passato.
Non ho mai compreso il tempo. L’ho vissuto con leggerezza, ne ho preso i piaceri, mai curandomi delle anime che passeggiavano per la mia città con bastoni per gambe. Guardavo l'orologio della vita con disprezzo e saccenza, non capendo fosse fabbrica prima delle mie azioni. Infatti nel mio quartiere industriale, si scorgevano solo fabbriche che vivevano in un'unità separata, autosufficiente e purtroppo inarrestabile. Pian piano venivano tutte costruite, lo facevano da sole; spesso ci ritornavo e ricordo che in primavere di inizio gioventù vedevo la mia ergersi fiera: il sole picchiava tutt'attorno a lei, illuminandola con dodici raggi distinti. Ognuna lavorava il materiale scelto, e la strada principale ne contava infinite, ognuna a lato di essa, con sopra un cielo sempre bianco.
Forse è stato il giorno in cui camminando per quel paesaggio familiare che cambiai. Tutto era uguale, ma il fumo che usciva da una delle fabbriche e che non avevo mai notato avvolgerle tutte, era scomparso. Tutto divenne grigio, e rimase solo il cerchio chiaro che la ricopriva e pareva trascinarla in alto, per strade migliori. Come se provasse invidia, la mia fabbrica cominciò a lavorare piú velocemente. Senza tregua, sfuggendo a tal punto da diminuire la sua durata.
Quella primavera, senza accorgermene, smisi di essere giovane.
Le ore non si fecero più vedere per me e il ghiaccio della luce bloccato dalla cortina di ansia non mi avrebbe mostrato lo scorrere lento. Solo il finale. A causa della bolla in cui il timore mi aveva intrappolato.
Tic Tac
Adesso di giorno noto la mia ombra, mentre Il sole non osserva mai la sua, evitandolo come peccato. Seguivo il tempo che, al contrario, non smise mai di specchiarsi nel passato, per sentirsi superiore alla realtà che lo definisce. Capace di vedere ciò già successo, conoscendo da sempre il banale presente. Come può dunque peccare tanto di superbia e ignoranza?
Tic Tac
Adesso di notte resto affacciato, mentre il cuore implora di buttarsi per me. In un mondo diverso, verso la libertà senz'aria sotto i piedi.
Cadendo avrebbe capito che la fiamma che inseguiva non era altro che l'accendino che portavo alla bocca, in un vizio che avevo deciso di ignorare per la dolcezza che mi portava. Mi illuminava gli occhi, rendendo ogni attimo trascorso a osservare l'involucro genuino recedere, mentre ne incendiava il contenuto, trasparente come aria pura. Mi dava pace e rallentava il passo svelto su quella strada principale, verso quella nebbia.
Ogni giorno trascorso camminando contro quei minuti, stringendo lancette come taglienti, con presa troppo stretta attorno al fulcro. Mi apre la mano continuamente, ma non importa, era la pena per i rimorsi che portavo al polso.
La fiamma dell’accendino tremola, proiettando ombre danzanti sul mio volto privo di colore, e in quel breve bagliore percepisco un’eco della mia voce spezzata, un sussurro che non avevo mai osato tradurre in parola. Rimango immobile, osservando il cielo con la sigaretta accesa tra le labbra, lasciando che il fumo riempa quel vuoto scavato tra costole e silenzi. Ogni boccata mi sembra una piccola concessione al tempo, un ammutinamento contro la sua avanzata lenta ma inesorabile. Eppure, anche nella ribellione, non ho mai trovato risposta. Solo un'altra domanda muta che restava appesa, come un filo sospeso tra la mia realtà e quel tabacco inafferrabile.
Da dove proviene il fumo della mia vita?
Un fruscio lontano, il richiamo della città sotto di me, risveglia un desiderio dimenticato, un fremito che poteva essere speranza o una beffa di quello stesso tempo da cui tanto cercavo di sfuggire. Abbasso lo sguardo dalla luna, che viveva ignorandomi, e capisco cosa avessi cercato per anni: l'essere, semplicemente il poter essere. Perché forse, in quel fragile equilibrio di secondi, l'unica verità possibile era il respiro di fumo trattenuto e il momento in cui finalmente avrei avuto il coraggio di lasciarlo andare.
“Sì, la luna è bellissima” dissi, vedendone una nuova luce.
E mentre il bruciare della sigaretta consumava l'ultimo brandello di tempo che avevo rubato, ora non più tanto importante sotto la mia voce quieta, compresi che non era l'attimo a condannarmi, ma la mia incapacità di abbandonarlo. Avrei lasciato che le ombre si allungassero ancora, che le lancette prendessero a correre. E forse, un giorno, avrei imparato a camminare al loro fianco senza paura di essere sorpassato.
ADOLESCENZA
L’adolescenza è quel periodo della vita che seppur di “passaggio”, per diventare adulti, è quello più duro della vita.
Durante l’adolescenza metti in dubbio tutto e tutti: te stesso, la tua famiglia, i tuoi amici, cosa vuoi fare da grande, chi vuoi essere da grande, se sei all’altezza del mondo in cui viviamo…
L’adolescenza ti porta a dubitare continuamente delle persone che hai attorno, il che in alcuni casi può essere positivo, perché magari si rivela un’intuizione vera, ma nei restanti casi invece ti porta a non vivere appieno il rapporto con quella persona.
A me per esempio, capita tutte le volte che litigo con una mia amica. Eppure litigare è una cosa del tutto sana in un’amicizia o in una relazione, ma nella mia testa, dopo aver litigato con la mia amica, ho paura che io non piacerò più a lei e lei non piacerà più a me, perché mentre litighiamo esce un lato “negativo” di noi che non vorrei rivedere.
L’adolescenza ti porta a dubitare anche di te stesso. Se sei all’altezza del mondo, degli altri, se stai facendo il massimo, se ti meriti quello che hai, e se tu abbia uno scopo per stare su questa terra.
Un’altra incognita è quella di chi vogliamo essere e cosa vogliamo fare in futuro.
Io per esempio ho le idee ben chiare: voglio diplomarmi, fare l’università, andare a vivere da sola e diventare giornalista sportiva.
Però spesso non è così facile e scontato per tutti, perché magari ci si lascia condizionare dalle opinioni altrui, dalle persone a noi vicine, che vogliono dirci chi essere e cosa fare, senza tener conto dei nostri gusti e delle nostre scelte.
Magari loro lo fanno per cercare di aiutarci, però nella maggior parte dei casi non si accorgono che fanno tutto il contrario.
Insomma, l’adolescenza è un periodo duro, stressante, fatto di dubbi e domande, di paure e insicurezze, ma sicuramente il periodo più pieno di emozioni e che ricorderemo per il resto della nostra vita.
Dove ti vedi tra dieci anni?
Tra dieci anni mi vedo come una donna di successo. Magari sarò una scrittrice, magari una cantante, o magari una doppiatrice.
Tra dieci anni supererò tutte le mie paure irrazionali da adolescente. Riuscirò ad ordinare da mangiare senza balbettare. Sarò più sicura di me stessa di quanto io non sia mai stata. Sarò in forma e praticherò tutti gli sport che ho sempre voluto fare ma che non ho mai fatto, e troverò sempre spazio nell'agenda per fare le mie cose preferite; perchè sarò finalmente in grado di organizzare le mie giornate.
Magari avrò un fidanzato; magari sarà affascinante e premuroso come nessun altro, mi tratterà bene e si ricorderà di tutte le mie cose preferite; magari avremo dei bambini che ci assomiglieranno a cui insegneremo tutto ciò che sappiamo.
Chissà se sarei una brava madre? Spero di essere brava anche solo la metà di quanto lo è la mia.
