Non bestemmiare

Capitolo 11

Non bestemmiare

Non bestemmiare

Dal punto di vista del monoteismo primitivo ebraico, sappiamo che sono i diversi appellativi del D-o unico ad aver generato le divisioni religiose. La varietà dei nomi divini ha fatto sì che a poco a poco la molteplicità prendesse il posto dell’unità, portando gli uomini a credere che questi nomi, i quali esprimevano soltanto i diversi attributi di un solo D-o, rappresentassero ciascuno una personalità distinta e indipendente, come accadde anche più tardi nel cristianesimo, quando i concili definirono la trinità... La tradizione ebraica, dichiarando legittime tutte le traduzioni del Nome di D-o63, riconduce l’umanità al suo punto di partenza; sotto le divergenze religiose, che essa rispetta ma tra le quali elimina ogni antagonismo, ristabilisce l’unità fondamentale. Niente di più indicativo a questo riguardo della legge sulla bestemmia che proibisce... di bestemmiare non soltanto i nomi del D-o di Israele, ma anche quelli delle diverse divinità del paganesimo nelle quali l’ebraismo insegna a ritrovare i frammenti sparsi della Verità divina (E. Benamozegh, op cit).

Il Talmud Sanhedrin fa derivare l’interdizione della bestemmia da Levitico 24, 15-16: Ogni uomo [‘ish ‘ish] che maledirà il suo D-o porterà la pena del suo peccato. Colui che bestemmierà il Nome di D-o sarà punito con la morte. Secondo la tradizione ebraica, la parola ‘ish (uomo) del testo indica che la blasfemia è proibita sia agli ebrei sia ai non ebrei.

La bestemmia è considerata un atto talmente sacrilego che il Talmud evita di usare persino questo termine, e la chiama eufemisticamente “la benedizione di D-o” per non esprimere direttamente l’idea che vi è insita; e la ritiene una trasgressione anche peggiore dell’idolatria. Mentre infatti l’idolatria è l’atto di adorare una creatura e pertanto di negare la vera esistenza del Creatore ma pur sempre per errore, la bestemmia è la consapevolezza della sua esistenza ma una negazione della sua grandezza e bontà come avviene, per esempio, quando la si pronuncia perché si viene colpiti da una disgrazia.

Lichtenstein, nel suo già citato The Seven Laws of Noah, sostiene che per l’uomo moderno, invece, il concetto di bestemmia risulta vago e incerto e riporta la definizione piuttosto esauriente che ne dà il Black’s Law Dictionary:

In linea generale, la bestemmia può essere definita come il parlar male della Divinità con l’empio fine di screditarne la maestà... Consiste nell’uso intenzionale di parole riferite a D-o, valutate e scelte in modo tale da pregiudicare o annullare la venerazione, il rispetto e la fiducia a lui dovuti in quanto creatore, capo assoluto e giudice del mondo. Implica il concetto di denigrazione quando sia diretta all’Essere Supremo, esattamente come la “calunnia” quando sia riferita ad un essere umano.

Tale citazione, sempre secondo Lichtenstein, ci fornisce una descrizione dell’atto in causa nel contesto della legislazione americana ed è tale da essere applicabile anche nel quadro della legge ebraica. Poiché non accenna, però, minimamente all’importanza che il pensiero ebraico attribuisce alla bestemmia, Lichtenstein sceglie di citare anche il testo che segue, tratto dalla Jewish Encyclopedia, che ci dà un’idea di quali siano le considerazioni di carattere filosofico e legale formulate dalla halakhà:

Bestemmia: espressione verbale offensiva o blasfema riferita a D-o. L’essenza stessa dell’atto delittuoso risiede nell’intento irriverente che si pone alla base dell’uso delle parole, e non implica necessariamente alcun atto profanatorio.

La legge ebraica trae origine dal caso del bestemmiatore, un uomo che faceva parte della multiforme folla che uscì dall’Egitto con i figli di Israele (Levitico 24, 10-23). L’uomo bestemmiò il Nome del Signore, imprecando; fu allora condotto fuori dal campo e fu decretato che quanti lo avessero udito avrebbero dovuto posare le mani sul suo capo, dopo di che tutta la comunità lo avrebbe lapidato. Il giudizio emesso in relazione a questo caso ha trovato espressione nella legge di carattere generale che leggiamo ai versetti 15-16.

