Le Sette leggi secondo la Cabala

Capitolo 6

Le Sette leggi secondo la Cabala

Le Sette leggi secondo la Cabala

L’interpretazione cabalistica dei Sette precetti noachici si discosta, sia per il punto di vista sia per i riferimenti alla Scrittura, da quella del Talmud citata in apertura del primo capitolo, ma nello stesso tempo la integra e arricchisce.

La prima delle Sette leggi, nella prospettiva della Cabala, è il divieto di relazioni sessuali illecite e corrisponde alla sefirà di Chessed, bontà. Perciò comprendiamo che l’infrazione di questo divieto porta alla perversione della bontà e dell’amore.

Nel Cantico dei Cantici, al versetto 2, 6, viene descritta così l’esperienza dell’amore: La sua sinistra era sotto il mio capo e la sua destra mi abbracciava. Come abbiamo già visto, il braccio destro corrisponde alla bontà. Perciò quando creiamo, per il nostro amore, le condizioni gradite a D-o, Egli ci abbraccia mostrandoci la sua bontà.

Questa legge per i non ebrei ha origine dal famoso passo della creazione di Adamo ed Eva come coppia (Genesi 2, 24): Perciò l’uomo abbandona padre e madre, si unisce con la moglie e diviene con lei come un essere solo. Da tale versetto possiamo dedurre:

La proibizione dell’incesto; la frase “lascia il padre e la madre” indica che i figli non devono accoppiarsi con i genitori o i loro congiunti.

La proibizione dell’adulterio e l’omosessualità maschile; un uomo deve “giacere con la moglie” e non con la moglie di qualcun altro né con un maschio.

La proibizione delle relazioni sessuali fra esseri umani (uomo o donna) e animali; la frase “e saranno un’unica carne” implica che il frutto della relazione sessuale deve essere la nascita di figli della propria specie in cui uomo e donna diventano “una carne”.

Il colore dell’arcobaleno cui questo precetto corrisponde è il blu poiché, analogamente al bianco, rappresenta la purezza; blu è il colore del cielo, ha sull’anima un potere lenitivo, simboleggia il raggiungimento della bontà e dell’amore, la sua natura ci infonde serenità e sospinge verso l’alto.

La seconda sefirà - la forza, in ebraico Ghevurà - è il segnale di divieto dell’uso errato della potenza e del potere. Poiché è D-o la fonte del potere, con il quale ha portato alla luce il mondo, Egli desidera che il potere sia usato solo in funzione della volontà divina. Perciò la seconda sefirà è legata alla legge che proibisce l’omicidio.

È interessante notare che questa legge ha la sua enunciazione nel versetto di Genesi 9, 6: chiunque sparga sangue umano ecc. e non dall’ingiunzione che si trova nei Dieci comandamenti: non uccidere. Il passaggio di Genesi è la formulazione vera e propria di una legge e non un semplice avvertimento su ciò che può accadere a chi uccide. È associata al rosso, il colore del sangue, il simbolo del potere quando compare sugli stendardi o gli emblemi; è il colore più caldo e si usa per indicare segnali di pericolo in situazioni d’emergenza come incendi o calamità simili.

Dall’unione di bellezza e forza ha origine la terza sefirà - la bellezza, in ebraico Tiferet - e corrisponde al busto nell’essere umano con gli organi che funzionano insieme in armonia. La radice di questa armonia è l’onestà e la sefirà la rappresenta in contrapposizione a tutti gli atti di furto, truffa e rapina, perversioni della bellezza - che traspare invece dalla qualità dei rapporti in cui esistono rispetto e considerazione - come gli atti sessuali illeciti lo sono dell’amore e, l’omicidio, della forza.

Quando Adamo ed Eva erano nel Giardino dell’Eden, avevano a disposizione tutto ciò che vi si trovava e questo iniziale diritto di proprietà fu in seguito suddiviso fra le diverse nazioni discendenti da Noè. Tuttavia c’era un’unica cosa che era stata loro proibita, cibarsi dall’Albero della Conoscenza del bene e del male che sorgeva al centro del Giardino dell’Eden: Voi non ne mangerete, poiché nel giorno in cui ne mangerete, morrete, aveva detto loro D-o. Nel momento in cui la prima coppia umana disobbedì, trasgredì il divieto di usare la proprietà altrui che sta alla radice del furto.

