Pubblicazione del 30 aprile
Pericolo nelle strade: come tutti sosteniamo la criminalità
Soltanto pochi anni fa il terrorismo era uno spettro che impauriva tutt’Europa. Dagli attacchi terroristici in Inghilterra e in Francia sino alla paura in Grecia: tutte le grandi capitali erano blindate da orde di poliziotti.
Oggi i terroristi sono passati in secondo piano nella mente delle persone comuni: al primo posto c’è una criminalità più diffusa, più di quartiere: lo spaccio, le aggressioni e i borseggiatori sono le principali paure.
Le ragazze di diciassette, diciotto o vent’anni hanno paura ad uscire la sera e ritornare a casa da sole anche se nel tragitto passano solo per il centro città, sempre affollato e turistico. Purtroppo è realtà di ogni medio-grande città – per non citare le metropoli dove la situazione è ancora peggiore.
In generale, sembra che la società diventi sempre più violenta, più aggressiva; se questo fosse vero – e apparentemente lo è – non bisognerebbe chiedersi: “Perché?” Il fatto è che in una società in cui l’obiettivo implicito di ogni azione dev’essere avvantaggiarsi sul prossimo, trarre un profitto da qualsiasi cosa, si sviluppa una forte competizione fra cittadini, e questa competizione spinge all’amoralità, al crimine, perché il soggetto è consapevole che il crimine stesso è parzialmente accettato dalla società.
La truffa, ad esempio, è un reato molto accettato, d’altronde è facilmente confondibile con una pubblicità ben riuscita, che fa di tutto per convincere il potenziale compratore ad acquistare.
Il problema è societario in che misura?
Nella misura in cui in una società che punta al consumo assoluto, che glorifica la ricchezza e mistifica invece chi non ha e non può avere, anche gli ultimi degli ultimi sono portati a provar invidia, e per colmare i propri – spesso irrealizzabili – desideri sono spinti a far tutto. Pur di guadagnare, di ottenere quell’oggetto o quella ricchezza – una soddisfazione fittizia, dettata solo da bisogni indotti – siamo pronti a far tutto: uccidere, stuprare, spacciare, rubare.
Poco c’importa delle conseguenze – anzi spesso godiamo dell’adrenalina che il pericolo dà: “Finirò in prigione? Amen, almeno mi son divertito, mi son sentito vivo per un attimo”. Sono riuscito a scappare da quella trappola mortale – chiamata vita per tanti di noi oggi – che il consumo e la società che ne deriva ha creato.
Ed ecco che secondo tutti gli indici la criminalità giovanile aumenta – siamo proprio noi giovani ad esser le maggiori vittime delle controindicazioni del consumo – così come la disuguaglianza.
Siamo noi i più vulnerabili perché siamo nati in questo modello di vita, non abbiamo mai visto altro, e siamo costretti a subire passivamente questo sistema – non potendo lavorare per sostenerci.
Dunque, la soluzione più veloce qual è se non aggredire una ragazza per rubarle il telefono o raggirare una vecchietta per riuscire a trarne qualche centinaio d’euro per i nostri bisogni?!
Se sua è la colpa è sempre la società che propone soluzioni, ma queste sono sempre le solite: aumentiamo le pene per i reati piccoli – come se pene maggiori fossero effettivamente dei deterrenti efficaci – oppure aumentiamo la sicurezza nelle strade, mettendo più polizia in campo.
Secondo questo ragionamento anche la pena di morte dovrebbe esser efficace nel limitare il numero di crimini, eppure è stata abolita in quasi tutti i paesi del mondo – tranne quelli più retrogradi. Non è più in vigore perché si è capito che, oltre a esser disumana, è totalmente inutile dal punto di vista criminologico.
Questo ci deve far capire che inasprire le pene è una soluzione inefficace: soprattutto in un paese come l’Italia in cui il tasso di reiterazione del crimine dopo esser usciti di galera sfiora il 70% – perché le nostre carceri sono posti orrendi in cui finire, dove anziché pentirsi si finisce per peggiorare la propria situazione.
È insensato quindi pensare che un ragazzino finito in carcere a diciott’anni per un’aggressione si penta dopo esser stato a contatto con l’ambiente carcerario e con i personaggi al suo interno: l’umiliazione e de-umanizzazione che questo subirà lo porteranno a pensare alla società in maniera ancora più distorta di prima tale che, uscito di galera, non potrà far altro che rubare ancora, o persino ammazzare.
