pentiti

Tommaso Buscetta, Don Masino (13 luglio 1928 - 2 aprile 2000)

Tommaso Buscetta, conosciuto anche come Don Masino, fu di fatto il primo pentito della storia, un ruolo che prese con grande coraggio e una scelta che pagherà a caro prezzo. La sua famiglia, infatti, verrà sterminata dalla mafia. Si sposò molto giovane e per poter sostenere economicamente sé stesso, la moglie e i figli decise di entrare a far parte del mercato nero. Visse gran parte della sua vita come latitante, viaggiando in varie parti del mondo quali New York, Brasile, Messico e Argentina, tuttavia venne incarcerato diverse volte. Nelle lunghe sedute che fece con Falcone Buscetta svelò le gerarchie e il modo di agire delle cosche avversarie, poi anche quelle dei suoi alleati. Consegnò ai giudici Nino e Ignazio Salvo, poi Vito Ciancimino. Nel 1992, dopo che venne assassinato il parlamentare europeo della Democrazia Cristiana Salvo Lima, disse che "era uomo d'onore". In seguito, le sue dichiarazione puntarono sempre più in alto, fino a Giulio Andreotti che sembrò essere, a livello istituzionale, il riferimento più importante di Cosa nostra. Buscetta fu per gli ultimi quattordici anni della sua vita un cittadino americano quasi libero. Dopo avere testimoniato in Italia venne estradato negli USA dove ottenne la cittadinanza, una nuova identità e protezione, insieme alla sua famiglia, in cambio di collaborazione contro la mafia radicatasi negli USA. Dal 1993 beneficiò di un "contratto" con il governo italiano, reso possibile da una legge approvata da un governo presieduto da Giulio Andreotti, grazie alla quale ricevette un cospicuo vitalizio. A 72 anni d’età, ormai irriconoscibile a causa delle numerose plastiche facciali affrontate per sfuggire ai killer della mafia, morì a New York di cancro.


Pasquale Barra (18 gennaio 1942 – 27 febbraio 2015)

Grazie anche alle rivelazioni di Barra fu possibile il blitz del 17 giugno 1983 in cui vennero arrestati 850 presunti affiliati della Nuova Camorra Organizzata. Barra, al fine di ottenere una protezione in carcere, fornisce liste di presunti camorristi nel corso di 17 interrogatori.

Il pentimento di Barra apparve subito controverso. Nel corso delle indagini i giudici scoprirono uno dei tanti tentativi di estorsione da lui compiuti per approfittare della sua posizione di pentito. Barra aveva scritto una lettera ad un concessionario di Casoria, nella quale chiedeva 15 milioni di lire per non fare il suo nome nel corso degli interrogatori. In realtà quello di Barra non si può definire un vero pentimento bensì una semplice dissociazione da Cutolo per ragioni personali. Infatti Barra ha continuato a definirsi camorrista.

Barra è stato esecutore materiale di 67 omicidi di cui molti compiuti nelle diverse carceri italiane, dove ha soggiornato frequentemente dal 1970.

Antonino Calderone (24 ottobre 1935 – 10 gennaio 2013)

In seguito all'assassinio del fratello, che gli aveva consentito di essere di fatto un potente boss mafioso e di controllare gli affari catanesi, Antonino fu di fatto estromesso dagli affari della famiglia catanese. Dovette a breve fuggire dall'Italia e andò in Francia dove per qualche anno mise in piedi una piccola attività di lavanderia. Fu arrestato proprio in Francia e nel 1986, nel carcere di Nizza, dopo alcuni mesi di galera, decise di collaborare con la Giustizia e di sottoporre quindi al programma di protezione sé stesso e la sua famiglia. Fu tra i più importanti fornitori di informazioni sulla mafia catanese, in particolare sulle relazioni tra i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa e Santapaola.

