Sono passati solo due giorni ma i miei passi hanno già calpestato più volte O’Connell Street, maturando persino la pretesa, di lì a poco smentita, di poter camminare distratto. Un’occhiata al telefono per accertare il giusto procedere e improvvisamente inciampo tra il marciapiede e il suolo stradale: il mio piede sinistro mi avverte subito che, da lì in poi, il mio passo non sarebbe più stato agevole.
La mia meta era Grafton Street e poco m’importava di un leggero dolore che provocava una claudicanza tutto sommato piacevole, ben integrata in un contesto dove la diversità è percepita come un campo tempestato di tante varietà di fiori e piante.
Mancano pochi passi all’ingresso della via e già sento il ritmo incalzante di qualche musicista intento a proporre quello che, al momento, sembrava un tributo agli U2. Finalmente arrivo e, come usanza suol fare in mia presenza, la musica finisce. Guardo i due musicisti e spero riaprano le danze, quantomeno per far riposare il mio piede sinistro, prima di riavviarmi sulla più famosa via commerciale della città. Parte una ritmica folk che non mi dispiace affatto e attendo con impazienza che parta il canto: sono curioso di sentire da vicino il timbro di quella voce che da lontano poteva illudere della presenza di Bono. Il brano è molto bello e mi concentro per cogliere il significato del testo. The little things è il titolo e la storia d’amore che si racconta commuove. Faccio mio il monito sotteso che invita a cogliere nei piccoli gesti e nelle piccole cose il sapore vero delle relazioni umane. Adotto la canzone come colonna sonora di questa mia esperienza a Dublino, non fosse altro che due giorni più tardi, passando da quelle parti, sento riproposto quel brano quasi a mo’ di richiamo a qualcosa di simili a un Karma.
Di piccole cose era fatto anche l’allestimento con il quale i due musicisti promuovevano la loro discografia e un fitto calendario di concerti: una chitarra, alcuni strumenti ritmici abilmente suonati dal cantante e una leggera amplificazione. Il resto, tutta abilità!
La stessa grinta e abilità la ritrovo, un poco più avanti, in un giovane cantante che mi fermo ad osservare mentre si prepara per cantare I'm Yours di Jason Mraz. Compone un segmento ritmico con una piccola drum machine, lo mette in loop, così come fa con un riff di tastiera e uno di chitarra e poi parte, con una voce calda e un’abilità che fa arrestare i passanti: bimbi che ballano, anziani che guardano stupiti e donne che danzano tenendo fermi i piedi e roteando le spalle.
Insomma! Un altro modo di fare musica che buona parte dei cantanti italiani nemmeno è in grado di concepire … e mi dispiace.
Comunque, il piede fa ancora male!