Tra dieci anni voglio aver preso un anno sabbatico ed aver viaggiato per tutto il mondo, con tutta calma, senza dover correre da città a città, avendo a malapena il tempo di visitarle come fanno la maggior parte dei turisti. Avrò amici in tutto il mondo, avendoli conosciuti in tutti i viaggi fatti.
Avrò sempre una storia assurda da raccontare ai miei figli quando cresceranno e mi chiederanno ‘Mamma, mamma, raccontaci una storia di quando eri giovane!’
Ed ogni notte prima di andare a dormire gliene racconterò una nuova perchè ne avrò più di una per ogni posto che avrò visitato, ne avrò così tante che le inizierò a dimenticare, e, quando sarò una vecchia signora, riderò ricordando quei tempi felici.
Tra dieci anni sarò felice, o, almeno, lo spero.
È sempre piovuto, e la mia vita sembra scolpita nell'ombra di una dimenticanza eterna. Uscivo e vedevo i portaombrelli pieni, sempre pieni. Vedevo chi correva a riprenderli dopo averli dimenticati in casa; chi se li faceva passare; chi ne condivideva uno.
Ma io non ne avevo mai visto uno. Non in mano mia. Non ne avevo mai riposto uno, non dove tutti hanno gli stessi ombrelli, nella stessa percentuale.
Ma la felicità è una percentuale?
Amare per te era una percentuale.
Con gli anni cominciai a cambiare, plasmandomi in base a ciò che credevi giusto. Per nascondere me, per nascondere te. Nascondere quell'orribile malattia che ti consumava. Misi al posto del tuo ombrello qualsiasi cosa trovassi.
E allora portai un bastone. Portai una corda. Un bicchiere. Delle forbici e un fiore. Infatti mi ricordavi un giardino, ma colpito da una pioggia costante. I tuoi fiori erano coltivati nell'ombra della tua inevitabile dipartita. Forse per questo eri coraggioso; nonostante, al mattino pioveva sempre. Io uscivo senza ombrello; le gocce scivolavano intorno a me, come se il cielo rispettasse il mio silenzio pensieroso.
"Ti avrei dovuto ringraziare.
Forse saresti stato con me più a lungo." pensavo spesso.
L'acqua cadeva a secchiate, offuscando qualsiasi luce potessi vedere. Ero convinta che la colpa fosse mia, che fosse il fiato, il mio respiro a velare la mia vista; ma il freddo del mattino, anche quello, poteva dipendere da me? Quelle luci, che non vedevo o non volevo vedere, brillavano per me, ma io le riflettevo; e, arrivata sull’uscio, diventai la mia guida.
E in un forte giorno di pioggia, ricordai. Quanto desideravo che lo vedessi, come mi fossi ricordata l'ombrello.
Saresti dovuto essere tu la mia guida. Avresti potuto portarmi un ombrello.
E così, camminavo su quel prato arido, che conoscevo da sempre. Era il giardino dove anche lei soleva riposare, ma in modo diverso da te, osservando le stelle che a te sfuggivano. Ogni passo misurava il terreno umido e angoscioso sotto di me, ad ogni movimento, il ricordo di tratti del suo volto tornava alla memoria.
La camminata prendeva più tempo del sentiero che stavo in realtà percorrendo, perché l'attesa potesse rendere ancora più dolce la speranza di rivederla.
Ahimè, come al solito, dimenticavo che non avrei mai più avuto quella possibilità.
Così, invece di seguire il consueto sentiero che, sotto alberi un tempo molto colorati e oggi grigi, mi avrebbe portato da lei, mi lasciai guidare dal vento che mi spingeva verso di te. Tu, che mi uccidevi con la voce sempre troppo vicina, ma mai davvero sentita. Vedendoti ora così vicino, non vorrei che la morte mi portasse lontano.
Ma il morto è un altro.
Eri sorridente nella foto ora sulla tua cella, simbolo della prigione che hai costruito nella tua mente; che spero rimanga permanente, a farti sentire il buio. Ci sono troppe sedie attorno a te, una di troppo. Una lasciata per me, dopo un invito che ho scelto di dimenticare.
Da quel giorno in cui vidi il tuo sorriso, cominciai ad averne paura.
Siedi solo, circondato da tutti nessuno, questi sconosciuti rabbuiano la tua giornata. Fingono di capire, ascoltano voci e si vestono di protesta. E tu, con quel sorriso forzato, completi la cornice di questa messa in scena.
Non avrei voluto reagire, ma vedo coloro che forse hai amato piangere le tue battaglie perse. E per un attimo, il pensiero di unirmi a loro mi sfiora.
Ma attorno vidi genitori obbligare i figli a piangere, insegnare il lutto come fosse un dovere. Vidi anziane aggrapparsi a un dolore finto, a un tributo che nessuno sentiva davvero. E infine capii: nessuno sarebbe venuto a vederti, se non fosse stato per questa giornata grigia, che ha cancellato i felici piani di molti.
In una giornata grigia come questa, tu mi dicesti che chi respinge gli altri soffre più di chi annuncia il proprio dolore al mondo. Eppure, nemmeno in quel momento, il tuo dolore mi interessava. Forse non era mai importato a nessuno, nemmeno a coloro che, standoti vicino, si nutrivano sempre più da te. Coloro che completavano il tuo lavoro, che ascoltavano il tuo blaterare solo per aiutarti.
Ora alla fine, nei soliti campi dove sono cresciuta, dove siamo cresciuti, ti vedo steso.
Però, come sempre, guardavi le nuvole che ti coprivano gli occhi; facendo piangere anche il cielo.
O padre, non hai notato come tutti ti abbandonano? Guarda dove hai paura di osservare. Guarda dove hai sempre avuto paura di guardare. Anche le nuvole si dissolvono, e il male ti abbandona per ultimo.
Ora il cielo si schiarisce, come se aspettasse il tuo pentimento. E anche il mio perdono. Quel perdono, troppo puro per te, ora trova i tuoi occhi finalmente sereni. E serena, quel giorno, mi lasciasti… a vedere il sole.
Nelle orecchie sentivo ancora echeggiare l'orribile grido della belva, e la pelle d'oca e la paura affioravano ad ogni passo che facevamo verso il castello. Stavamo camminando a passo spedito nel cuore di un'immensa pineta di montagna, l'odore degli alberi diffuso nell'aria che si faceva man mano più fredda e pungente, mentre i nostri cuori si affaticavano dall'attesa. Non vedevo più l'inizio del sentiero, che ormai era perso sotto la coltre di aghi di pino.
Zio Frederick avanzava a lunghe falcate, brandendo il fucile. Zia Louisa gli camminava a fianco, lo sguardo valoroso. Marguerite li precedeva nonostante la paura e zia Berenice borbottava tra sé e sé parole che non riuscivo a cogliere ma che potevo facilmente immaginare: prevedeva disastri.
Io li seguivo muto, accanto ai miei cugini Charlotte e Dante. A fatica mi stavano accanto, perché un mio passo equivaleva a due dei loro.
Nonostante fuori stessi mantenendo la calma, dentro la paura della belva cresceva e mi struggeva lentamente, avvinghiando il mio stomaco in una fredda morsa. Sentivo che c'era qualcosa che non andava, ma zia Louisa diceva che non ci si poteva affidare alle proprie sensazioni.
Quando il castello apparve davanti a noi, sentii ancor più forte l'istinto di scappare.
Zio Frederick e zia Louisa entrarono senza esitare.
Prima di seguirli, squadrai il castello, il cui aspetto parve rispondere al mio sguardo con uno altrettanto minaccioso, il tetto spiovente, i muri di pietra divorati dal tempo, le finestre squadrate che nascondevano le sale.