Infine, è la società che gioca la sua parte anche in un’altra piaga di oggi: le violenze a sfondo sessuale.
Citando un saggio sul crimine degli anni Settanta (!!!): «Lo stupro viene considerato come un crimine in cui il colpevole è la vittima».
L’uomo – perché nella stragrande maggioranza dei casi è lui che violenta – non si sente in colpa, anzi, sente di aver assolto a pieno il proprio dovere. E non si può liquidare la situazione in maniera semplicistica definendo lo stupratore o il molestatore come un deviato; perché spesso non lo è, anzi, è un uomo totalmente comune.
È radicato nel profondo della nostra mente, modellato dai nostri consumi e dai nostri usi il concetto che nell’ambito sessuale non si possa accettare un rifiuto. Si dovrebbe educare a riguardo ma non lo si fa: scelta volontaria di chi comunque non percepisce quella sessuale come una violenza quotidiana che destabilizza e fa vivere in un costante stato di terrore una gran parte della popolazione femminile – soprattutto le ragazze più giovani – di questo paese.
E se la politica non si muove, per ragioni di natura diversa (spesso incomprensibile), che ci si muova dal basso, per combattere e risolvere questa piaga.
Il già citato ruolo fondamentale dell’educazione e degli educatori in particolare è molto delicato, perché troppo spesso la cultura è percepita come qualcosa di passivo, di estraneo dai ragazzi.
Le nostre menti sono plasmate dalla mentalità tutto ciò che conta è misurabile in soldi. Spesso si lasciano fuori tutti quegli àmbiti non misurabili in denaro che alla fin dei conti sono quelli che ci fanno maturare, ci fanno pensare diversamente e – forse – ci rendono persone migliori; sta quindi all’educatore imprimere queste idee, sovrastando il fascino del denaro, per cercare di passare il messaggio che forse non tutto ciò che è merce è buono.
Perché se tutto diventa merce – e lentamente ciò sta accadendo – anche i corpi lo diventano, poi le vite.
Ricordiamoci infine che, per quanto tutto possa aver un prezzo e questo possa oscillare, il costo di stroncare o di rovinare una o più vite deve essere sempre troppo alto per tutti noi per permettere che qualcuno lo debba pagare.
Gio’ Bernardini
Pubblicazione del 29 febbraio
Piano Mattei: aiuto all’italiana
Da mesi ormai è al centro del discorso politico italiano il Piano Mattei, ovvero una serie di manovre economiche del nostro Stato e altri partner volte ad aiutare lo sviluppo dei Paesi più in difficoltà dell’Africa subsahariana e del Nord Africa.
La vera domanda è: è questo uno strumento utile ed efficace, o al contrario un nuovo metodo per metterci in pace con la nostra - sporca - coscienza di occidentali?
Capiamo prima in cosa consiste questo piano. L’ossatura sarebbe indirizzare a diversi “Paesi chiave” dell’Africa subsahariana e del Nord Africa aiuti economici per il valore complessivo di 5,5 miliardi di euro nei prossimi quattro anni.
Questi sarebbero canalizzati a più riprese attraverso dei progetti pilota; insomma non dati tutti insieme ma - almeno sembra - con raziocinio e supervisione su particolari settori, tra i quali i fondamentali sono: istruzione e formazione, agricoltura, salute, energia, acqua.
Il piano prende il nome dal fondatore dell’ENI Enrico Mattei e sarebbe rivoluzionario: per la prima volta si tende una forte mano statale allo sviluppo di settori fondamentali, e i benefici sono sia per i Paesi africani che per l’Italia.
Difatti, l’Italia spera di riuscire a sfruttare la propria posizione chiave nel Mediterraneo per elevarsi al ruolo di hub energetico per tutta quella energia che dovrebbe provenire dal continente africano quando i miliardi di aiuti avranno il loro effetto e si potranno sfruttare i risultati.
In pratica, si tratterebbe di sostituire tutta quell’energia a basso prezzo che abbiamo perso con la guerra in Ucraina - il nostro principale fornitore di gas era la Russia - con il corrispettivo africano, sempre a basso costo, e - almeno si spera - anche più ecologico.