Giovanni Falcone in persona si recò più volte nel carcere della Bouvette di Marsiglia per ascoltare le clamorose rivelazioni di Calderone, che riempirono 875 pagine di verbali e ricostruirono con dovizia di dettagli l'organigramma della "famiglia" di Catania, le modalità organizzative delle altre “famiglie” e delle “province” di tutta la Sicilia nonché i legami politici ed economici di Cosa Nostra e raccontò diversi efferati delitti. Tali dichiarazioni consentirono all'Ufficio istruzione di Palermo di emettere 160 mandati di cattura per omicidio e associazione a delinquere di stampo mafioso portati a termine nel maxi-blitz del 10 marzo 1988.

Nel 1989 Calderone venne ascoltato come testimone nel giudizio d'appello del Maxiprocesso di Palermo. Ai giornali Calderone, molto colpito dalla personalità e dignità del magistrato, dichiarò "Ho collaborato con Falcone perché è uomo d'onore."

«Signor giudice, non ho avuto il tempo di dirle addio. Desidero farlo ora. Spero che continuerà la sua lotta contro la mafia con lo spirito di sempre. Ho cercato di darle il mio modesto contributo, senza riserve e senza menzogne. Una volta ancora sono costretto a emigrare e non credo di tornare mai più in Italia. Penso di avere il diritto di rifarmi una vita e in Italia non è possibile. Con la massima stima, Antonino Calderone.»

Salvatore Cancemi (19 marzo 1942 – 14 gennaio 2011)

Nel 1976 Cancemi fu incarcerato per aver rubato un carico di carne a un macellaio che si era rifiutato di pagare il pizzo.

Cancemi fu coinvolto nei preparativi e nelle esecuzioni degli omicidi dei magistrati antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992. Fece da vedetta alla squadra che piazzò e fece esplodere la bomba a Capaci che uccise Falcone, sua moglie e tre uomini della sua scorta sull'Autostrada A29.

Il 22 luglio 1993 Cancemi si consegnò spontaneamente ai Carabinieri dichiarando che la mattina successiva avrebbe dovuto incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri, capomandamento di Santa Maria di Gesù, per poi raggiungere Bernardo Provenzano in una località segreta, offrendosi di aiutarli ad organizzare una trappola; l'informazione però venne considerata non veritiera dai Carabinieri, i quali erano convinti che Provenzano fosse morto poiché dopo un decennio la moglie e i figli erano tornati a vivere e a lavorare a Corleone, decidendo quindi di non sfruttare l'occasione. In seguito, Cancemi rese dichiarazioni sull'organizzazione delle stragi del '92 e '93, sulla trattativa Stato-mafia e sui rapporti dell'organizzazione con Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi.

Salvatore Cancemi ha reso noto che la Fininvest, tramite Marcello Dell'Utri e il mafioso Vittorio Mangano, aveva pagato a Cosa Nostra 200 milioni di lire all'anno. I presunti contatti, secondo Cancemi, dovevano sfociare in una legislazione favorevole a Cosa Nostra, in particolare al duro regime carcerario 41-bis. La premessa di fondo era che Cosa Nostra avrebbe sostenuto il partito Forza Italia di Berlusconi in cambio di favori politici.

Nonostante le condanne per aver partecipato a diversi omicidi, Cancemi venne scarcerato. Alla domanda sull'attuale 'pax mafiosa', Salvatore Cancemi ha detto: "Trovo questo silenzio più terrificante delle bombe".

Francesco Di Carlo (18 febbraio 1941 – 16 aprile 2020)

Di Carlo è entrato in relazione con la famiglia mafiosa di Altofonte negli anni '60 grazie al boss Salvatore La Barbera.

Divenne capo famiglia a metà degli anni 1970. Altofonte era parte del mandamento di San Giuseppe Jato, guidato da Antonio Salamone e Bernardo Brusca. Secondo il pentito Giuseppe Marchese, Di Carlo era un mafioso influente e un trafficante di droga connesso con i Corleonesi.

Nel giugno del 1985 la polizia trovò 58 chili di eroina in una consegna. Venne arrestato insieme ad altre tre persone. Nel marzo del 1987 fu condannato a 25 anni di prigione per traffico di eroina.

Nel giugno del 1996 Di Carlo decise di collaborare con le autorità italiane. Venne considerato come il "nuovo Tommaso Buscetta". Di Carlo fece i nomi di molti politici come membri di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Mattarella, il precedente presidente della Sicilia Giuseppe Provenzano e Giovanni Musotto.