Dentro, trovammo il marito di zia Marguerite, Leon, ad aspettarci. Riferì che nei sotterranei non vi era traccia della belva, quindi di dover proseguire per i saloni del castello, bui come una notte priva di stelle. Indicò il corridoio stretto alla sua destra. “Poco fa, da laggiù provenivano dei rumori” spiegò.
Imboccammo il corridoio finché non andammo a sbattere contro una colonna. Era la quinta di sei che dividevano il corridoio da un salone infinito, di un buio spettrale.
Zio Frederick alzò il fucile e disse: “Vado io. Voi, continuate per di là”. Scomparve nel vuoto non appena ebbe superato la schiera di colonne.
Il corridoio ci condusse a un varco, oltre il quale una scaletta a chiocciola, davanti al fondo di una stanzetta, portava a una specie di mansarda.
“È lassù”, disse Dante, “lo sento”. Mentre lo diceva, con l'indice puntava l'alto.
Non appena ebbe pronunciato tali parole, mi sentii assalire da un terrore agghiacciante e mi sentii mancare il fiato. Allora, senza neppure rendermene conto, esclamai: “Là no! Non andiamo lassù, sento che c'è qualcosa di sbagliato!”
“Ma sta là, non possiamo farla scappare” ribatté Dante, altezzoso.
“E cosa senti?” domandò zia Louisa, con tono superficiale.
“Non lo so, ma vi prego di ascoltarmi”.
“Se non la sai definire, significa che non è niente”.
“Vado!” esclamò Dante, precipitandosi per le scale, seguito a ruota da Charlotte.
Pensai fossero degli sciocchi, prima di correre loro dietro.
La mansarda era buia e non si riusciva a distinguerne la fine. Ma prima che potessi finire di salire le scale, sentii la peggiore delle sensazioni affondare i suoi artigli nella carne dei miei fianchi, cominciando a tirarmi verso il basso. Distesi un braccio per ricevere il supporto del corrimano, ma la belva era mostruosamente più forte di me ed ebbe la meglio. La mia vista si fece offuscata e la mia percezione lenta mentre le due massicce braccia della bestia, spuntate dal pavimento come un fantasma, mi tiravano dabbasso.
Caddi per tre metri senza che nessuno potesse aiutarmi.
Al mio risveglio, mi trovavo sul mio letto dell'albergo. I primi raggi del tenero sole entravano nella camera e irradiavano una tenue luce. Nessuna parte del corpo mi doleva, se non i fianchi. Buttai via la coperta. Scoprii che la mia carne era intatta. Nella camera vi erano ancora le borse mie e dei miei cugini, con cui condividevo la stanza. Allora capii che era stato tutto un sogno.
Ma di quanto tempo aveva vagato la mia mente?
Erano le sei di mattina del sedici novembre.
La missione al castello cominciava quello stesso giorno. Dovevo impedirlo.
Il sole filtrava tenue tra le foglie, pitturando il prato di lingue dorate, tremule; le ombre del campanile e delle case si allungavano sinuose sulle stradine serpeggianti su per il colle; le chiome degli alberi, assopite, ondeggiavano e si increspano come un mare sotto al dolce vento che soffiava.
Sebbene a momenti il “Buon pomeriggio” sarebbe mutato in un “Buonasera”, il rosso del tramonto sfiorava appena il cielo, ancora di un azzurrino pastello intervallato da nuvole. Dunque la luce era ancora tanta, e le piante ne gioivano liete, a tal punto che si poteva dire di riuscire a sentirne le sfavillanti vocine accrescere dal silenzio fattosi attorno.
Si udiva un rullante correre di biciclette sulle strade, lo sferzare delle ruote tanto simile al frinire dei grilli appostati tra le fronde degli alberi; un lontano chiacchiericcio, un bisbiglio, proveniva dalla piazza, mentre un crescente rumore di stoviglie che si urtano e un insieme di odori di pietanze si perdevano nell’aria…
Un gatto miagolava da sopra un muretto, si leccava dietro le orecchie, perciò quando la gente passava per di là, vedendolo levava lo sguardo al cielo, scrutandolo accigliata e diffidente.
Un carretto cigolava giù per la discesa, portato da mani affaticate. Sopra ad esso sussurravano diversi piccoli fuochi, dall’odore polveroso, impazienti, la sera, di accendere nel cielo un incendio di mille colori e figure.
Un rombo dal campanile fece alzare la testa alla gente che allegramente discorreva e si rincorreva in piazza. Era ormai l’ora di cenare, perciò, chi svelto e chi a passo pacato, piano tornò a casa, lasciando nella piazza una scia di risate sospese nella tiepida brezza della sera.
Il sole adesso non era altro se non una fiamma che lenta va a morire, il cielo una tela di vortici rossi, finché anche questo andò a sfumarsi in un blu sempre più profondo. Comparve la luna, luminosa come un pallido specchio, e nacquero così anche le candide stelle.
“Una tazza di tè, signori?”
Il maggiordomo versò del tè alle erbe fumante da una teiera di ceramica; dopodiché girò sui tacchi e lasciò il salotto di casa ai padroni e agli ospiti tanto attesi, rispettivamente seduti sui divanetti intorno al tavolo da caffè, su cui poggiavano le quattro tazze e un vassoio di biscotti.
All'estremità di un primo sofà sedevano la signora e il signor Châtaigne. La prima attendeva con pazienza apparente che la discussione venisse aperta: i suoi occhi andavano dal marito, agli ospiti, alla porta, con fare ossessivo.
Di fronte a lei, la signorina Marshall stringeva tra le mani una valigia marrone, tanto gonfia da fare pensare che potesse esplodere da un momento all'altro. Guardava i signori Châtaigne con un timido sorrisetto imbarazzato, in attesa del momento più opportuno per attaccare con il suo discorso.
Accanto a lei, suo fratello stava resettando il suo orologio da polso, disinteressato alla situazione.
Quando Henrique Châtaigne spiccicò il palmo da sotto il mento, Elka Marshall fece spazio sul tavolino, vi poggiò la valigia e la aprì, rivelando una montagna di scartoffie e cartoline, taccuini e una lettera rossa.
Prima di parlare, sollevò una foto e si soffermò a guardarla per un paio di secondi, con sguardo mesto. Infine trovò le parole e disse: “Io e mio fratello vi siamo grati per tutto l'aiuto che ci avete dato in seguito alle recenti scomparse dei nostri familiari e alle ricerche che sono susseguite fino a qualche settimana fa. Noi due, però, abbiamo trovato una traccia: porta all'aeroplano del nostro tutore. Siamo convinti che trovando lui, troveremo le altre persone scomparse, quali i nostri genitori e gli altri studiosi che lavoravano con loro”.
La reazione dei padroni di casa non fu come se l'era immaginata nella sua testa per giorni: non vi furono lacrime o sguardi affranti, bensì la più pura e irritante semplicità e naturalezza.
“Bene”, disse il signor Châtaigne afferrando un biscotto dal tavolino, “e dove vi porta questa traccia?”
“In Norvegia” rispose Elke.
“E come mai così lontano?”
“È quello che ci stiamo chiedendo pure noi. Ma è là che conducono gli appunti del nostro tutore”.
“Perfetto, quando partite? E quanto vi serve per la ricerca?” domandò Harriet Châtaigne, prendendo carta e penna e mettendosi a sparare delle alte cifre, che i due fratelli Marshall potevano solo vedere nei sogni.
“In realtà, questo non era compreso nel nostro piano: abbiamo un'amica che abita a Öslo e che provvederà a darci alloggio. Voi, per noi, avete già fatto tanto”.
“Be', allora non ci resta che sperare che troviate una prossima pista”.