Dunque il nostro Paese diventerebbe il punto d’approdo principale per l’energia africana, e di conseguenza anche il principale luogo di smistamento dell’energia verso tutto il resto dell’Europa continentale.
Questa è ovviamente la faccia che a noi gioverebbe di più, ma - sempre teoricamente - dei nostri investimenti ne sarebbero comunque beneficiari tutti i Paesi africani coinvolti. Oltre allo sviluppo del settore energetico gli obiettivi sono un aumento del PIL e in generale dei traffici commerciali, che in assoluto non possono che far bene.
Inoltre, come si legge da quel poco che è stato pubblicato sul piano, alcuni degli assi principali riguardano fattori di prima necessità (acqua, scuola, ecc.), quindi si presuppone che, di nuovo, maggiori fondi portino a dei migliori risultati totali in termini di efficienza e di disponibilità dei servizi per la popolazione.
In generale sembrerebbe, da come lo racconta il governo, la fine di quella politica estera europea - ma in generale occidentale - che sfrutta l'Africa solo per le sue risorse e che continua a mantenere la sua superiorità economica e commerciale sul continente. Un passo in avanti, fatto sì dall’Italia, ma con l’approvazione della presidente della Commissione europea Von Der Leyen e, in generale, dell'Europa.
Tutto fa pensare ad un futuro prospero: un’Africa finalmente competitiva e un ruolo decisivo del nostro paese con questo nuovo interlocutore che in potenza diventerebbe rilevante sul piano internazionale.
Ora, come spero abbiate notato, ho usato molto il condizionale nei periodi precedenti, perché se per risolvere problemi secolari e tutt’ora influenti bastasse erogare qualche miliardo a degli Stati del tutto inaffidabili saremmo a posto; ma purtroppo non è così.
Diverse sono le critiche, di diversa natura in primis, di fattibilità in secundis.
Intanto, la teoria economica dello sviluppo e soprattutto tre autori (Easterly, Collier, Duflo) ci dicono che, in sostanza, gli aiuti strettamente economici - come appunto l'erogazione di fondi - sono assolutamente inefficaci.
Se propugnati a fondo perduto, quindi senza sottostare a delle condizioni, lo sono perché il ricevente dell’aiuto non avrà alcun incentivo nel portare a termine la politica a lui richiesta - d’altronde, non ci perde nulla.
Se invece legati a delle condizioni, come nel caso italiano, sono di nuovo inefficienti, perché non aiutano il reale sviluppo del Paese, bensì il governo locale fa ciò che gli è richiesto intascandosi però i ricavi e i guadagni delle nuove infrastrutture invece di ridistribuire la ricchezza nel Paese, dimostrando all’estero di aver soddisfatto le proprie condizioni per poter continuare a ricevere aiuti.
Inoltre, a meno che non ci sia uno stretto controllo da parte del nostro Stato, chi ci garantisce che i miliardi da noi erogati finiscano nelle mani di chi li deve ricevere, di chi si occupa di quei settori che noi vogliamo far sviluppare e non invece nelle mani di burocrati o signori locali che li utilizzano per mantenere i propri privilegi o per il loro tornaconto?
Sempre secondo il piano, l'Italia si troverebbe a dialogare con Paesi in cui l’autorità del governo è spesso stata messa in discussione (o direttamente con dittature come l’Algeria), e se non è stato rovesciato da un colpo di stato il governo s’è trasformato in un organo autoritario - se non dittatoriale -, che in in maniera oggettiva non si può definire campione di affidabilità.
Ci sono polemiche di ordine politico, come il fatto che Giorgia Meloni non avesse neanche trattato o cercato di includere il presidente dell’Unione Africana Moussa Faki nelle trattative e nell’ideazione e nella creazione del progetto; quest’ultimo si è infatti lamentato dell’assenza di consultazione e ha sottolineato il bisogno di passare dalle parole ai fatti.
È politicamente rilevante il fatto che siano soltanto 5,5 miliardi gli euro investiti in un periodo di quattro anni, fondi da tanti definiti irrisori - accuse non senza fondamento -: difatti forse sarebbero necessari investimenti molto più ingenti se si vuole sperare di ottenere qualcosa, senza prelevarli per gran parte (3 miliardi circa) dal fondo italiano per il clima, che al momento non pare proprio un settore a cui levare finanziamenti visto il peggioramento sempre più evidente e catastrofico della situazione climatica mondiale.
