In questo agile volume edito nel 2025 per Mimesis Edizioni, la prof.ssa Erminia di Iulio (Università degli Studi di Roma Tor Vergata / Università Pontificia Salesiana) ci offre una lettura della poesia greca arcaica alla luce dei metodi dell’epistemologia sociale, quella parte della filosofia che studia l’acquisizione e la trasmissione della conoscenza dal punto di vista dei suoi aspetti sociali. Il libro offre l’occasione di riscoprire i classici della poesia greca, a partire da Omero, con uno sguardo nuovo, calato nel mondo contemporaneo, allo stesso tempo accessibile a un pubblico ampio di lettori e appassionati che non necessariamente abbiano una formazione specifica sull’argomento, e di interesse per gli specialisti.
L’idea della contrapposizione tra la parola che realizza e l’esistenza di conoscenze non linguistiche è estremamente interessante: ci potrebbe dire di più sull’importanza di questa dialettica per la poesia greca antica?
Questo è forse l’aspetto che personalmente trovo più interessante perché apparentemente dissonante: da un lato, infatti, “conoscere” significa primariamente “aver visto”, “aver esperito” in prima persona, cosicché alla primalità della vista conseguirebbe un importante depotenziamento del linguaggio che rimane escluso dalla dinamica epistemica in senso stretto; dall’altro, però, le parole sono concepite come qualcosa di vivo e potente, uno strumento atto a manipolare (positivamente, ma spesso e volentieri negativamente) la realtà – uno strumento senza cui il passato e pertanto l’identità collettiva andrebbero perduti (dobbiamo sempre ricordare che la poesia greca arcaica si sviluppa in un mondo che è essenzialmente orale). La dissonanza è, quindi, come dicevo, solamente apparente perché in effetti, a ben vedere, è proprio la natura per così dire, ambivalente dello strumento linguistico che giustifica la primalità della vista e dell’esperienza diretta. Su questo sfondo si inserisce la figura del poeta “maestro di verità”: questi è infatti il tramite tra gli dei (che sanno tutto perché essendo ovunque vedono tutto) e i mortali e a tutti gli effetti il vero depositario del patrimonio socio-culturale collettivo.
Possiamo intendere la memoria come un atto di potere?
È una bellissima immagine! Direi senz’altro di sì, tanto più (ma non solo) in un contesto orale come quello della Grecia arcaico: senza memoria non ci sono né passato né identità – e dunque neanche futuro: il passato ci forma, ci rende quello che siamo e tramandandosi rende possibile il futuro. Teniamo presente che non a caso le muse sono, per i Greci, figlie di Memoria, che a sua volta è concepita come creatura divina. In questo senso, credo sia paradigmatica l’invocazione alle muse che nell’Iliade precede il celeberrimo catalogo delle navi. Qui Omero invoca le muse – che tutto sanno perché tutto vedono, essendo ovunque – affinché lo assistano nello sforzo di rammemorazione. Per l’aedo o il rapsodo che recita l’Iliade a memoria l’enumerazione delle navi e dei comandanti menzionati in quelle pagine doveva rappresentare un vero e proprio atto di forza!
Un aspetto certamente molto interessante è il rapporto tra Elena, il poeta e Odisseo: cosa lega Elena a queste due figure?
Si tratta di un aspetto che io trovo estremamente affascinante. Un fil rouge dell’Odissea è proprio il rapporto di prossimità che il poeta pare creare tra sé stesso e alcune figure, in primis appunto Odisseo ed Elena, che finiscono per essere veri alter ego di Omero – alter ego però decisamente ambigui. Tanto Odisseo quanto Elena sono infatti apertamente riconosciuti per le loro abilità manipolative – basti pensare alle cosiddette menzogne di Odisseo, notoriamente maestro dell’inganno. La stessa Elena nelle sue fugaci apparizioni (penso soprattutto a quella del libro IV) mostra di maneggiare con estrema disinvoltura lo strumento linguistico, che associa peraltro a potenti farmaci che condizionano profondamente la disposizione emotiva dell’uditorio – anticipando la celebre immagine del logos come pharmakon che il sofista Gorgia di Lentini tratteggerà (non a caso) nell’Encomio di Elena.
