L’arte è perduta, scomparsa: la promessa di perfezione classica è stata amaramente delusa, dissolvendosi nel caos del particolare; nel suo romanzo Le Chef-d’œuvre inconnu (Parigi, 1831) Honoré de Balzac si interroga su quale ruolo quest’ultima possa ancora ricoprire nella società parigina dell’800, sulle qualità ontologiche e metafisiche della materia e sulle pretese demiurgiche e poietiche dell’artista: quale occasione migliore di una rivisitazione del mito di Pigmalione, banco di prova per tutti coloro che si sono proposti di ragionare poeticamente sull’estetica?
Nel febbraio del 1832, così, Honoré de Balzac pubblicò il tassello filosofico più consistente e fortunato della Commedia umana, l’opera monumentale che progettò di comporre, un minuzioso campionario della società parigina del 1800. Gli intenti d’indagine della raccolta potrebbero riportare alla temperie naturalista, è indubitabile; è, tuttavia, importante sottolineare come Honoré de Balzac sia un autore molto distante dalla scuola di Émile Zola (1840-1902) e dalla letteratura dei Rougon-Macquart (1871-92): gli espedienti narrativi adoperati e la caratterizzazione dei personaggi immergono il nostro in un clima prettamente romantico-realista e, a tratti, decadente ante-litteram.
Il sipario di Le Chef-d’œuvre inconnu si apre sulla passeggiata del pittore Nicolas Poussin con meta l’abitazione del suo collega François Porbus, nella quale incontra un personaggio singolare, il borghese Frenhofer. Fin da principio un’atmosfera ovidiana evidente permea l’aria: Poussin si definisce sujet di Porbus, per poi presto accorgersi che il vero roi è Frenhofer, il Pigmalione (a tratti Orfeo) della vicenda. Questi spiega di essere stato un allievo del grande pittore Mabuse ed asserisce di aver dipinto un capolavoro senza eguali per cui ha impiegato gli ultimi sette anni della sua vita, ma di non reputarlo ancora completo. Tre mesi dopo, Poussin, tormentato dalla curiosità, convince la sua fidanzata Gillette, prima ritrosa, a posare per l’anziano artista e, in cambio, chiede di poter ammirare il quadro. Allorché, cionondimeno, ravvisa una crescente intesa tra Frenhofer e Gillette, ritira la sua offerta. L’anziano, tuttavia, per ringraziarlo, mostra a lui e a Porbus il suo capolavoro, da lui definito “pieno di vita”. Al momento del disvelamento dell’opera, però, i due amici vi scorgono un insensato caos; solo un dettaglio del quadro assurge alla perfezione paventata: un piede pennellato nella parte inferiore della pittura. Frenhofer, di fronte alle critiche mosse dai due giovani, si convince del suo fallimento e, di notte, si suicida.
A differenza di quanto sottolineato per la pièce teatrale di Rousseau e per il mito ovidiano, in questa rivisitazione non è presente alcun lieto fine e la morte si offre come unica soluzione al Pigmalione della vicenda. L’interpretazione del romanzo è quantomai controversa e complessa: il quadro che Frenhofer mostra ai suoi sodali è un’opera d’arte mancata, un’imperfezione che denuncia il fallimento di un’arte incapace di somatizzare il reale, o è un capolavoro che non riesce ad essere compreso, una Galatea che si ricongela nelle sue primitive fattezze marmoree alla vista di spettatori ciechi?
La critica avanguardista e contemporanea, suggestionata dalle attente letture di due celeberrimi pittori quali Cézanne e Picasso, sostiene che, in realtà, Frenhofer sia riuscito nella sua impresa, consistente nel vitalizzare la figura della donna, cogliendo la necessaria concettualizzazione e rarefazione della figura tipica dell’avanguardia. Questa lettura pretenderebbe un Balzac precursore dell’espressionismo e del cubismo, nonché acre esegeta del pubblico, massa volgare insensibile all’arte e disabituata alla perfezione. Pigmalione, perciò, non sarebbe uno sconfitto, ma un vincitore beffato, un uomo che, allorché si relaziona con il suo degradato pubblico, decade al suo livello e perde la sensibilità necessaria per apprezzare quella stessa arte che ha prodotto. La critica tardo-ottocentesca, dunque, crede che il Pigmalione balzacchiano sia un demiurgo, ma che, soffocato dalla degradazione dilagante, non riesca a persuadersi che Galatea sia di carne ed ossa e non più di marmo. Donde, l’arte sarebbe divina e gli uomini ciechi.
La critica tardo-romantica, per converso, sosteneva che il quadro mostrato da Frenhofer fosse realmente l’imperfezione reiterata svelata da Porbus e Poussin. Questa lettura, per quanto possa sembrare ingenua, in conformità con le idee di chi scrive, sintetizza meglio il messaggio comunicato da Honoré de Balzac: è difficile immaginare che uno scrittore che era solito comporre per il mercato e che è spesso didascalico volesse suffragare tesi avanguardistiche. De Balzac, perciò, sembrerebbe essere approdato alla sfiducia nell’opera d’arte e nelle capacità demiurgiche e poietiche dell’uomo: Frenhofer, nonostante abbia le qualità per essere uno scultore tanto raffinato quanto il Pigmalione ovidiano, muore sconfitto, poiché l’arte non è in grado di raggiungere la perfezione. Sfiducia nell’arte, in ultima istanza, e non nell’uomo-spettatore.
Quanto detto potrebbe sembrare in contraddizione con le asserzioni in merito all’arte preromantica di Rousseau. In realtà, non vi è alcun’incoerenza, poiché, ancorché i due scrittori risentano entrambi dello spirito romantico, sono vissuti in epoche diverse e lontane nel tempo più di cinquant’anni. L’arte preromantica positiva di Rousseau (che era anche fortemente influenzata dall’Illuminismo) si è evoluta in due filoni del romanticismo, realista e simbolista; Balzac, pur essendo esponente di punta del primo, esonda, talvolta, nel secondo, caratterizzato da sfiducia e atmosfere cupe. In particolare, non bisogna trascurare l’esperienza di vita di Balzac, autore impegnato a scrivere per un mercato volgare e spietato, la quale influì sulla sua visione della società. Non deve, in conclusione, sorprendere questa divaricazione di orizzonti.
Gli articoli successivi tratteranno di opere nelle quali sarà portato alle estreme conseguenze proprio il senso di alienazione dell’artista dalla società, sempre più insensibile e incapace di riconoscere la bellezza.
L'autore
Daniele Maria Falciglia è nato a Enna il 24 ottobre 2005. Ha frequentato il liceo scientifico “E. Majorana – A. Cascino” di Piazza Armerina, dove ha conseguito il diploma nel 2024. Nello stesso anno è stato insignito dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dell’onorificenza di Alfiere del Lavoro per meriti scolastici. Dal 2024 è uno studente del Corso di Laurea in Lettere Classiche presso la Sapienza Università di Roma e frequenta il Collegio Universitario di Merito dei Cavalieri del Lavoro “Lamaro – Pozzani”.