Infine, a molti questo rivoluzionario piano per lo sviluppo pare un ennesimo sistema per sfruttare l’Africa per le sue risorse fossili a basso costo - energia in primis -, di cui noi al momento abbiamo disperatamente bisogno, visti i prezzi assurdi del gas e i costi di trasporto e di trasformazione del gas liquefatto proveniente dagli Stati Uniti.
Insomma, invece di andare avanti, sembra di tornare indietro o se la vogliamo vedere positivamente, di non muoversi neanche d’un metro.
Perché in fondo la questione è etica: ci fa comodo avere un continente sottosviluppato da cui possiamo trarre ciò che ci pare e verso cui possiamo investire a costi dimezzati rispetto a tutte le altre aree del mondo; perciò manteniamo intatto un sistema postcoloniale che mira solo al nostro vantaggio, assieme a quello delle élite africane stabilmente al potere - spesso attraverso la violenza.
Eppure - forse - non ci siamo ancora resi conto in questa parte del mondo che, purtroppo, per alcuni questo sistema non può andare avanti per sempre e, prima o poi, noi tutti ne dovremo pagare le conseguenze.
Quindi, forse, è meglio agire prima seriamente attraverso aiuti alle infrastrutture, aiuti civili e democratici, aiuti militari, se necessario, che creino e costruiscano le basi di Stati forti, democratici ed autosufficienti; senza doverne pagare le conseguenze.
G.P.B.
Fonti:
https://www.affarinternazionali.it/il-piano-mattei-per-lafrica-o-con-lafrica/
Pubblicazione del 30 novembre
Come si organizza un golpe:
la fine del Cile democratico
Il 3 Novembre 1970 Salvador Allende viene eletto presidente del Cile. Per la prima volta un socialista - democraticamente eletto - è al governo di un paese sudamericano; ci si aspetta una prospera era di riforme.
Tre anni dopo, l’11 settembre 1973 - il primo 11 settembre della storia - un golpe colpisce il governo di sinistra: una junta militare segna la fine dei giorni del Cile democratico. Inizia l’era dittatoriale del generale Pinochet.
Il governo Allende
Arrivato al potere per il volere del 36% del popolo cileno, Allende sin da subito attirò su di sé gli occhi di tutto il mondo, soprattutto quelli dell’establishment americano.
Era la prima volta che un socialista - dichiaratamente aperto e posizionato su idee marxiste - veniva eletto da un popolo, senza ricorrere alla violenza né a un colpo di stato.
Gli americani, preoccupati che potesse trasformare il Cile in un regime filo-sovietico, misero subito in moto i meccanismi della CIA, per sbarazzarsi il prima possibile dello scomodo presidente. A queste preoccupazioni il presidente rispondeva così ai microfoni del Times di New York: «Noi partiamo da diverse posizioni
ideologiche. Per voi essere un comunista o un socialista significa essere totalitario, per me no... Al contrario, io credo che il socialismo liberi l'uomo».
Ecco quindi che la via cilena al socialismo inizia a delinearsi subito, sin dai primi provvedimenti governativi. Una linea politica che tra l’altro si allontanava dai dettami dell’unione sovietica per avvicinarsi alle posizioni di quei paesi, come Cuba, definiti “non allineati”, quindi non facenti parti del blocco occidentale né di quello orientale.
I risultati non tardano a farsi sentire: le miniere di rame vengono nazionalizzate - il Cile è uno dei più importanti produttori di rame al mondo - e con loro le banche, le assicurazioni e le industrie: tutte passano sotto il controllo dello stato. Poi la riforma agraria per favorire lo strato del sottoproletariato, e riforme della tassazione che andavano a colpire maggiormente i grandi proprietari capitalisti di fabbriche e terre.
Infine, le riforme sul piano sociale: l'istituzione del salario minimo garantito, l’aumento generale dei salari delle classi più povere, l'invio di volontari per l'alfabetizzazione e la sanità nelle parti più povere del paese, i cosiddetti allendistas. E, ancora, le costruzioni di case popolari ed interi nuovi quartieri, l’istituzione di sindacati e l'incentivo all’utilizzo di essi, l'incentivo all’alfabetizzazione.