Quando uscirono dal portone di Villa Châtaigne per l'ultima volta, Elke e Joële Marshall erano molto fiduciosi della traccia che avrebbero seguito di lì a poco, nonostante un brivido di impaziente attesa corresse lungo le loro schiene. Si erano fatti una vaga idea su ciò che il futuro teneva in serbo per loro, ma niente si avvicinava minimamente a quel che effettivamente avrebbero incontrato: tra i freddi, immensi ghiacciai della Norvegia, sferzato da un gelido vento, l’Havets brus li attendeva, gonfiava le vele e si preparava a salpare.
Il Ruggito dei Mari avrebbe cavalcato le onde per un'ultima volta.
Un respiro e mi trovo sul molo, un altro e vago per la pineta.
I ricordi scivolano, sinuosi, davanti ai miei occhi in nemmeno il tempo di un battito di ciglia, invadendomi di una certa, dolce sensazione, al tempo stesso malinconica, che mi preme sul cuore un irreprimibile desiderio di tornare in quel luogo, speciale al mio cuore.
Se avessi saputo prima che mi sarebbe mancato così tanto, sono sicura che non avrei aspettato un secondo di più per passarvi le giornate: mi sarei seduta sul masso del molo più lontano dalla riva e non avrei fatto niente se non guardare l’immenso mare, cercare di vedere le isole che vi apparivano a largo solo nei giorni più limpidi, quando non erano avvolte dalla nebbia; e mi sarei riposata; avrei sentito sulla pelle gli ardenti raggi del sole e gli schizzi delle onde che battevano ai lati del molo, ne avrei udito il moto mischiato alle voci vivaci dei bagnanti mentre avrei guardato il volo dei gabbiani fino a vederli appollaiarsi sulla montuosa superficie dell'acqua.
E quando il sole si sarebbe fatto più caldo, mi sarei riparata all’ombra della pineta, nel mio cuore ricca di storie fantastiche; avrei bighellonato tra gli alti pini e avrei respirato l’odore del legno e delle foglie e della terra.
Insomma, avrei reso quel posto tanto speciale.
Ricordo che quando mi sedevo sul molo e guardavo l'infinito mare, mi sentivo tanto leggera, come se mi fossi trovata sul confine del mondo, interminabile e di un blu intenso.
Ricordo il tramonto che vi vidi: aveva tinto tutto il cielo e l'acqua di pennellate rosse e arancioni e reso le nuvole rosee. Restai fino a vedere il sole, diventato ormai una piccola sfera biancastra, scomparire dietro l'orizzonte.
Ho lasciato il cuore in quella spiaggia, e ancora lo si può sentire battere tra lo scrosciare e borbottare dell'acqua, senza mai venirne di meno.
Corse fuori dal riparo della tettoia, sotto all'acqua che veniva giù a secchiate, rendendo la vista offuscata e confusa.
Aprì le braccia e buttò all'indietro la testa, mentre i suoi vestiti e capelli erano ormai zuppi d'acqua.
“Vieni anche te!” mi gridò in una risata.
Io esitai. Mi strinsi nel cappotto, mentre guardavo la nuvoletta del mio respiro disperdersi nell'aria.
“Avanti! Tanto non ti salvi nemmeno con l'ombrello!” ripeté lei, “Non hai niente da perdere!”
Allora sorrisi vittoriosamente, poiché il mio ombrello era abbastanza grande da coprire anche la mia cartella.
Lei cominciò a girare su se stessa. Aveva un che di comico che mi strappò una goffa risata.
Avanzai sotto la pioggia, senza ombrello: lo avevo lasciato sotto alla tettoia assieme allo zaino e alla cartellina.
“Eccoti qua!” Kaylee mi sorrise, io ricambiai con una scrollata di spalle.
“Mi sarei comunque fatto la doccia, oggi” mi giustificai.
“Ricordati bene questo momento, mi raccomando”, disse, “perché questo, mio caro amicaccio, è un nuovo inizio per entrambi. Da grande, quando i tuoi figli ti chiederanno quando fu il giorno che entrasti all'Accademia delle belle arti, ti balenerà in testa il ricordo di noi che ridiamo sotto la pioggia e ci alleggeriamo della faticosa, lunga strada che ci ha condotti fin qua, che ci ha resi capaci di trasformare un sogno in realtà. Intesi?”
“Intesi” ripetei prontamente.
“Dicci di più, papà, di come sei diventato un eccellente pittore!, ti chiederanno. E allora tu dirai, con voce saccente: Ma certo, ragazzi. Tutto questo è merito della zia Kaylee!”
“È vero”.
“Macché, lo sai che scherzo”.
“No, dico sul serio. Se tu non mi avessi fatto credere che ce l'avrei fatta, ora mi troverei a fare domanda a chissà quale altro istituto, invece di realizzare il mio sogno. Grazie, Kay”.
Corsi sotto alla tettoia a riprendere i miei oggetti. Lei mi seguì.
Ridemmo per tutto il tragitto fino a casa, perché non aveva senso camminare sotto all'ombrello se eravamo già mezzi d'acqua.
Arrivati davanti casa sua, la ringraziai.
“Kaylee, davvero, è tutto grazie a te”.
“Il merito è tuo: io ti ho solo dato una spintarella” disse e si affrettò a entrare in casa. Prima di chiudere la porta mi urlò una delle sue battute d'uscita che soleva dire: “Pensa se quest'acqua ci ha fatti prendere un raffreddore! Sarebbe terribile ammalarsi d'estate!”
Proseguii i miei studi all'Accademia delle belle arti e a ventisette anni cominciai la mia carriera di pittore, che porto avanti da quasi vent'anni.
Eppure, non ho mai raccontato ai miei figli né a mia moglie di quella sera d'estate, di tanto tempo fa, del perché sono diventato quel che sono.
E se ci penso mi viene da piangere.
Non è certo stato per egoismo: sono state le partite della vita ad allontanare me e Kaylee l'uno dall'altra. Litigi inutili, sogni non condivisi. Era la mia migliore amica, ma non ricordo di averle più parlato dopo due anni da che entrai all'Accademia. Perché non l'ho fatto. È incredibile come tendiamo a ricordare certe persone solo per gli errori che hanno fatto e allontanarci per stupide litigate, e non per tutto il bene che ci siamo voluti e per le volte in cui abbiamo riso fino a esaurire l'aria nei polmoni. Non credevo che mi sarei mai potuto scordare di lei. Forse, se io e mia moglie non ci fossimo trasferiti a Parigi qualche cosa sarebbe stata diversa, forse ci sarebbe stata la possibilità di tornare ad essere gli amici di una volta. Ma, fino ad allora, ne sarebbe valsa la pena incontrarci per le strade del nostro paese e vederci l’un l'altra come ormai perfetti sconosciuti?
Mi torna tutto in mente mentre passo in rassegna alcuni dei miei vecchi vestiti: il cappotto che indossavo quella sera mi lascia un vivido ricordo davanti agli occhi.
Dopo una lunga pausa, prendo il telefono e scrollo la rubrica.
Kaylee Joanne Moris: è ancora lì, a occupare il suo singolo posticino alla K, tra il numero di mia mamma e quello dell' amministratore del condominio.
Indugio sul cliccare o meno il pulsante “CHIAMA”.
Mi porto il telefono all'orecchio. Mentre digita il numero, una parte di me spera che Kaylee non sia più raggiungibile a quel numero.
Ma quando una voce mi risponde dall'altra parte del telefono, mi rassereno e sopprimo quel pensiero.
In un attimo, sembra che il tempo non sia mai passato, e che la spensieratezza della gioventù sia ancora viva dentro di me.
Le vere amicizie sono quelle su cui niente ha potere. Basta poco per riaccenderle.
E niente può porvi fine, stavolta per sempre.
Ricordo che quel giorno la luce entrava a fiordi dalle finestre socchiuse e che in classe si ribolliva nonostante le ventole girassero in un brusio sommesso.