Al di là del richiamo contro la bestemmia che troviamo in Levitico, nulla nelle leggi bibliche indica l’elemento costituente l’atto delittuoso né alcunché suggerisce che, per dimostrare la bestemmia, fosse necessario provare che il bestemmiatore aveva nominato il Nome di D-o. La Mishnà tuttavia, insistendo sul termine nokev, sostiene che il bestemmiatore non è colpevole se non quando pronunci il Nome di D-o (Mishnà Sanhedrin 7, 5). Il Talmud si spinge più in là, e considera crimine anche l’uso irriverente di qualsiasi parola indicante gli attributi sacri di D-o quali Santo o Misericordioso. Finché le corti ebraiche ebbero giurisdizione sulle questioni penali, la pena di morte fu comminata esclusivamente al bestemmiatore che avesse fatto uso improprio del Nome impronunciabile; mentre il bestemmiatore che avesse abusato degli attributi di D-o veniva sottoposto a pene corporali (Talmud Sanhedrin 56a). Secondo la tradizione talmudica, infatti, il Sacro Nome era inizialmente noto a tutti; solo successivamente ne venne limitato l’uso (Talmud Kiddushin 71a).

Persino al testimone in un processo per bestemmia non era permesso ripetere le parole precise con cui era stata formulata, che venivano sostituite con una frase convenzionale che le significasse. Rav Yeoshua ben Korchach prescriveva: Nel corso dell’interrogatorio del testimone si dovrà usare la parola Yose, quindi si dovrà dire “Yose colpirà Yose” per esprimere la bestemmia (Mishnà Sanhedrin 7, 5). Al termine del processo, la condanna a morte non poteva tuttavia basarsi esclusivamente su una tale testimonianza, per cui diventava necessario che uno dei testimoni impiegasse le parole realmente udite. La corte allora comandava che tutte le persone non direttamente coinvolte nel processo fossero allontanate, e il testimone principale veniva quindi così apostrofato: “Esponi letteralmente ciò che hai udito”. Alla ripetizione delle parole blasfeme, i giudici si levavano in piedi e si laceravano le vesti, segno tradizionale di profondo cordoglio e inoltre gli strappi non venivano più ricuciti, a significare la portata di tale dolore. Dopo che il primo testimone aveva reso così la sua testimonianza, quelli successivi non venivano più chiamati a ripetere le identiche parole, bensì si limitavano a dire: “Anch’io ho udito così” (ibid.).

In Levitico, la legge prevede testualmente che sia i cittadini stranieri sia quelli autoctoni siano punibili per il reato di bestemmia e la tradizione talmudica asserisce che costituiva uno dei sette crimini che ai noachidi era vietato commettere (Talmud Sanhedrin 56a)...

Sempre secondo il Talmud, l’usanza di lacerarsi le vesti nella situazione appena descritta risale al precedente biblico riportato in II Re 18, 17-37, dove si narra di Eliakim e altri che si strapparono le vesti all’udire la bestemmia di Ravshaké. Perché vi sia un giusto nesso tra questo racconto e la pratica di lacerarsi le vesti, il Talmud afferma che Ravshaké era un ebreo apostata (Talmud Sanhedrin 60a).

Lichtenstein si chiede anche quali possano essere i fattori psicologici che inducono un uomo a bestemmiare. C’è chi ritiene che la bestemmia ricada nella categoria della vendetta e che i meccanismi psicologici sottesi da entrambe siano simili. Infatti quando ci si sente danneggiati da qualcuno, è facile essere indotti a imprecaregli contro oppure a maledirlao e, se il danno è grande, che insorgano desideri di vendetta non sempre soddisfacibili solo a parole; in casi estremi, chi è vendicativo può arrivare a uccidere il nemico. Questo è uno scenario immaginabile che riguarda però il piano dell’umano; tra l’uomo e D-o la cosa è un po’ differente. Ovviamente, non si può uccidere materialmente D-o e neanche colpirlo. Pertanto, la bestemmia è vista come l’espressione del desiderio di nuocere a D-o, perfino di cancellare la Sua esistenza o di ucciderlo.