Sono state date molte interpretazioni in merito al significato del “frutto proibito” dell’Albero della conoscenza, su quale tipo di albero fosse e su quali furono i suoi effetti per l’uomo e la donna; ma il frutto proibito non aveva in sé il potere di causare un danneggiamento morale, né tantomeno rappresenta la colpa derivante dall’accoppiamento sessuale. Secondo la Cabala, Adamo ed Eva si resero colpevoli perché fecero uso di qualcosa che non gli apparteneva e la cui proprietà D-o aveva assegnato ad altri, ossia a se stesso.

Anche in questo caso il divieto di furto, truffa e rapina, non è legato alla legge dei Dieci Comandamenti che proibisce soltanto agli ebrei di rapire altri ebrei e di usarli come schiavi; deriva invece dal versetto di Genesi sopra citato.

Questa legge è associata al giallo, il colore del sole, fonte di ogni bellezza e metafora di gioia e felicità; simboleggia l’affrancamento da ogni angoscia o preoccupazione e il mondo come luogo di felicità come dovrebbe realmente essere.

Mentre le prime tre sefirot riguardano le relazioni che intercorrono fra gli esseri umani, e D-o soltanto nella misura in cui ci mostrano il suo interesse per la nostra condizione e il motivo per cui ci dà determinati comandamenti, le due successive sefirot - eternità, in ebraico Netzach, e gloria, Hod - ci indicano la via per trovare il nesso con il Divino e ci introducono in un’area che riguarda più specificamente la “religione”: sono collegate quindi al divieto di idolatria e blasfemia. D-o impartisce ai non ebrei l’ordine di non venerare altri dei in Genesi 2, 16: E D-o comandò all’uomo dicendo; la parola “comandò” significa - secondo l’interpretazione della Cabala - che, in quanto orgine di tutti i comandamenti, D-o è il solo a dover essere servito. La legge contro l’idolatria afferma la sovranità di D-o su tutto il creato e si esprime nella sefirà di eternità.

Analogamente la legge contro la blasfemia, che consiste nel maledire in nome di D-o, esiste per affermare l’amore divino verso tutte le creature. L’osservanza di questa legge suscita la nostra riconoscenza verso D-o e il creato, che ha il suo corrispettivo nella sefirà di gloria; il comandamento viene esplicitato in Levitico 24, 16 e si rivolge agli ebrei come ai non ebrei: e chi pronuncerà il Nome di D-o in modo blasfemo... straniero e residente.

La legge contro l’idolatria e quella contro la blasfemia operano nella stessa direzione e sono appaiate come le gambe che sostengono il corpo, poiché l’amore e la sovranità di D-o non procedono mai separati in nessun luogo e tempo. La prima corrisponde al porpora, colore regale, usato per indicare onore e ruolo elevato; è il colore del potere nel suo aspetto benefico in contrapposizione al rosso, che ne mostra la violenza. La legge contro la blasfemia è associata, secondo un procedimento analogo, all’arancione, più caldo del giallo ma meno del rosso; è il colore dell’amore protettivo, solidale, disinteressato e riconoscente e rappresenta aspetti diversi da quelli dei colori di cui è composto ma che non hanno la sua natura avvolgente.

