Mi ha sempre affascinato la stravaganza, soprattutto quando è una quasi inevitabile espressione della follia interiore. E ci vuol poco a capire che PJ Murphy possiede queste caratteristiche, a cominciare dal sorriso che accarezza con delicatezza il mio essere in quel posto, col timore reverenziale e la timidezza che sempre emergono in situazioni nuove. Sarà il refuso di qualche mio disagio infantile a me ignoto.
Ero informato di tutto il "sui generis" che si respira in questa farmacia che farmacia non è più, ma non saprei come altro definirla. Di certo si tratta di un coacervo di tante cose, forse troppe, o forse no: libri, souvenir di dubbio gusto, cianfrusaglie e tutte quelle ampolle, piccole e grandi, proprio come descritte da Joyce. Ma è il profumo di limone che consente una totale immersione nello stato d'animo di Bloom e ti porta alla ricerca delle saponette che diffondono quell'essenza. Sì, perché non uscirei mai da questo bazar, da questo luogo capace di conservare miracolosamente il suo carattere originario, senza quella saponetta. Ho ancora tanti passi nelle scarpe per calpestare il suolo dublinese e, da qui in poi, lo farò con la consapevolezza rinfrancante di avere nello zaino un amuleto che possa quasi magicamente eguagliarmi, anche solo per quel briciolo d'imitazione, a un personaggio uscito dalla penna di un autore che, nel modo che solo uno scrittore sa fare, ritorna in quella Dublino alla quale non è mai stato particolarmente legato.
Contraddizioni apparenti che hanno il sapore del paradosso ed è qualcosa che anch'io conosco molto bene. Ragione per la quale mi lascio affascinare da questo strano custode fedele di un brevissimo tratto di letteratura che diventa potenza evocativa dentro e oltre il testo.
C'è profumo di limone qui, dove il farmaco smette di essere veleno e, nell'abbraccio di parole e di sguardi, diventa cura.
Goodbye PJ.