L’essenza di questo problema si trova nel libro di Giobbe, che viene sospinto in uno stato d’animo che potrebbe portare alla bestemmia, dove si legge:

Questi stava ancora parlando, quando giunse un altro e disse: “Un fuoco del Signore cadde dal cielo; ha bruciato le pecore e i giovani e li ha divorati; sono scampato io solo per portarti la notizia”. Questi stava ancora parlando, quando ne giunse un terzo e disse: “I Caldei, formate tre schiere, si scagliarono sui cammelli e li rapirono. Hanno passato a fil di spada i giovani; sono scampato io solo per portarti la notizia”. Questi stava ancora parlando, quando giunse un altro e disse: “I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo in casa del fratello primogenito. Ed ecco un gran vento venne dalla parte del deserto e colpì i quattro angoli della casa, la quale cadde addosso ai giovani e li uccise; sono scampato io solo per recarti la notizia”. Giobbe allora si alzò, si strappò il mantello, si rase il capo, si gettò a terra e si prostrò: “Nudo sono uscito dal seno di mia madre e nudo ritornerò là. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia il nome del Signore benedetto!”. Malgrado tutto questo, non peccò e non appose colpa al Signore (Giobbe 1, 16-22).

Accadde un giorno che i figli di D-o vennero a presentarsi al Signore, e fra di loro venne anche il Satan a presentarsi al Signore. E disse il Signore al Satan: “Donde vieni?” e il Satan, rispondendo al Signore, disse: “Da un giro sulla terra e da percorrerla”. E disse il Signore al Satan: “Hai fatto attenzione al mio servo Giobbe? Non esiste uno uguale a lui: uomo integro e retto, temente del Signore e lontano dal male, egli è ancora costante nella sua integrità e tu mi hai spinto senza ragione a distruggerlo”. E il Satan, rispondendo al Signore, disse: “Pelle per pelle; tutto ciò che l’uomo ha, lo dà per salvare la propria vita. Però, se stendi la tua mano e tocchi le sue ossa e la sua carne, vedrai se non oltraggerà la tua faccia”. E il Signore disse al Satan: “Eccolo nella tua mano; però risparmiagli la vita”. Il Satan si partì dalla presenza del Signore e colpì Giobbe con un’eruzione maligna, dalla pianta dei piedi fino alla sommità della testa. Giobbe prese un coccio per grattarsi e sedette in mezzo alla cenere. Sua moglie gli disse: “Sei ancora attaccato alla tua integrità? Ribellati a D-o e muori”. Ma lui le rispose: “Tu parli come parlerebbe una donna perduta! Accetteremo noi il bene da D-o e non ne acceteremo il male?” (Giobbe 2, 1-10).

Esiste una preghiera ebraica in cui si benedice D-o per il male che ci dà come per il bene; inoltre si viene esortati, anche quando si riceve la notizia della morte di una persona cara, ad accoglierla con le parole: Baruch Dayan Emet (benedetto sia il Giudice di verità)64.

Dal libro di Giobbe si può inoltre evincere che è considerabile simile alla bestemmia, in quanto espressione di una fede incompleta in D-o, la nozione secondo cui ci sarebbero due poteri e due regni, quello di D-o e quello di Satana. Questo tipo di teologia nega che D-o sia l’unico Signore e Padrone di tutto e quindi il dominatore di Satana come di ognuno e di ogni altra cosa mentre nel libro di Giobbe, quando Satana vuole mettere Giobbe alla prova, prima di tutto chiede a D-o il permesso; d’altro canto, D-o pone a Satana condizioni ben definite comandandogli di non togliere al poveruomo la vita (Giobbe 2, 6).

Si è molto dibattuto se Giobbe fosse un ebreo oppure no. In ogni caso, argomenta Lichtenstein, si può presumere che gli aspetti psicologici che sottendono la bestemmia siano gli stessi per il gentile o l’ebreo mentre differiscono gli aspetti legali. Nel Talmud si trova in proposito un ampio scambio di vedute:

I nostri maestri hanno insegnato in merito al versetto Qualsiasi uomo che maledica il suo D-o porterà il peso del suo peccato…: “Che cosa si insegna con l’espressione qualsiasi uomo? L’inclusione dei pagani, per i quali è proibita la bestemmia come per gli ebrei…

“Allora (la proibizione della bestemmia per i pagani) si deduce da questo versetto? La si deduce, invece, da un altro e cioè dalla parola il Signore (Genesi 2, 16) che si riferisce alla maledizione del Nome divino”. Rabbi Ytzchak il fabbro rispose: questa frase [qualsiasi uomo] è necessaria solo per insegnare l’inclusione di appellativi che sostituiscono il Nome di D-o, e si insegna la barayta in accordo con l’opinione di rabbi Meir. Perché è stato insegnato: Qualsiasi uomo che maledice il suo D-o porterà il peso del suo peccato? Perché è scritto questo? Non è già stato detto: E colui che maledice il Nome del Signore, egli sarà certamente messo a morte? Poiché si dice E colui che maledice il Nome del Signore, egli sarà certamente messo a morte, potrei pensare che si condanna a morte solo quando si usa il Nome ineffabile; da che cosa so che tutti i sostituti [del Nome ineffabile] sono compresi [in questa legge]? Dal verso Qualsiasi uomo che maledice il suo D-o, quale che sia: questa è l’opinione di rabbi Meir. Ma i maestri sostengono: [la bestemmia] con l’uso del Nome Ineffabile è punibile con la morte, mentre con l’uso dei sostituti è oggetto di un avvertimento [ma non è punibile con la morte].