La sesta legge noachica, la proibizione di cibarsi della carne di animali ancora vivi, a prima vista sembra molto diversa dalle altre. Gli ammonimenti contro il furto e l’omicidio sono legati a questioni che riguardano tutti da vicino, ma sembra poco realistico pensare che qualcuno arrivi al punto di cibarsi delle carni di un animale ancora in vita, almeno finché ha a disposizione il cibo normale. Tuttavia l’importanza del principio sotteso da questa legge non dipende tanto dalla sua violazione pratica. Anche se seguendo l’ordine delle sefirot si colloca al sesto posto, venne data per ultima all’umanità poiché, come abbiamo visto, prima del Diluvio era vietato cibarsi di qualsiasi tipo di carne. Dopo il Diluvio, D-o diede a Noè il permesso di mangiare carne ma a condizione che fosse di animali già morti. Le donne e gli uomini scampati alle acque erano stati mondati dalle colpe di violenta rapina e condotta sessuale illecita che avevano portato alla distruzione tutto il resto dell’umanità; così, la precedente proibizione di mangiare carne fu rimossa, ma soltanto se il farlo non portasse le tracce di quei crudeli peccati.

Cibarsi della carne di animali ancora in vita è un’azione che sta alla radice di ogni crudeltà ed egoismo. Nelle persone ci sono tendenze rapaci, il desiderio di carpire la vita e divorarla al fine di assicurare a sé la più completa indulgenza e dominio sugli altri. Il nesso fra il cibo e le relazioni sessuali è ben noto, e il mangiare carne in cui palpita ancora la vita è collegabile alla rapacità sessuale, quel genere di rapporto in cui non esiste contatto personale e amore ma che consiste nel “divorare” l’altra persona. La sefirà di Chesed, bontà, riguarda le relazioni sessuali e in particolare la loro qualità, il modo in cui i membri della coppia si relazionano l’un l’altro; la sesta sefirà è Yessod, fondamento, e corrisponde all’organo sessuale maschile, fautore e simbolo del rinnovamento generazionale nonché “fondatore” del temperamento e delle attitudini dei nuovi nati. Così, gli esseri umani dirigono le loro pulsioni sessuali al livello richiesto evitando di trasgredire, in qualsiasi modo e anche accidentalmente, la proibizione di cibarsi della carne di animali ancora viventi. È importante sottolineare che questa legge, e quelle sull’alimentazione in generale come si trovano per gli ebrei nella kasherut, è tesa ad elevare il livello spirituale e le sue ricadute sull’igiene alimentare ne sono solo una conseguenza.

A questa legge è associato il verde, il colore delle foglie e delle piante, che ne mostra il legame con la semina e l’origine della catena alimentare che è alla base di ogni forma di vita oggi e sempre; e come le foglie sono il simbolo del rispetto ambientale, così ci mostrano la via per moderare le passioni che altrimenti ci portano a devastazioni e distruzioni.

Anche se le Sette leggi non sono state date a scopo punitivo, non si potrebbe chiamarle “leggi” senza dei tribunali in cui possano venire ribadite quando è necessario e che ne garantiscano l’applicazione. Si afferma così la necessità di istituirli con il settimo comandamento, secondo l’ordine che ne dà la Cabala, che ha origine dalla stessa fonte da cui si deduce la sovranità di D-o proibendo l’idolatria. Abbiamo già detto sopra che i saggi del Talmud interpretano la parola “comandò” del versetto 2, 16 di Genesi (E il Signore Iddio comandò all’uomo) come ingiunzione a difendere le leggi con mezzi idonei, ovvero nominando tribunali appositi. Il comandamento è rappresentato dalla settima sefirà, Malchut - sovranità -, che corrisponde ai piedi, la base su cui si regge tutto il resto del corpo umano compresa la testa. Inoltre tale analogia ci ricorda che, malgrado un re occupi un posto massimamente onorato e rispettato, la sua natura interiore deve essere tanto umile da servire il bene pubblico senza riguardo per il proprio tornaconto. Ed è questo il modo in cui deve essere gestita la legge, in piena verità e al solo fine di fare il bene dell’umanità secondo il desiderio del Creatore.

A questo precetto è associato il marrone, poiché è il colore della terra da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna; è simbolo di umiltà e viene scelto da coloro che vogliono passare inosservati; ha origine dalla miscela di tutti gli altri colori così come dalla mescolanza di tutti i vari elementi che rendono fertile il suolo. Anche se non è legato a nessuna emozione particolare, è però il punto di partenza di tutte le altre, di cui è l’unità di misura per quanto riguarda la qualità e lo spessore delle realtà che le sottendono.

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