Con Senofane, l’attenzione si sposta dalla risposta alla sua ricerca?
Direi senz’altro di sì. Con Senofane l’intercessione benevola delle muse viene meno. Stando così le cose, l’essere umano si ritrova, per così dire, solo con la propria finitezza (finitezza di cui è peraltro sempre stato pienamente consapevole). Lo scenario che ne consegue non è però quello della rinuncia: piuttosto, l’essere umano individua un proprio campo d’indagine – oltre il quale non è più possibile spingersi – ma all’interno del quale si scopre indipendente e autonomo. Dal punto di vista concettuale, i semi della svolta “illuministica” dei sofisti sono stati così piantati.
Possiamo dire che con Parmenide la poesia diventi parte della argomentazione?
Direi forse il contrario. La modalità argomentativa di cui Parmenide è in qualche modo scopritore non poteva che emergere, in quel contesto storico, nella poesia. Come è stato mostrato da studiosi illustri, la prosa filosofica, che pure esisteva (pensiamo alla scuola dei Milesi e a Eraclito), non consentiva ancora il dispiegarsi di una vera e propria prassi argomentativa. Parmenide è allora il primo a non limitarsi a veicolare messaggi sottoforma di sentenze, ma a condividere con il pubblico (uditore o lettore che fosse) il proprio percorso argomentativo, le tappe della propria indagine. Con ciò, in effetti, dotando la filosofia di un suo proprio metodo (quello deduttivo).
Si può dire che durante il percorso di conoscenza offerto dal libro vediamo un movimento che dagli dèi e dalle Muse va verso l’uomo?
Assolutamente sì. L’uscita dal mythos e l’entrata nel logos sono segnate dal progressivo abbandono delle spiegazioni teologiche a quelle filosofiche. Il divino non scompare, ma certamente cambia forma: per Senofane parrebbe configurarsi come totalità assolutamente trascendente (nel senso di totalmente altra rispetto all’umano); per Socrate e Platone sarà qualcosa di ancora diverso. È indubbio però che la spiegazione filosofica si proporrà come alternativa alla spiegazione della teologia tradizionale.
Qual è stata la prima idea che ha mosso la scrittura del libro?
Come spiego nella Prefazione, un primo germe risale ai tempi della pandemia: in quel contesto di costante bombardamento di informazioni (le cui fonti erano peraltro spesso in contrasto tra loro), ho iniziato a interessarmi a temi di “epistemologia sociale”, dalla “epistemologia della testimonianza” alla questione dell’“autorità epistemica” e dell’“esperto”. Mi sembrava cruciale riuscire a poter dare una risposta (più o meno) chiara ad almeno alcune tra le seguenti domande: quando valuto e mi pronuncio sulla base di quanto ho appreso sulla base delle parole (autorevoli) di altri che statuto (epistemico) hanno le mie valutazioni? Come faccio a individuare l’esperto di cui posso fidarmi? Da queste domande, attuali e contingenti, sono arrivata, per quanto strano possa apparire, ai greci. In effetti, ed è quanto provo a far emergere dal libro, la preoccupazione per il fatto della comunicazione istruttiva, per, insomma, la trasmissione di informazioni e conoscenze tramite parole, è tratto caratterizzante la nascita del pensiero greco, ben prima della nascita della filosofia vera e propria.
È stato difficile rendere argomenti così complessi fruibili da un pubblico ampio?
Più che altro spero di esserci riuscita! Nel complesso, è stato estremamente stimolante. La difficoltà maggiore è stata quella di mantenere un equilibrio tra la “narrazione” e l’aderenza ai testi, con tutte le necessità che ne conseguono. Partire dai testi è imprescindibile, ma, al tempo stesso, obbliga a un confronto, per quanto asciutto, con la letteratura scientifica – confronto al quale non ho voluto rinunciare del tutto. Se tale equilibrio sia stato effettivamente garantito lo lascio decidere ai lettori e alle lettrici!
L’intervista è a cura di Francesca Salvatori, dottoranda in Latin Language and Literature all’Università di Durham (UK).