… rabbi Meishà ha detto: «Se un pagano ha bestemmiato usando appellativi sostitutivi del Nome Ineffabile, egli è, secondo l’opinione dei maestri, punibile con la morte. Perché? Perché è scritto come l’autoctono così il proselito della porta. Questo insegna che solo uno straniero della porta e un autoctono [un ebreo fin dalla nascita] devono pronunciare il Nome Ineffabile [perché siano passibili di pena di morte]; ma che il pagano è passibile di pena di morte anche se non usa il Nome bensì un suo sostituto».

Ora come interpreta rabbi Ytzchak il fabbro il versetto come l’autoctono così il proselito della porta? In base all’opinione dei maestri. Il versetto insegna che il proselito della porta e l’autoctono [sono passibili di pena di morte solo se pronunciano] il Nome con il Nome, ma per un pagano non è così [è cioè indifferente il Nome divino usato].

Perché la Torà dice qualsiasi uomo (ish ish)? La Torà usa il linguaggio dell’uomo comune (che tende alla ripetitività (Talmud Sanhedrin 56a).

Lichtenstein osserva però che un’altra è la differenza significativa tra la bestemmia sotto la giurisdizione noachica e quella ebraica, poiché nella prima si implica tutta una serie di concetti e direttive che non rientrano nella seconda. A tale proposito, riporta un brano di rav Margolioth:

Giustizia, bestemmia, idolatria... è sorprendente che non si faccia qui menzione del principale tra i principi, del più fondamentale tra i fondamentali: la fede nell’esistenza di D-o! Perché a prescindere dalla possibilità di considerare la frase dei Dieci Comandamenti Io sono il Signore tuo D-o alla stregua di un precetto positivo a sé stante come sostiene Maimonide... è comunque la fede in D-o che deve stare alla base di ogni precetto e di ogni proibizione... Si direbbe, quindi, che debba riconoscersi come parte integrante della legge sulla bestemmia (Margolioth Hayam. Mosad Harav Kook, Jerusalem 1958, vol. II, p. 18).

Secondo Lichtenstein, due sono gli aspetti della riflessione di Margolioth che meritano attenzione: il vincolo per il noachide di credere in D-o e la sua concomitanza con la legge sulla bestemmia. Per quanto riguarda il primo aspetto, sono molti gli autori che considerano premessa necessaria all’osservanza delle leggi noachiche la fede in D-o.

Qualunque cosa abbia a che fare con il buon senso e l’intelligenza innata, essa incombe sull’umanità fin dal giorno in cui D-o ha posto l’uomo sulla terra... Per quanto riguarda le Sette leggi che ne sono derivate grazie all’esegesi, non tutte in effetti hanno avuto bisogno di una rivelazione, come ad esempio l’obbligo di riconoscere il Signore, l’obbligo di obbedirgli e di farlo oggetto di culto, leggi che traggono tutte origine dall’intelligenza innata e, per esempio, quelle sull’omicidio ed il furto che sarebbero proibiti essendo questioni di intelligenza innata (Nissim Gaon, Introduzione al trattato Berachot. The Widow and Brothers Rom, Vilna 1900).

Anche il grande maestro Aaron Halevi di Barcellona concorda con il parere sopra esposto nel suo Sefer Hahinnuch. A questo punto però, prosegue Lichtenstein, bisogna chiedersi dove tale presupposto trovi collocazione nell’ambito delle Sette leggi visto che, per Nissim Gaon, la fede in D-o fa parte integrante delle Sette leggi e non ne è invece un’appendice indipendente in quanto, se le suddette leggi non ne avessero stabilito il principio, si sarebbe imposta comunque per deduzione logica. La risposta alla domanda di Lichtenstein la fornisce Margolioth: il presupposto della fede in D-o si trova nell’ambito della legge sulla bestemmia e non in quello dell’idolatria, come si sarebbe indotti a pensare. Questo perché si ritiene che nell’ambito della legge sull’idolatria rientrino le questioni teologiche dell’uomo in relazione alle cose del mondo, e che quelle in relazione al Divino rientrino nell’ambito della legge sulla bestemmia. Come mai? Perché si colloca la fede in D-o nel contesto di quest’ultima legge anziché collocare la legge stessa nell’ambito della fede in D-o? Perché, asserisce il Talmud Sanhedrin 58b: soltanto i comandi negativi – e non quelli positivi – sono enumerati tra le Sette leggi di Noè. Quindi, l’ambito legislativo che regola le questioni teologiche dell’uomo in relazione a D-o non rientra nel campo della fede, in quanto significherebbe attribuire a tale ambito un valore imperativo, ovvero im-positivo; e dunque, rientra nel contesto del divieto di bestemmia, che proibisce l’estrema delle condotte inaccettabili nei confronti di D-o.