Noi trattenevamo il respiro, troppo spaventati per dire qualsiasi cosa. La professoressa stava riprendendo Ed Flint, che stava in piedi di fronte a lei, la testa china a terra. Non lo avevo mai visto così. I suoi occhi erano tristi e imbarazzati, qualcosa che credevo impossibile per lui.
Era la prima volta che veniva ripreso.
Sentii i miei compagni mormorare qualcosa come “Gli sta bene, godo un monte”, ma io non lo pensavo. Non so perché. Non sopportavo Ed Flint, lo avevo sempre visto come un ragazzo sicuro di sé, con la risposta pronta, a cui non importa degli altri, né tantomeno di qualcuno come me. Non credevo nemmeno che fosse bello. Sfoggiava sempre un sorriso compiaciuto e beffardo. O almeno secondo me.
Ma ora che lo guardavo, mi faceva tristezza, pena. Come se non se lo meritasse. Dopotutto, non era stata colpa sua se il vaso della professoressa era caduto in mille pezzi. Lo avevano spinto. Ma la prof non gli voleva credere, e quel qualcuno – che in realtà non avevo visto bene in faccia, doveva essere di un'altra classe – non si voleva prendere la responsabilità delle proprie azioni.
Quando la campana suonò le tredici, la classe si svuotò. Io mi stavo dirigendo verso l'uscita quando mi chiamò.
“Pandora”.
Mi voltai.
Edmund era in piedi davanti al suo banco e giocherellava con una spallina della cartella.
Mi fermai sulla porta e attesi che dicesse qualcosa.
Lui alzò la testa e mi guardò con due occhi tristi.
“Tu mi credi?”
Era una domanda del tutto inaspettata, poiché non capivo perché me lo stesse chiedendo. Glielo dissi.
“Tra tutti, perché lo chiedi a me?”
“Perché te non segui il gregge. Tu te ne stai per le tue e osservi tutto e tutti… Per caso, gli altri hanno detto niente?”
“Tipo?” Non me la sentivo di fare la spia.
“Si sono, ecco… divertiti a vedermi rimproverare? Non dirò niente a loro, voglio solo capire. Anche se credo di sapere già la risposta. Perché io non gli piaccio?”
La credetti una domanda a tranello. Inoltre, non ero la persona giusta a cui fare una domanda del genere, poiché non ero tanto popolare in classe, ero nella “classe media”, non spiccavo per popolarità, ma nemmeno ero invisibile agli occhi di tutti.
“Non lo so” borbottai.
“Per favore”.
Lo guardai negli occhi e un misto di pena e rimorso mi invase.
“Be'... forse perché te la cavi sempre in tutto”.
“Ma io a scuola sono discreto. Non sono il migliore, ma nemmeno il peggiore” obiettò lui.
“Non a scuola. In generale. Riesci sempre a uscire incolume da qualsiasi situazione. E poi sei tanto sicuro di te. E talvolta diretto, tanto diretto; e schietto. E sempre entusiasta e chiacchierone”.
“Davvero? Io non lo faccio apposta”.
Si guardò attorno, mesto.
“È per questo che non abbiamo mai parlato, io e te?”
Allora non seppi che dire. Non parlavamo mai perché eravamo l'uno l'opposto dell'altra: mentre lui era spensierato e aperto, io rimuginavo ed ero riservata. Non volevo essere inglobata nella sua persona estroversa ed essere vista a malapena, ma essere considerata come persona anch'io, non fargli da zerbino per farlo apparire ancor più “figo” o “potente”.
“Non abbiamo mai parlato per vari motivi, ma non per questo” mentii.
Rimase a pensare per un po'.
“Cosa posso fare per migliorare? Per piacere agli altri?” Me lo chiese con tutt'altro tono, più convinto e fiducioso. “Mi puoi aiutare?”
“Perché lo chiedi a me?” chiesi ancora.
“Perché ora non mi fai sentire giudicato, ma ascoltato. C'è tanta differenza tra le due cose”.
“Be'...” Mi persi in una riflessione forse fin troppo lunga, che tenne il mio interlocutore sulle spine per tutto il tempo, su delle spine aguzze e dolorose, e di questo mi dispiacqui.
“Va bene” accettai infine.
Fu come se avessi appena sollevato Edmund da un grosso peso schiacciante.
“Bene, grazie Pandora. E scusa se non ti ho mai rivolto parola se non nel bisogno”.
“Tranquillo, sarà qualcosa su cui lavoreremo entrambi” gli risposi.
E fu così che Edmund Flint divenne il mio migliore amico.
Sedeva in veranda, le braccia conserte sul petto che si gonfiava e si abbassava ad ogni respiro grave che l'uomo traeva. Scrutava il cielo con ciglio sospetto e aspettava, e aspettava.
Il cane abbaiò due volte, dentro casa.
Lui allungò un braccio con fare distratto e aprì al Golden Retriever la porta che dava sulla veranda. Poi si fece nuovamente serio.
Il campo si srotolava sotto al cielo scuro come una vasta distesa ombrosa, dalla quale si levavano le spighe di grano; il vento le faceva vibrare dolcemente, facendole danzare al chiar di Luna.
Allorché un lampo biancheggiante irruppe nella calma del cielo, l'uomo alzò la testa, dunque prese a squadrare le stelle con i suoi occhi arzilli. Ma ormai tutto era tornato immobile e il lampo di luce non si presentò una seconda volta. Così, corrucciato, si fece nuovamente vigile. Se loro fossero arrivati quella notte, come le sue ricerche sostenevano, lui li avrebbe visti e avrebbe finalmente provato la loro esistenza.
Come il tempo scorreva ozioso, pure il più tenue, soffocato canto dei grilli si spense col sopraggiungere della mezzanotte.
L'uomo avrebbe dovuto abbassare lo sguardo dal bagliore delle stelle al campo per rimanere sorpreso: tre figure scarlatte stavano emergendo dalle spighe, e avanzarono invisibili, le pistole basse, i colpi caricati, verso la porta sul retro. Si accertarono che non ci fosse nessuno, dunque fecero scattare la serratura ed entrarono in casa. Un alito di calda aria viziata li travolse, filtrò attraverso i pori delle maschere e li fece ondeggiare.
Presero a setacciare i cassetti della cucina, l'armadio della camera da letto, rovistarono nella spazzatura e tra i cuscini del divano.
Finché non trovarono qualcosa di insolito, che i loro occhi non avevano mai visto.
Si protesero attorno a quella strana tavoletta avvolta in una carta marrone con su scritto “Hershey’s milk chocolate” in grigio. La scartarono, incuriositi, e si ritrovarono a contemplare una tavoletta marroncina dall'odore angelico.
Uno dei tre viaggiatori la prese in mano con troppa forza, spezzandola, allorché tutti sussultarono.
Il primo decise di darle un morso. Si tolse dunque il casco e l'assaggiò. Un dolce tepore si diffuse nella sua bocca, incantandolo. Così vollero provarla anche gli altri e convennero di portarla via con loro.
Così ripresero a setacciare l'abitazione. Quando trovarono ciò per cui avevano intrapreso il fatidico viaggio, rimasero di stucco, sbigottiti. Tutta l'economia del pianeta Terra girava attorno a un pezzo di carta grigiastra, con su stampato un numero e un uomo dallo sguardo serioso? Gente pativa la fame a causa di ciò? rubava per entrarne in possesso? I viaggiatori si scambiarono degli sguardi confusi, ma poiché la loro missione era giunta al termine, uscirono di casa, la banconota in tasca, proprio come la Corte Spaziale della Nube di Oort aveva loro incaricato di fare.
Di ritorno all'astronave, un ululato li fece voltare. Una bestiola pelosa, di colore nocciola, li stava guardando con due occhi scuri. Non avevano mai visto creature del genere. Uno di loro gli diede un buffetto sulla testa, in mezzo alle orecchie a punta. Subito l'essere si lasciò cadere sul prato, la pancia all'insù, domandante carezze.
