Pranzo di Natale

Che cosa metterà in tavola per le feste Babbo Natale, lassù nella lunga notte del Polo Nord?

Ci saranno il prosciutto al forno con la salsa di mirtilli, il salmone affumicato con l’aneto, le aringhe alla cipolla con il pane nero, i formaggi, lo sformato di patate e di rape rosse e per finire un bel glögi bollente per scacciare via il freddo… ma c’è da scommettere che eviterà lo stufato di renna… non sarebbe carino dopo tutto!

Chissà se i suoi elfi vanno pazzi per i dolci e si abbuffano di porridge di riso e joulutortut ripieni di marmellata…

Invece l’algida Regina delle Nevi si limiterà a sorbire una bevanda all’estratto di lichene che la mantenga giovane… forse.

I nani di Biancaneve saranno intorno al camino intenti a preparare croccanti mele caramellate e Cenerentola si ristorerà dalle pulizie natalizie con un bel tè di zucca e noci speziate.

Per la Bella Addormentata meglio un caffè forte al cardamomo, o rischia di finire a russare con naso nella zuppa di piselli.

Belle naturalmente si farà preparare un Büche de Noël decorato a dovere, mentre il celebre Sherlock Holmes sceglierà personalmente una grossa oca da mettere al forno rivelando insospettabili doti culinarie (ma senza, c’è da sperare, pietre preziose nel gozzo, questa volta!) finendo poi col tradizionale Christmas Pudding ben annaffiato di brandy come piace al dottor Watson.

Chissà se il Korov’ev di Bulgakov gusta pan pepato di Tula o preferisce il caviale con la vodka… di certo il gatto Behemot predilige la lingua salmistrata e lo storione in salsa di funghi, senza disdegnare l’anguilla al vino rosso.

Certo il Natale più memorabile sarà quello dell’avaro Scrooge, redento, come ormai non si usa più, dai tre spiriti. Il sigillo della sua conversione è proprio la cena di Natale a casa del gioviale nipote Fred: tacchino ripieno di castagne, dolce alla frutta con salsa di limone, biscotti allo zenzero…

Però… però, oggi che si può fare il giro del mondo in molto meno che in 80 giorni, mi commuove pur sempre il Natale descritto dalla penna magistrale di Pellegrino Artusi nei suoi Cappelletti all’uso di Romagna.

CAPPELLETTI ALL’USO DI ROMAGNA

Di Pellegrino Artusi

Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco:

– Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180

– Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta

– Parmigiano grattato, grammi 30

– Uova, uno intero e un rosso

– Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace

– Un pizzico di sale

Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera.

Se la ricotta o il raviggiolo (formaggio toscano, specie di cacio tenero, fatto di latte per lo più di capra, schiacciato, che suol mangiarsi fresco) fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riescisse troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e tagliatela con un disco rotondo con diametro 67 mm. Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed avrete il cappelletto compito.

Se la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell’acqua, gli orli dei dischi. Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini.

Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine.


A proposito di questa minestra vi narrerò un fatterello, se vogliamo di poca importanza, ma che può dare argomento a riflettere.

Avete dunque a sapere che di lambiccarsi il cervello su’ libri i signori di Romagna non ne vogliono saper buccicata (ovvero nulla), forse perché fino dall’infanzia i figli si avvezzano a vedere i genitori a tutt’altro intenti che a sfogliar libri e fors’anche perché, essendo paese ove si può far vita gaudente con poco, non si crede necessaria tanta istruzione; quindi il novanta per cento, a dir poco, dei giovanetti, quando hanno fatto le ginnasiali, si buttano sull’imbraca (si dice di cavalli che si ostinano a non andare avanti), e avete un bel tirare per la cavezza ché non si muovono. Fino a questo punto arrivarono col figlio Carlino, marito e moglie, in un villaggio della bassa Romagna; ma il padre che la pretendeva a progressista, benché potesse lasciare il figliuolo a sufficienza provvisto avrebbe pur desiderato di farne un avvocato e, chi sa, fors’anche un deputato, perché da quello a questo è breve il passo. Dopo molti discorsi, consigli e contrasti in famiglia fu deciso il gran distacco per mandar Carlino a proseguire gli studi in una grande città, e siccome Ferrara era la più vicina per questo fu preferita. Il padre ve lo condusse, ma col cuore gonfio di duolo avendolo dovuto strappare dal seno della tenera mamma che lo bagnava di pianto. Non era anco scorsa intera la settimana quando i genitori si erano messi a tavola sopra una minestra di cappelletti, e dopo un lungo silenzio e qualche sospiro la buona madre proruppe: “Oh se ci fosse stato il nostro Carlino cui i cappelletti piacevano tanto!” Erano appena proferite queste parole che si sente picchiare all’uscio di strada, e dopo un momento, ecco Carlino slanciarsi tutto festevole in mezzo alla sala.

“Oh! cavallo di ritorno”, esclama il babbo, “cos’è stato?” “È stato”, risponde Carlino, “che il marcire sui libri non è affare per me e che mi farò tagliare a pezzi piuttosto che ritornare in quella galera”. La buona mamma gongolante di gioia corse ad abbracciare il figliuolo e rivolta al marito: “Lascialo fare, meglio un asino vivo che un dottore morto; avrà abbastanza di che occuparsi co’ suoi interessi”. Infatti, d’allora in poi gl’interessi di Carlino furono un fucile e un cane da caccia, un focoso cavallo attaccato a un bel baroccino (veicolo leggiero a due ruote con un sedile senza spalliera da attaccarsi a un cavallo) e continui assalti alle giovani contadine.