Tutto questo portò - nel periodo di governo di Union Popolar - ad un aumento della spesa dei singoli cittadini, corrispondente all’aumento dei salari, all’incremento del PIL e ad una maggiore mobilità economica, che fece arricchire tutte le classi.
L’inizio dei problemi
L’opposizione parlamentare verteva intorno a due grandi partiti: il PDC (Partito democratico cristiano del Cile) e il PN (Partito nazionale). Questi erano particolarmente preoccupati dalle manovre di nazionalizzazione promosse dallo stato.
Con loro a curarsi delle sorti del Cile erano soprattutto la ITT Corporation - importante multinazionale americana della rete tecnologica - e l'esecutivo statunitense, assieme alla CIA.
Sino al ‘71 il governo Nixon (gennaio 1969 - agosto 1974) aveva avuto altri problemi di cui preoccuparsi, e il processo di statalizzazione - soprattutto del rame - procedeva lentamente; per questo le proteste dei due partiti di opposizione erano rimaste isolate e scollegate, o comunque erano state effettivamente controbilanciate dalle masse operaie e di popolazione che appoggiavano il governo.
Nel corso dell’anno successivo le politiche nei confronti del Cile si indurirono; gli statunitensi, vista la tendenza produttiva del rame cileno che continuava ad aumentare e andava a ingrossare le casse dello stato, passarono alla controffensiva.
Immisero nel mercato del rame mondiale grandi quantitativi di materia prima che venivano dalle loro scorte; il prezzo globale si abbassò, e i guadagni dello stato cileno si dimezzarono.
Unirono le forze con gli schieramenti di destra e centristi, chiamando allo sciopero tutti i piccoli e medi borghesi di settori come quello degli autotrasportatori - vitali per il collegamento del paese -, i quali erano proprietari dei loro mezzi e non operai, quindi vivevano in una condizione più agiata dei loro dipendenti.
La serrata e gli scioperi del 10 ottobre 1972 furono appoggiati anche da organizzazioni paramilitari di destra come Patria e Libertà. Per la prima volta la piccola borghesia, quindi anche magazzinieri e piccoli commercianti, facevano sentire il loro peso: i prodotti mancavano sugli scaffali dei negozi o, se c’erano, costavano il triplo. Il governo rispose prima chiedendo lo sciopero in massa degli operai e, dopo questa dimostrazione di forza, invitandoli ad aumentare la produzione e ad autogestire la distribuzione dei beni di prima necessità.
Vennero costituiti comitati municipali per la distribuzione dei prodotti, venne persino varato un programma nazionale; però i beni di consumo erano in mano a quei ceti medi che ormai erano apertamente contro il governo, e non ne favorivano la distribuzione, anzi, li nascondevano e alimentavano il mercato nero.
La crisi fu superata, ma a quale prezzo? Il governo era stato costretto a far entrare dei militari in tre portafogli fondamentali: Interni, Miniere e Trasporti.
Il mercato nero si faceva di giorno in giorno più abbondante più di quei prodotti che mancavano dagli scaffali, e l’inflazione cominciava a galoppare. Era cominciato un processo di stritolamento dell’economia cilena, che non sarebbe finito con la caduta di Allende.
Il 1973
L’anno si aprì ancora instabile: scioperi e serrate erano all'ordine del giorno, ma le elezioni erano alle porte. Il 4 marzo si ebbero i risultati delle urne: l’UP (Unità popolare) aveva conquistato il 42% dei voti, il Cile era ancora loro, e i cileni erano ancora in maggioranza a favore del governo.
Questo rafforzò l’esecutivo. Infatti Allende si pronunciò deciso dicendo: «È la classe operaia che ha votato: mai nessuno prima di questo aveva ottenuto, dopo due anni e mezzo, un appoggio popolare così considerevole».
Eppure, sebbene sembrassero usciti rafforzati, nei dirigenti dell’UP si diffondeva la consapevolezza che se avessero voluto continuare a rimanere al governo avrebbero dovuto cercare un accordo con il PDC.
Nei capi dell'opposizione, invece, si stava pian piano formando la concezione che per abbattere quel governo non sarebbero bastati scioperi e serrate, nemmeno i mezzi costituzionali: era necessario un golpe. E anche gli americani e la CIA aumentarono i loro aiuti economici verso questa direzione.