Quando i tre viaggiatori si volsero per riprendere il cammino, il cane li seguì e loro non glielo impedirono.
Fatto ritorno sull’asteroide 0L3 della Nube di Oort, la Corte Spaziale si trovò a fare i conti con un foglio grigiolino, una nuova fonte di energia e un essere peloso e giocherellone; l'uomo, derubato di 50 dollari, dell'ultima barretta di cioccolato rimasta e del suo cane, attese tutta la notte la venuta dei viaggiatori dello spazio, invano. Passerà le prossime settimane nello studio con la testa china su calcoli e dati, in attesa del loro ritorno e chiedendosi che fine avrà fatto il fedele Bobby.
Di notte, l'istituto in fondo a via dei Cipressi celava spettrali misteri, o almeno era l'aria che le sue alte mura grigie davano. Nelle ampie classi e nei lunghi corridoi regnava un silenzio opprimente e surreale. Non si udiva neppure il rumore del vento attraverso i cespugli del cortile.
Eppure, quella notte esplose un rumore sordo, e sotto alla finestra dell'aula 17 si sparsero dei vetri. Quattro figure umane passarono per volta attraverso il varco nella finestra e calpestarono le schegge a terra.
Una di loro, Hannah, accese una torcia e la stanza s'illuminò tutta d'un pezzo.
Noah fece cenno ai compagni di seguirlo, dunque uscirono nel corridoio. Dovettero ammettere che l'ala nord, a quell'ora della notte, aveva un aspetto tetro e angosciante, eppure i ragazzi procedettero coraggiosamente verso la biblioteca, senza dare peso alle strane sensazioni che emergevano ad ogni passo.
Entrati nella stanza, si chiusero le porte alle spalle. Marianne scostò le cortine di una finestra e osservò i dormitori, avvolti nel silenzio della notte.
“Quale è, ragazzi?” chiese Hannah studiando il pavimento a quadretti.
“La quinta dallo scaffale C-F” rispose Noah.
La ragazza dunque contò le mattonelle a terra e all'ultima si inginocchiò. “Marianne, prendi la mia torcia e fammi luce, grazie. Tobey, tu vieni a darmi mano a sollevarla…”
I due ragazzi presero la mattonella che traballava e la alzarono, scoprendo una buchetta in fondo alla quale si trovava un piccolo scrigno. Noah lo prese e lo contemplò. Aveva le bordature, erano polverose ma, quando vi passò un dito sopra, rivelarono un colore quasi dorato, lucente.
Prese dalla tasca la chiave che avevano trovato i giorni precedenti e la infilò nella toppa, la girò finché non vi fu un rumore di ingranaggi. Appena sollevò il coperchio, i compagni si fecero vicini.
Conteneva uno specchio, uno di quelli col manico argenteo e il piatto rotondo, e un frammento di una lettera. Quest' ultimo fu preso da Tobey, mentre lo specchio lo pescò Marianne.
“Che c'è scritto?” chiese Hannah.
“Sullo specchio non c'è niente” disse Marianne, “ma è molto bello, ci sono delle incisioni particolari…”
“Intendevo sul foglio. Cosa dice?”
“Non lo so, è latino” borbottò Tobey. “Datemi un po' di tempo per riflettere…”
Marianne prese a camminare in su e in giù per la stanza, specchiandosi nello specchio e chiedendosi perché fosse custodito nello scrigno di Margot Feuille, la fondatrice dell'istituto. Lo specchio le restituì il suo riflesso, con dietro il quadro della fondatrice sulla parete. Quando incrociò i suoi occhi, a Marianne parve che si fossero mossi.
All'improvviso, il riflesso della donna del quadro scomparve. La ragazza urlò e si voltò. Il quadro, ora, giaceva vuoto sulla parete.
“Ragazzi…!”
Qualcosa picchiò alla porta della biblioteca, violentemente. I ragazzi sobbalzarono.
“È lei” piagnucolò Marianne. “Lo sapevo che non dovevamo cercare lo scrigno, lo sapevo!”
Gli altri scattarono in piedi e spostarono due banchi davanti alla porta, bloccandola. Ma i colpi non cessavano, così si fecero piccoli in un angolo.
“La finestra!” sussurrò Hannah, nonostante la paura le bloccasse la voce.
Si precipitarono ad aprirla, ma la serratura era vecchia e difettosa. Alla fine cedette e i ragazzi uscirono nel cortile. Si nascosero tra i cespugli, sotto ordine di Marianne, che aveva il terrore negli occhi.
Attesero così per pochi istanti, prima di vedere avanzare una figura nel buio del cortile. Era Margot Feuille, indossava i vestiti e aveva lo sguardo con cui era stata impressa nel dipinto, solo che i suoi occhi erano vuoti pozzi rossi e le sue labbra erano tirate in un ghigno. Ad ogni passo un rumore sordo di stivali si perdeva nell'aria.
“Tobey, il foglio! Che c'è scritto?” sussurrò Noah.
“Fa’ presto!”
“Non sono sicuro… dice qualcosa su un ‘lago di riflessi’... Lo specchio!”
Hannah strappò lo specchio dalle mani di Marianne e lo lanciò fuori dal cespuglio, lontano da loro.
Il fantasma della fondatrice dell'istituto girò la testa, producendo un rumore agghiacciante, e in soli due passi fu sopra l'oggetto. Quando lo raccolse, si volse verso il nascondiglio dei ragazzi e a loro parve che sorridesse. Poi, come era comparsa, svanì nell'aria, con lo specchio. Qualcosa nel vento cambiò, preannunciava disordini, ma i ragazzi erano pietrificati per rendersene conto.
“Torniamo ai dormitori…”, decisero, ancora scombussolati e spaventati. Nei giorni a venire avrebbero rimpianto la curiosità verso il tesoro della Feuille, nata da una voce che girava nell'istituto. E avrebbero dovuto fare i conti con ciò che avevano liberato…
In fondo alla via in cui vivevo c’era una casa. Più che altro, era una villetta, che un tempo doveva essere stata assai sontuosa. I suoi muri si erano sbiaditi col passare del tempo, e la grondaia era penzolante, mentre i vetri, polverosi, impedivano di spiarne gli interni; i giardini ricoperti di una coltre di foglie. Era disabitata da decenni ormai. Ma ogni notte si accendeva una luce, al piano di sopra, tremula. Pulsava, si accendeva e spegneva, in modo meccanico. Io la riuscivo a vedere dalla finestra di camera mia, sentendo ogni volta un brivido corrermi lungo la schiena. Poiché neppure la corrente arrivava a quell’abitazione. Per giustificare l'inspiegabile fatto, tra i giovani girava la voce che i fantasmi dei vecchi proprietari, la famiglia Pedrini, non avessero mai lasciato la casa e che, ogni notte, attrassero nuove vittime attraverso il pulsare della luce, per vendicarsi di quanto gli era accaduto, nonostante nessuno lo avesse mai scoperto. Si credeva questo, ed io ci ero cascata capo e collo. Per questo non osavo mai avvicinarmi. Persino parlarne mi metteva i brividi.
L’estate dei miei undici anni, mia cugina la trascorse a casa mia. I suoi stavano divorziando, e i miei genitori avevano avuto la brillante idea di ospitarla da noi. Dico così, non per crudeltà, ma perché lei mi incuteva paura dalla notte dei tempi. Ero il suo zimbello e approfittava della mia incredulità e disponibilità per arrivare a ciò che voleva, mettendo sempre me nei pasticci.
Tuttavia, per quella volta decisi di mettere da parte il rimorso e di darle conforto se e quando ne aveva bisogno. Magari saremmo diventate vere cugine. E invece, cambiò poco.