Testimoniò anche a proposito dell'omicidio del giornalista Mauro De Mauro, che era stato rapito e ucciso dalla mafia nel 1970. Nel 2001 disse che era stato ucciso perché aveva appreso che uno dei suoi vecchi amici, il principe Junio Valerio Borghese, stava pianificando un colpo di Stato per fermare quella che era considerata la svolta a sinistra dell'Italia.

Angelo Epaminonda (28 aprile 1945 – aprile 2016)

Epaminonda era alla testa di un gruppo di fuoco composto da malviventi catanesi definiti gli "Indiani", divenendo il nuovo referente lombardo della mafia catanese.

Arrestato la prima volta nel 1980 per il sequestro dell'industriale Carlo Lavezzani ma assolto per insufficienza di prove, Epaminonda si diede alla latitanza perché le sue bische vennero smantellate dalle retate sempre più frequenti della polizia.

Dopo l'arresto, Epaminonda divenne il primo pentito di mafia a Milano. Infatti decise di confessare al magistrato milanese Francesco Di Maggio di aver ordinato o di essere stato complice di 17 omicidi, ricostruendone un totale di 44. Ha ammesso di aver gestito imponenti traffici di cocaina, in aggiunta al controllo del gioco d'azzardo e di alcuni casinò, ma ha sostenuto di non aver mai fatto vendere un solo grammo di eroina. Le sue rivelazioni hanno consentito ai magistrati milanesi di emettere 179 mandati di cattura, eseguiti nel corso di un maxi-blitz portato a termine dalla polizia il 19 febbraio 1985.

Il processo alla banda Epaminonda, che fu il primo maxiprocesso a Milano, si aprì il 23 febbraio 1987 e venne celebrato nell'aula-bunker adiacente al carcere di San Vittore a causa dell'alto numero degli imputati: i capi d'imputazione comprendevano i reati di associazione a delinquere, associazione mafiosa, omicidio, rapina, corruzione, estorsione, gioco d'azzardo e traffico di stupefacenti.

L'8 febbraio 1988 il processo si concluse con ottantasei condanne (di cui cinquanta all'ergastolo) e quattordici assoluzioni; i giudici, pur certificando il suo importante contributo alle inchieste antimafia, inflissero ad Epaminonda trent'anni di carcere, confermati sia in appello che in Cassazione.

Carmine Schiavone (20 luglio 1943 – 22 febbraio 2015)

Il 6 luglio 1991 viene arrestato per possesso illegale di armi e il 26 luglio ottiene gli arresti domiciliari. Il 21 novembre viene condannato a 5 anni di carcere per associazione mafiosa e lui si dà latitante. A maggio del 1993 diventa collaboratore di giustizia consentendo il sequestro di beni del clan dal valore di 2.500 miliardi di lire.

È stato il primo a rendere note con le sue dichiarazioni il traffico e lo smaltimento di rifiuti tossici e radioattivi nella zona della terra dei fuochi affermando nel 2013 di avere parlato delle vicende a una commissione di inchiesta nel 1997, il cui contenuto era ancora coperto da segreto di stato. Tali dichiarazioni furono desecretate nel novembre dello stesso anno, parlando anche di importanti coperture nell'apparato statale e del coinvolgimento di alcuni personaggi della massoneria in Italia, nella persona di Licio Gelli.

Schiavone ha dichiarato anche di aver fatto sì che, per fini elettorali e politici, il deputato Carmine Mensorio si adoperasse per far conseguire la laurea in medicina e chirurgia a diverse persone pur non in possesso di adeguata preparazione. Ha inoltre accusato alcuni esponenti delle forze armate italiane di reticenza e collaborazione con vari soggetti criminali.

Nel 2013 è uscito dal programma di protezione testimoni. In un'intervista al programma Le Iene confessa di aver ucciso personalmente 50 - 70 persone e aver commissionato oltre 500 omicidi.

