La brutale insensibilità del reale scempia l’uomo, che, conteso tra la razionalità della disillusione e la follia del sogno inattuale, si osserva allo specchio; le sue due anime sono corrose dal desiderio di controllare il flusso vitale, da cui sono, tuttavia, ugualmente estromesse: la razionale non riesce a dimostrarne la sua estraneità, l’emotiva a ricostituire in esso il sogno della bellezza sempiterna. L’esito violento è inevitabile, le due parti non possono coesistere: la morte è solo un annullamento che non ricompone nulla e sbeffeggia gli sconfitti, una sirena sanguinaria dal cui fascino la vita non può fuggire. Diana e la Tuda, il gioco perverso di Pigmalioni disperati di Pirandello, è un incubo dal quale nessuno riesce a salvarsi, nemmeno l’arte, al contempo innocente vittima che soffre e dea sadica che lacera le carni.
Diana e la Tuda è una tragedia in tre atti composta da Luigi Pirandello tra il 1925 e il 1926 e trasposta sulle scene nel 1927; la sua sceneggiatura è tanto complessa da averla allontanata dal gusto corrente della critica, che l’ha bollata come frutto deteriore del “pirandellismo”, l’ultima fase creativa della produzione del nostro, caratterizzata da un’estremizzazione dei temi abituali e da un’eccessiva eccentricità dei personaggi. Diana e la Tuda, pur edificandosi su un gioco di specchi e rimandi innegabilmente contorto, racconta con spietato cinismo le elucubrazioni dell’artista novecentesco, un Pigmalione sperso tra vanità demiurgiche e fattuale impotenza.
All’aprirsi del sipario tre personaggi si contendono il palco: Sirio Dossi, un uomo abbiente reinventatosi scultore ossessionato dalla velleità di modellare una statua perfetta (impresa terminata la quale si suiciderebbe), Tuda, un’ex-prostituta riconvertitasi a modella a pagamento, e Nono Giuncano, un vecchio artista che, disilluso, ha appeso il pennello al chiodo dopo aver speso tutta la sua vita per l’arte.
Sirio, il velleitario Pigmalione della vicenda, potrebbe condurre una vita agiata nell’ozio grazie alla ricca rendita concessagli dal padre, ma professa di voler stabilire un modello di bellezza che sfugga dal tempo edace: è l’antonomasia degli artisti ingenui del Novecento, obnubilati da un generico platonismo per il quale credono che l’arte possa ancora condurre alla perfezione delle idee. La vita è un eterno fluire, secondo Pirandello, e sottrarvisi significa morire: trasformare una donna in statua vuol dire costringerla a sfiorire.
E sfiorire è proprio il destino di Tuda, fragile fiore di porcellana: la sua psiche, quantunque nel primo atto possa sembrare coincidere con quella di una provocante vanesia, presto si disgrega, mostrando le sue vie più recondite. La ragazza, infatti, contrae matrimonio con Dossi: lei è invaghita dell’artista, ma questi non l’ama, vuole solo assicurarsi l’esclusiva sulla sua modella; il matrimonio non è consumato: per lo scultore Tuda è solo un pezzo di marmo. La modella, perciò, è tormentata da due desideri opposti ed ugualmente irrealizzabili: vorrebbe essere una statua perfetta per compiacere suo marito, ma non può, perché è materia viva che invecchia; vorrebbe rientrare nel flusso vitale, ma gli occhi di Sirio la oggettificano, esiliandola da esso.
Tuda, dunque, tenta una duplice ribellione, risultante in un duplice fallimento. Dapprima, quando una sarta sottolinea il suo anomalo dimagrimento e il suo precoce invecchiamento, palesando la sua caducità da statua di carne, in un impeto irrazionale, rende ridicoli con abiti sgargianti gli altri marmi nello studio, da lei invidiati perché eternamente giovani; il suo invecchiamento, d’altronde, è una gravissima ferita inferta all’arte: anche nel momento in cui questa si impossessa di un corpo vivo, non riesce a mantenersi eterna e sfiorisce al sopraggiungere dell’inverno. In seguito, esasperata dall’indifferenza emotiva di Dossi, si svende a un pittore volgare suo avversario: lungi da una liberazione e dal conquistarsi attenzioni, Tuda si imprigiona in una nuova statua, ancora più degradata perché frutto di un uomo senza alcuna profondità estetica.
L’unico artista che potrebbe aspirare a catturare la bellezza di Tuda, in realtà, è il vecchio Giuncano, che, fin dal primo atto della tragedia, intona un controcanto a Sirio e alla sua visione statica della vita: è, infatti, il suo doppio, un Pigmalione disilluso che, compresa la vanità del sogno artistico, si estromette dal flusso vitale per studiarlo come spettatore. Emerge, tuttavia, nel finale della tragedia come Giuncano, in verità, non abbia abiurato le sue velleità estetiche, che, pur volendo, non riesce ad estirpare dalla sua anima: è tardivo il suo innamorarsi di Tuda, ma inevitabile. La sensibilità superiore dell’anziano è confermata anche dalla stessa Tuda, che scocca l’unico bacio della tragedia, elemento cardine del mito ovidiano e immancabile in tutte le successive rivisitazioni, proprio sulla sua guancia, non su quella di suo marito, e che tenta di ritornare ad essere una donna reale per lui, come lei stessa asserisce.
Nell’atto finale della tragedia la situazione raggiunge le sue estreme conseguenze: Giuncano, allorché Tuda rivela il lato più perverso di Sirio, un cinico e deteriore esteta disposto a sacrificare la sua giovane modella pur di raggiungere il suo insano desiderio di perfezione cristallizzata, uccide il suo doppio, confermando l’intrinseca ambiguità dell’artista novecentesco, che convive con due pulsioni che non possono coesistere e che lo portano all’autodistruzione. Tuda, sconvolta dall’accaduto, perso il suo equilibrio, nonché la sua unica, seppur insana, ragione di vita, si abbandona alla morte delle passioni, sancendo la definitiva sconfitta dell’arte, il cui unico esito è il fallimento.
Tuda: Io, io sì, di tutto – perché non seppi essere quella per cui lui mi aveva voluto!
Giuncano: Cecità…
Tuda (indicando con terrore dietro a sé la statua): Quella! Quella!
Giuncano (c.s.): Cecità…
Tuda: Io che ora sono così: niente…più niente…
I prossimi articoli analizzeranno opere che, discostandosi dalla riflessione metafisica, resa inattuale da una società cinica e materialista, declineranno il mito di Pigmalione in brillante satira sociale.
L'autore
Daniele Maria Falciglia è nato a Enna il 24 ottobre 2005. Ha frequentato il liceo scientifico “E. Majorana – A. Cascino” di Piazza Armerina, dove ha conseguito il diploma nel 2024. Nello stesso anno è stato insignito dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dell’onorificenza di Alfiere del Lavoro per meriti scolastici. Dal 2024 è uno studente del Corso di Laurea in Lettere Classiche presso la Sapienza Università di Roma e frequenta il Collegio Universitario di Merito dei Cavalieri del Lavoro “Lamaro – Pozzani”.