Subito la prima sera, il suo vispo occhio catturò il pulsare della luce della “villetta infestata”. Mi chiese spiegazioni, ma io non gliene diedi. Perciò, il giorno dopo intervistò un gruppetto di ragazzi di scuola mia. Loro seppero illustrare l’intera storia per filo e per segno, senza mancare del più microscopico dei dettagli. E fu allora che nella testa di mia cugina scattò l’idea: quella sera ci saremmo dovute andare. Invitò anche quei tipi; io li conoscevo, ma non mi sembravano abbastanza in gamba da affrontare qualsiasi cosa si nascondesse dietro quelle mura. Perciò stavo in guardia.
Mia cugina raccontò una frottola ai miei genitori, che saremmo andate a prendere un gelato con dei miei amici. Quindi uscimmo di casa che erano quasi le nove di sera. Ricordo che non era particolarmente buio e che tirava un piacevole venticello.
Quando ci avvicinammo allo steccato, allora rimpiansi di essere là. Più di tutti ce l’avevo con mia cugina, poiché io ero venuta solo per non lasciarla sola.
Il cortile appariva ancor più austero di quel che sembrava da lontano.
 Mia cugina colpì la porta di spalla. Questa si aprì in un cigolio sinistro. La prima cosa che mi colpì fu il tanfo di muffa e di vecchio che, in un’alitata dal buio dell’ingresso, ci arrivò addosso.
“Bene, ora, prima di andare tutti, sarebbe meglio se entrasse uno a vedere com’è” disse una ragazza.
Tutti gli occhi si volsero verso di me. Ero la più minuta, dunque perfetta per l’incarico. Provai a ribellarmi, ma non so se fu l’orgoglio di dimostrare a mia cugina che ero forte anch’io o per un’involontaria scarica di coraggio, alla fine, armata di torcia, mi inoltrai nella casa. Sentivo lo sghignazzare degli altri dietro di me, ma lo ignorai e mi feci avanti nell’ingresso. A terra giacevano accatastati scatoloni, mobili mangiati dal tempo e vetri rotti. Pregai di non trovarvi insetti o topi. Le pareti erano tappezzate di quadri, di una gran varietà di forme e colori, ma tutti ricoperti di polvere. Non mi azzardai nemmeno per sogno di sfiorarli.
“Al piano di sopra! Vai là!” sentii dire una voce da fuori casa. Cercai dunque, e molto ingenuamente, le scale e salii al primo piano. Prevaleva una tremenda puzza di marcio, e vecchi vestiti e giocattoli. Cominciai a perlustrare il piano con la paura che si faceva sempre più preda di me. La sentivo risalire lo stomaco. Il mio cuore martellava possentemente. Sentivo che qualcosa non andava. Qualcosa mi stava osservando. Percepivo degli occhi maligni calarsi su di me. E fu allora che la vidi. Mi si paralizzarono le braccia lungo i fianchi e le gambe, inchiodate a terra, tremavano come foglie. Nemmeno mi resi conto della torcia che mi cadeva dalle mani e la mia bocca aprirsi in un grido. Là, accanto alla finestra, c’era una lampadina, accanto alla quale stava una sagoma senza contorni, nera come la pece; aveva la testa come allungata in un cappuccio. Riuscivo solo a distinguere due fessure aguzze, come tagliate con un coltello, di un chiaro giallo, che mi incutevano di correre. E così feci. Ancor prima di vederla distendere un braccio verso di me, ancor prima di vedere la luce iniziare a pulsare come sempre faceva, io mi fiondai giù per le scale e corsi con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Non mi fermai neppure per dare spiegazioni a quei rintronati. Entrai in casa mia. Il cuore mi batteva ancora forte e la testa mi girava. La prima cosa che feci fu chiudere le tende della finestra della mia stanza, per non vedere quell’orrore di casa. Poi trassi una serie di profondi respiri per calmare il mio battito cardiaco. Mi dissi che non sarei mai più tornata in quel casale, che non mi ci sarei più nemmeno avvicinata, che non l’avrei più guardata.
E ogni sera la luce del piano di sopra si accendeva e spegneva, e ogni sera sentivo quegli occhi perfidi scrutarmi dalla finestra.
LA FRANA NEL BOSCO
Stava piovendo; l’aria era impregnata di un forte odore di terra bagnata; tra le fronde degli alberi, gli scoiattoli cercavano riparo dall’acqua.
Sebastian, il pelo arruffato, correva veloce nel bosco, abbaiando forte, diretto alla strada. Si fermò in mezzo e richiamò l’attenzione della prima automobile che vide passare. L’autista, una donna di mezza età, parcheggiò al lato della strada e gli si avvicinò per vedere se aveva il collare; lui scattò sulle zampe, abbaiò e sparì nel bosco. La signora lo seguì a corsa con tutte le forze che aveva, perché il terreno era scivoloso e il cane veloce, finché esso non si fermò davanti a delle rocce franate davanti a una parete di pietra; abbaiò qualche volta e mugolò, e prese a raschiare contro la parete. Allora la donna chiese se ci fosse qualcuno. Allorché una voce le rispose dall’altra parte dell’ostacolo, ella estrasse prontamente il cellulare e chiamò i soccorsi. Allontanò il cane dalle rocce che stava grattando, per evitare spiacevoli conseguenze. Gli aiuti arrivarono più in fretta che potevano, e in men che non si dica la persona intrappolata nella caverna fu liberata. Il cane le corse addosso e prese a leccarle tutta la faccia, mentre i medici le chiedevano se si fosse ferita nell’incidente; eccetto qualche graffietto, stava bene. Ringraziò i presenti per l’aiuto e, con Sebastian che le trotterellava accanto, scodinzolando allegramente, tornò a casa. Mai e poi mai si sarebbe allontanata da lui.
QUANDO SI FECE SERA
L’oscurità era calata. Le stelle, timide, nascoste nel cielo, iniziavano a farsi coraggio e a mostrarsi sopra la mia testa in un lieve barlume soffuso.
Le lucciole si erano alzate dal prato e, come esse, i miei pensieri trovarono modo di prendere vita al chiarore della lanterna, ed erano accompagnati dal monotono frinire dei grilli.
Lasciai che i miei pensieri venissero colti da quella calda brezza e portati chissà dove nella vastità della radura dinnanzi ai miei occhi, ormai fatti stanchi. Mi sentii come liberare da un peso che altrimenti non mi avrebbe fatto altro che male.
Lontano, una luce di un’abitazione si accese e parve deliziare la serata con quel suo tepore arancio.
Cercai nel cielo la Luna, arrivata a un quarto, e mi tornò in mente la prima volta che ebbi l’occasione di osservarla al telescopio: la sua superficie era solcata da grandi, distinti, ombrosi, crateri, e il suo contorno andava a sfumarsi di blu, fino a terminare nel cielo.
Ho impressa nella mente tale immagine come se non se ne volesse mai andare e ancora mi trasmette la sensazione che ebbi la prima volta: di totale incanto e piccolezza nei confronti di quella sfera perlata tanto amata e riconosciuta nelle poesie di Leopardi quanto dall’intera umanità, che ogni sera le sofferma uno sguardo.
La sua luce si rifletteva sulla superficie del lago e io ne potevo vedere le increspature causate dal soffio del vento giunto da ovest.
Pensai che in quel momento non volevo essere altrove se non là, sui gradini della mia casa di campagna, a trarre calma dal dipinto che si snodava attorno a me.
PENSANDO
Sento le onde, un moto così calmo e regolare da farmi dimenticare della critica situazione in cui mi trovo; e le stelle… puntini luminosi nel cielo che mi sussurrano, seppur lontani, che non c’è niente di cui preoccuparsi e che, ora, sono al sicuro.