Claudio Sicilia, il Vesuviano (5 febbraio 1948 – 18 novembre 1991)

Inizia a frequentare gli stessi bar dei malavitosi della Magliana, diventando una figura centrale nei rapporti tra la Banda e la Camorra.

In seguito al suo arresto per una questione di armi, nell'ottobre del 1986 decide di pentirsi e, grazie alle sue rivelazioni, scatta una gigantesca operazione di polizia.

Sicilia è anche il primo a parlare dei contatti della Banda con la Camorra, con gli ambienti dell'estremismo nero ed il primo a svelare i rapporti fra malavita e istituzioni.

Dopo quattro mesi di interrogatori quasi quotidiani, il 17 marzo del 1987 la Procura di Roma spicca ordini di cattura contro le persone chiamate in causa da Sicilia, in totale 91 tra membri della Banda, avvocati e professionisti vari. Il 28 marzo e il 1º aprile successivi, tuttavia, il Tribunale della libertà di Roma revoca l'ordine di cattura emesso dal Pubblico Ministero sulla scorta delle chiamate in correità di Sicilia; scarcererà inoltre circa la metà degli arrestati. Una decisione dovuta al fatto che il pentito "altro non era che una persona soggettivamente poco attendibile per i suoi precedenti, la sua posizione giudiziaria, la sua personalità e i suoi presunti moventi."

Testimonierà poi nel processo riguardante la strage del Rapido 904 del 1984 presentandosi nell’aula di Firenze in barella poiché si era dato fuoco nel carcere di Rebibbia: la strage di Natale secondo lui era stata voluta e organizzata da Cosa nostra.

Rilasciato e senza protezione da parte dello Stato, la Banda lo "condanna a morte": il 18 novembre 1991 in via Andrea Mantegna nella zona popolare di Tor Marancia due uomini a bordo di una moto lo intercettano, il passeggero scende e lo insegue mentre cerca di rifugiarsi in un negozio di scarpe uccidendolo con quattro colpi di pistola.

Leonardo Vitale (27 giugno 1941 – 2 dicembre 1984)

Nel 1960, all'età di diciannove anni, Leonardo Vitale venne affiliato nella cosca mafiosa di Altarello di Baida, che era guidata dallo zio Giovanbattista detto "Titta".

Il 29 marzo 1973 Vitale si presentò alla questura di Palermo, dove dichiarò che stava attraversando una crisi religiosa e intendeva cominciare una nuova vita; si autoaccusò quindi di due omicidi, di un tentato omicidio, di estorsione e di altri reati minori, fece i nomi di svariati mafiosi, collegandoli a precise circostanze, e rivelò per primo l'esistenza di una "Commissione", descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa nostra e l'organizzazione di una famiglia mafiosa. Le dichiarazioni di Vitale portarono all'arresto di quaranta membri della cosca di Altarello di Baida, sebbene la metà sia stata rilasciata qualche tempo dopo per insufficienza di prove. Lo stesso Vitale finì nel carcere dell'Ucciardone per le sue dichiarazioni, dove venne sottoposto a numerose perizie psichiatriche e dichiarato seminfermo di mente affetto da schizofrenia, venendo rinchiuso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina.

Nel 1977 Vitale finì sotto processo per le sue dichiarazioni insieme allo zio Titta e altri 27 membri della cosca di Altarello di Baida. Alla fine del processo però gli imputati vennero assolti per insufficienza di prove, tranne Vitale e lo zio, che ricevette una pena per omicidio e associazione a delinquere. La pena di venticinque anni di carcere di Vitale invece venne commutata in detenzione nel manicomio criminale, di cui però scontò soltanto sette anni.

Dopo essere stato dimesso dal manicomio nel 1984, Vitale venne ucciso una domenica mattina con due colpi di lupara alla testa sparati da un uomo non identificato che lo raggiunse all'uscita dalla chiesa dei Cappuccini di Palermo mentre era in compagnia della madre.

«Il mio crimine è stato quello di essere nato e cresciuto in una famiglia di tradizioni mafiose, e di aver vissuto in una società dove tutti sono mafiosi e per questo rispettati, mentre quelli che non lo sono vengono disprezzati»

(Leonardo Vitale)