Il clima si faceva sempre più caldo: entrambe le parti erano consapevoli che si stava arrivando allo scontro frontale e si preparavano per questo. L’UP sapeva ancor di avere la maggioranza, anche il favore di certi membri dell'esercito come il generale Prats, capo delle forze armate - addirittura entrato a far parte del governo - e il general Sepulveda, capo della guarnigione di Santiago (capitale del Cile).
La soluzione era armare gli operai e mettere tutta la nazione in stato di guerra, rinunciando così al riformismo che aveva contraddistinto la politica allendista, e anzi andando nella direzione di una rivoluzione, e conseguentemente della dittatura del proletariato; oppure aspettare, forti del supporto popolare e delle istituzioni e mantenere il dialogo aperto con il PDC, nella speranza che al momento del bisogno la maggioranza sarebbe stata dalla parte governativa?
Gli ultimi mesi e El Tanquetazo
A fine giugno la situazione era ormai critica: le forze di destra avevano chiamato di nuovo allo sciopero, e stavolta avevano risposto tutti: autotrasportatori, minatori e piccoli commercianti. Soprattutto i minatori erano un problema per il governo, in quanto ogni giorno di fermo produttivo delle grandi miniere costava loro più di un milione di dollari.
La situazione era assolutamente insostenibile, perciò si chiese un altro sforzo al popolo, per dimostrare ai rivoltosi che erano in minoranza.
Il 22 giugno un'enorme massa di popolazione, mai vista prima di allora, rispose al proclama di Allende: immensi cortei di operai e lavoratori dimostrarono una sola volontà politica, quella costituzionalmente eletta.
Dopo la dimostrazione, gli oppositori, in evidente minoranza, furono costretti a tornare ai posti di lavoro, ma non era finita qui. Il 29 giugno, le forze corazzate del secondo reggimento dell’esercito cileno circondavano La Moneda - il palazzo presidenziale - e lo cingevano d’assedio.
L'ammutinamento durò poche ore: infatti, prima che le forze del Generale Prats potessero disarmare i militari, il popolo si era già organizzato: le fabbriche erano state occupate e le armi distribuite. Apparentemente rinforzato dal golpe fallito, il governo sapeva che ormai la speranza era poca: era evidente che, ormai, all’interno dei ranghi dell’esercito i favorevoli alla protezione del potere costituito erano ormai pochi, e che dietro all'insurrezione c’erano tutti: il PDC, il PN e le loro forze paramilitari, l’intervento estero della CIA e delle sue influenze.
Il golpe
In un ultimo, strenuo, tentativo, Allende formò un nuovo governo: perdette quei pochi militari favorevoli, come Prats, per pressioni interne, e si dovette far affiancare invece da probabili golpisti. La nazione era ormai in preda al caos: scontri avvenivano quotidianamente, e le forze armate e di polizia non riuscivano a mantenere l’ordine.
Si sollevavano proteste soprattutto dai militanti di sinistra in quanto era a loro evidente come gli esponenti delle forze di destra che venivano arrestati venivano anche subito rilasciati dopo pochi giorni; si accusava la giustizia di favorire una parte.
A livello politico si continuava a cercare un dialogo, ad aspettare che il PDC proponesse delle condizioni; ma quando questo le propose erano proibitive.
Si chiedeva al governo di far marcia indietro su tutti i punti principali della sua politica: era un’evidente provocazione, e non la volontà di continuare col dialogo.
Alle 10:55 della mattina del 10 settembre Allende apprende che a Valparaiso la Marina si è impadronita della città con la forza. Il giorno dopo, mentre siede al suo posto nella Moneda, El Chico - così era soprannominato Allende - fronteggia le forze golpiste del
generale Pinochet, in un disperato tentativo, assieme ai suoi compagni, di difendere lo stato democratico.
Il golpe militare ha successo: l’11 settembre 1973 Allende è caduto.
Ecco le ultime parole del presidente alla radio cilena:
«È possibile che ci annientino, ma il domani apparterrà al popolo, apparterrà ai lavoratori. L'umanità avanza verso la conquista di una vita migliore. [...] Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l'uomo libero, per costruire una società migliore».
«Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano, ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento.»