Sento il mio corpo, dalla punta dei piedi alla testa, farsi, piano, sempre più leggero. Non temo più l’oceano su cui galleggio: ora mi sembra qualcosa di familiare e quieto, come il cielo stellato.
Riesco a vedere la Via Lattea… Solo ora comprendo il motivo per cui gli antichi romani la chiamarono così: sembra proprio del latte versato sulla scura volta celeste. I suoi colori mi fanno venire i brividi da quanto sono belli: bianco, rosa e violetto, lentigginati di stelle.
Ora provate a chiudere gli occhi e a immaginare il moto delle onde; focalizzate il cielo boreale. Vedete, nella costellazione del Boote, la stella Arturo? Quel pallino giallo luminoso? Riuscite a vedere la punta di stelle che la testa e le spalle formano? E, se vi spostate a nord, riuscite a vedere l’Orsa Maggiore? Potete distinguerne il Grande carro? E dalla sua stella più a est, se tracciate una linea andante in quella direzione, vi appare la stella polare?
Potrei continuare a illustrarvi le bellezze del cielo boreale, ma il suono più dolce che abbia mai sentito cattura la mia attenzione. Sembra seguire uno schema ripetitivo producendosi in lunghi, potenti sospiri, e dà un senso di pace che mi è nuovo. Quindi deduco che questo canto appartiene a una balena, e mi sporgo dalla zattera per poterne distinguere l’aggraziata forma che mi sta nuotando vicino; vederla mi riempie il cuore di gioia.
Mi sdraio nuovamente sotto al letto di stelle, e torno a consultarle. Mi sembra di essere a un passo dal toccarle, quindi allungo un braccio cercando di raggiungerle, ma non riuscendoci lo ritraggo. Sfioro invece la superficie dell’acqua che mi scorre dolcemente fra le dita, mentre mi conduce chissà dove in mezzo al mare.
Se solo la notte non finisse mai, resterei per sempre così.
Cara Giulia,
tu neanche mi conosci e forse io non avrei mai sentito il tuo nome se non fosse successo ciò che purtroppo conosci meglio di me. Sono una ragazza non molto più piccola di te, che vive una vita più o meno normale (una di quelle che molto probabilmente tu ora stai un po’ invidiando), ma che come le altre donne deve portare con sé tanti fardelli pesanti, massi che la tua storia ha portato un po’ a galla. Da quando il tuo nome è apparso sulla prima testata giornalistica, mi sveglio ogni mattina con un senso di pesantezza che prima provavo a sopprimere o nascondere, ma che ora invece preme senza sosta sul petto. Sono sicura che tu sai di cosa sto parlando: ognuna di noi purtroppo l’ha sentito almeno una volta.
Non so se dal posto in cui sei adesso ogni tanto guardi giù per vedere cosa stiamo combinando. Mi piacerebbe davvero tanto sapere cosa ne pensi, ma purtroppo non è possibile. Provo a immaginarmi con quante domande senza risposta tu ora ti stia tormentando.
Probabilmente ti chiedi perché una cosa del genere sia successa proprio a te o come hai fatto a fidarti per così tanto tempo di una persona del genere, ti domandi chi abbia voluto ciò o perché tu non sia riuscita a salvarti. Non ho una risposta a queste domande, nessuno di noi ce l'ha, cara Giulia, perché davanti a cose come queste noi esseri umani non siamo capaci di dare una spiegazione totale, anzi alcune volte siamo talmente limitati che cerchiamo di dare una giustificazione a cose INGIUSTIFICABILI. Alcuni addirittura sono arrivati a pensare che te lo saresti dovuta aspettare, che ti saresti dovuta accorgere di alcuni comportamenti sospetti; ma come potevi pensare a una fine del genere? Una persona non dovrebbe mai immaginare che colui che fino a poco tempo prima baciava e abbracciava per stare bene sarebbe capace di arrivare a strappargli la vita. Tua sorella si è opposta fermamente a questo schifo, e sta combattendo in tuo nome una battaglia dura, in modo che tu sia una delle ultime a subire una cosa simile. Non sarebbe meraviglioso se ci riuscisse davvero?
Tuttavia la mia fiducia nel genere umano non è salda come la sua, e credo che per arrivare a un punto ci sia ancora bisogno di moltissima strada, che spesso non riusciamo neanche a vedere, e ti chiedo scusa per ciò.
Con questa lettera non voglio dare una risposta a nessuna domanda o smentire giustificazioni. Sono solo stanca di dover sentire storie come la tua, di costringermi a superarle o a non avere paura.
Sai, Giulia, il tuo corpo è stato ritrovato il giorno del mio compleanno, e per questo è stato ancora più devastante: forse è il motivo per cui mi sento in dovere di scriverti, di chiederti perdono per un mondo che ha portato col tempo l'accumularsi di storie come la tua, di vite strappate, corpi uccisi e di anime di donne dilaniate.
Quindi eccomi: una donna che chiede scusa a un’altra donna per un omicidio commesso da un uomo. Sembra ironico detto così, e me ne rendo conto, ma onestamente non me la sono sentita di limitarmi a stare in silenzio per un dannatissimo minuto.
Vorrei davvero che da questa lettera qualcuno riuscisse a leggerci qualcosa di bello, perché 106 ragazze in un anno sono troppe, sono uno strappo troppo grande in questa società che si sta scucendo e sgretolando da sola.
Un’ultima cosa Giulia: vorrei ringraziarti perché all’interno della tua storia c’è qualcosa che è andato in modo diverso rispetto alle altre volte. Come sei comparsa in fondo a quella lista il tuo nome si è come illuminato, accendendosi di una luce rossa come il fuoco e il sangue, iniziando a viaggiare da individuo a individuo, lasciando macchie rubine ovunque si fermasse. Io non so cosa sia successo, e non credo che questa cosa sia giusta, ma se servirà a portare qualche occhio in più sul sangue e quello strappo, allora non possiamo che essere grati.
Ora ti saluto cara Giulia, ti chiedo ancora scusa, per una cosa che non può essere scusata.
Riposa in pace.
ALL’ULTIMO MOMENTO
Mancavano meno di sessanta secondi al fischio di fine partita dell’arbitro. Tre a due, bel modo di perdere. Ma non sarebbe successo. Elliot si scambiò uno sguardo complice con Mac; e sarebbe stato quello, secondo lui, a segnare la vittoria sua e dei suoi compagni. Appena fu possibile, Mac riuscì a prendere la palla alla squadra avversaria e la lanciò in direzione dell’amico, ma Michael Anta, loro avversario, si parò in mezzo tra il pallone e Elliot, il quale, perciò si dovette lanciare in un salto.
Sentì i suoi polpastrelli toccare il pallone, chiuse le mani su di esso e, palleggiandolo a terra ad ogni passo, corse al canestro. Si fermò, fletté le ginocchia. Saltò più in alto che poté, coinvolgendo tutta la forza che ancora gli rimaneva. Lanciò la palla, pregò che entrasse nel canestro. La gente sugli spalti trattenne il fiato. Alcuni chiusero gli occhi. Nella palestra calò un silenzio, interrotto unicamente dal brusio del condizionatore.
Il pallone roteò in aria e parve non voler mai cadere, ma restare lassù, levato tra le mani del giocatore numero otto e il canestro, che anch’esso pareva attendere irrequieto che l’arancia segnata da un inconfondibile marchio Spalding terminasse di disegnare infiniti cerchi in quell’aria fatta d’un tratto pesante. Poi si decise a fare la sua discesa verso l’abisso di quel cono bucato e, come una scintilla che appicca un fuoco ardente, accese gli applausi dei mille, esultanti spettatori: due punti. Fine partita. Era fatta: gli Iceheart avevano vinto ancora.