Alcuni maestri fanno rientrare nell’ampio concetto di bestemmia anche la legge sul martirio, che abbiamo visto sopra, giungendo però alla conclusione opposta: e cioè che, avendo il non ebreo l’obbligo della Santificazione del Nome, avrebbe così quello di martirio nel caso fosse costretto a offendere il Nome di D-o. Secondo Lichtenstein: “È del tutto verosimile che il martirio rientri, insieme alla fede in D-o di cui rappresenta un’estensione, nell’ambito della legge sulla bestemmia”.

L’obbligo del martirio si estenderebbe dunque ai casi di trasgressione delle leggi contro l’idolatria, i rapporti sessuali illeciti e l’omicidio secondo Nachmanide, Rashi e Nissim ben Reuben, mentre Maimonide lo esclude tranne forse in caso di omicidio.

Un ultimo aspetto del rapporto dell’uomo con D-o, che va preso in considerazione nell’ambito della legge sulla bestemmia, è la preghiera. A questo proposito, Lichtenstein cita un responsum di rabbi Moshé Feinstein in seguito alla disputa sulla opportunità e costituzionalità di recitare preghiere non confessionali nelle singole classi delle scuole pubbliche americane:

In merito alla questione se il noachide sia tenuto a dedicarsi alla preghiera, è ovvio che non lo sia, in quanto tra i precetti del noachismo elencati in Sanhedrin 56 non vi è quello della preghiera, né essa viene menzionata da Maimonide.

Tuttavia, sul tema se una tale preghiera possa essere riconosciuta come mitzvà, è mia opinione che quando un noachide prega egli comunque si conquisti un merito, in quanto è scritto in Isaia: la mia dimora sarà proclamata casa di preghiera per tutte le genti e, secondo il commento di Rashi, non solo per Israele. Pertanto, mentre non gli è richiesto di impegnarsi nella preghiera, è ovvio che il noachide compie una mitvà ogni qualvolta prega. Se così non fosse, che senso avrebbe proclamare la Sua casa una casa di preghiera per tutte le genti?…

Penso, tuttavia, che il non obbligo alla preghiera sia limitato a quella periodica e non si applichi alla preghiera che nasce da uno stato di necessità… Non deve sembrare strano che quest’obbligo non compaia tra le Sette leggi: una tale preghiera è strettamente legata alla più elementare fede in D-o, da lui stesso data, e alla sua capacità di guarire gli ammalati. Trascurare di pregare D-o sarebbe indizio di mancanza di fede in lui e di fede invece in altre forze. Pur non essendo la fede in D-o menzionata tra le Sette leggi, costituisce decisamente un dovere per il noachide, perché quando le Sette leggi sono osservate senza tenere conto che, nella Torà, D-o comanda che siano osservate, allora non sono degnamente rispettate… Ne consegue che è assolutamente giusto che ogni supplica… sia rivolta a lui soltanto (Moshé Feinstein, Responsa Igrot Moshe, 1964, vol. III, responsum 25, pp 196-197).

Quindi, conseguentemente a quanto detto in questo paragrafo sulla bestemmia, i seguenti precetti possono considerarsi parte integrante della legge:

1. Riconoscere l’esistenza di D-o; precetto positivo 1.

2. Avere timore di D-o; precetto positivo 4.

3. Pregarlo; precetto positivo 5.

4. Santificare il Nome di D-o; precetto positivo 9.

5. Non profanare il Nome di D-o; precetto negativo 63.

6. Studiare la Torà, naturalmente con le restrizioni che abbiamo segnalato in precedenza; precetto positivo 11.

7. Onorare gli studiosi e riverire il proprio maestro; precetto positivo 209 (Talmud Hullin 92).

8. Non bestemmiare; precetto negativo 60.

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