Conclusioni
Quella di Allende è stata una parentesi democratica, in un Sud-America storicamente segnato in quel periodo da dittature militari.
Un unicum storico, che forse per i tempi non abbastanza maturi non abbiamo potuto veder proseguire negli anni. Il primo socialista sudamericano ad esser stato democraticamente eletto e ad aver governato, e durante il suo mandato il Cile è progredito anni luce rispetto agli altri paesi del continente.
Eppure - forse - egli e la sua idea di politica erano troppo scomodi, o almeno così ci ha detto la storia.
Un uomo che comunque ha segnato la storia del Sudamerica e del mondo intero, dimostrando che il socialismo democratico potesse esistere, e rendendolo anche un esempio da seguire.
Una politica che si è scontrata con forze estere ed economiche troppo più grandi di lui, e che ha dovuto soccombere alle armi, quelle stesse armi che El Chico non avrebbe mai utilizzato, neppure se costretto.
Se vi interessa l'argomento e volete approfondire vi consiglio il report giornalistico Dal Cile di Saverio Tutino, che spiega nel dettaglio la progettazione del colpe e il clima di quegli anni.
Gio’ Bernardini
La spia che venne dal freddo: l’oscuro mondo delle spie di John le carré
The spy who came in from the cold è il romanzo che ha reso noto John le Carré sul mondo della letteratura mondiale. Pubblicato nel 1964, si pone in diretta contrapposizione con un gigante della letteratura di spionaggio: Ian Fleming e i suoi James Bond.
Non ci potrebbero essere due modi più diversi di interpretare gli stessi temi: alla squisita eleganza di Bond i personaggi di Le Carrè contrappongono freddezza, spietatezza e una costante incertezza.
Le Carré lascia tutte le bellezze narrative e descrittive al suo collega: i suoi romanzi sono ridotti all’osso, le descrizioni, spesso grigie ed oscure, servono per dare il giusto minimo di contesto alle intricate storie che si svolgono nel corso dei romanzi. È attraverso il dialogo che l’autore riesce a passare tutta la sua maestria e conoscenza dell’ambiente - egli infatti era stato per davvero uno 007 prima di cominciare a scrivere; venne dimesso perché bruciato da una spia sovietica - e sono proprio questi che ci fanno amare, attaccare alle pagine dei suoi romanzi. Semplici ma efficaci, intensi, dal doppio, se non triplo significato, alcuni li riusciamo a cogliere al volo, altri ci vengono chiariti nel corso della lettura.
Dimenticatevi la romanticizzazione del classico 007, dimenticatevi le belle macchine che siamo abituati a vedere nei film con Daniel Craig o Sean Connery; il mondo dell’autore originariamente inglese, poi naturalizzato irlandese, è un mondo in una parola più reale. I suoi uomini e le sue donne sono personaggi rozzi, persino volgari a volte, che senza porsi domande cercano di ottenere il loro fine, passando per qualsiasi mezzo a loro disposizione.
Inoltre, la maestria dell’autore sta anche sul piano della costruzione delle atmosfere, cupe, grigie, che riescono a riportare indietro il lettore agli anni d’ambientazione, facendolo immergere in un insieme vintage d'immagini, di nuovo senza cadere nel déjà vu o nel luogo comune, anzi conservando una propria originalità delle ambientazioni, alquanto sconosciute e sotterranee, non i soliti cocktail bars di Parigi o Macau. Le storie si svolgono nelle periferie di Berlino, nelle campagne della Germania Est o in una Londra popolosa e affaccendata nella sua vita d’affari di tutti i giorni - nel caso de La Spia che venne dal freddo.
Complesse trame di spionaggio che tessono fili in tutta Europa, collegando l’Aia, con Berlino-est, poi tornando a Londra ed infine Helsinki e Copenaghen; nel tentativo - alquanto riuscito -, da parte dello scrittore, di inserire appieno il lettore nel complesso mondo dello spionaggio e, soprattutto, di dimostrargli che in questo mondo non vale la dicotomia buoni e cattivi, non esistono bianco e nero, bensì una folta nube di grigio, in cui misteriosi e poco raccomandabili attori navigano. In questo risiede un’altra
delle piacevoli sorprese che leggere Le Carré può dare: in un mondo del tempo fatto di due prospettive contrapposte, egli s’inserisce nel mezzo, senza prendere le parti né dell’una né dell'altra, per raccontare le sue storie dal punto di vista umano, al di là di ogni ideologia politica.
Il suo Alec Leamas - il protagonista del romanzo di cui ragioniamo - è una spia del tutto inusuale: estremamente capace e bravo nel suo mestiere sì, ma anche pieno di difetti, tende ad alzare un po’ troppo il gomito, si innamora facilmente; soffre come un uomo, non si comporta come un automa ed è capace di mostrare compassione ed amore da una parte, pur rimanendo freddo, talvolta cinico nelle sue scelte.
Così è Leamas, ma così sono anche tutti i personaggi secondari e meno rilevanti che si incontrano nella storia; non si cade in clichés come l’uomo squalo o il tipico cattivone col gatto sulle ginocchia. La narrazione mantiene una sua eleganza, una maestria, che - forse in termini un po’ cattivi - Fleming e il suo Bond non riescono ad ottenere, se era quello il loro obiettivo.
E questi sono i connotati del romanzo che ha reso celebre lo scrittore, con la sua storia d’amore, tra Alec e una bibliotecaria di nome Liz; con i suoi tradimenti e le sue scene d’azione - di nuovo, scordatevi tanti spari e macchine che saltano in aria, spari ce ne sono ma più soffocati. Il circus - che poi diventerà celebre col ciclo di romanzi di George Smiley, anche lui agente segreto - che in fondo non si differenzia poi così tanto nei suoi metodi e nei suoi obiettivi dallo spionaggio sovietico e dalla Germania Est, del formidabile Mundt e del più - almeno in apparenza - amichevole Fiedler.
Una storia complessa ed intricata, di un uomo, Alec, che in fondo non si rende conto dei motivi per cui continua a rischiare la vita per Sua Maestà, ma che invece spesso capisce d’esser parte d’un gioco più grande di lui, di esser soltanto una pedina; ma lo accetta di buon grado, chinando la testa e obbedendo agli ordini, col dispiacere di quella bibliotecaria che pian piano scopre la sua vera intimità e che soffre a causa della sua devozione alla causa, per la sua mancanza, quando lei avrebbe soltanto voluto amarlo.
Le Carré riesce, grazie alla sua forma e alla sua lingua semplice, a tenerci attaccati a ogni pagina, rendendo i turbini dello spionaggio in poche parole chiarificatrici, eppure nascondendoci sempre un significato o l'altro, attraendo il lettore come un pesce all’amo e facendolo cadere nelle sue trappole ben poste; nei meccanismi dello spionaggio del tempo che doveva conoscere abbastanza bene da esserne padrone sulla carta stampata. Tutto questo in un romanzo che fondamentalmente è d’apertura ad un ciclo - quello di George Smiley - che immergerà il lettore ancora di più in queste atmosfere, e porterà lo scrittore alla maturazione delle sue tecniche narrative, per un risultato ancora più sottile ed elegante. Dunque, sebbene sia un romanzo quasi di giovinezza, emergono qui già tutte quelle chiavi di lettura che renderanno famoso l'autore, e, per taluni, addirittura il miglior scrittore di spionaggio di tutti tempi.
Se poi non vi interessa leggere di spie o di cose per voi così lontane nel tempo, c’è sempre tutta la letteratura dell’autore post-crollo del muro di Berlino. Una seconda giovinezza? Può darsi. Fatto sta che per qualcuno è proprio venendo fuori da quella coltre scura di nebbia dello spionaggio e affacciandosi nel mondo reale - pur mantenendo sempre i suoi connotati narrativi, e la sua brama di sbrogliare la tela di ragno che sta dietro agli eventi comuni - che Le carré riesce a produrre i suoi migliori lavori; tra questi mi sento di consigliare The constant gardener.
Se poi non avete tempo o voglia di leggere uno dei suoi romanzi, perché siete già molti impegnati - lo capisco -, potete sempre guardare uno dei tanti film che sono stati prodotti a partire dai suoi romanzi: la Talpa (con un cast stellare tutto inglese) del 2011, The Constant Gardener (2005), con Ralph Fiennes protagonista, ma anche l'atmosfera tedesca di La spia - A Most Wanted Man del 2015, o per finire le calde trame sudamericane de Il sarto di Panama del 2001 con Pierce Brosnan.