Mi piacerebbe vedere tutti i video pubblicati sul blog, per osservare come hanno lavorato gli studenti e per dar loro anche la possibilità di valutare e valutarsi attraverso un sondaggio per eleggere il più originale e meglio costruito: già in Spagna avevo previsto questa possibilità e avevo comprato dei premi-ricordo della Miniestancia per i vincitori, tuttavia mi “scontro con la dura realtà” del pagellino di metà secondo quadrimestre e gli alunni,“sommersi” di prove oggettive da fare, nei loro pomeriggi di studio dedicano meno tempo alla realizzazione dei video. Cerco di concedere loro spazio durante le ore di laboratorio linguistico e multimediale, ma temo che non porteranno a termine i video e ciò mi dispiace, data la qualità e la quantità di idee che sto vedendo mettere in pratica.
Probabilmente questo progetto sarebbe stato interamente sostenibile se programmato per la fine dell’anno scolastico, tuttavia sono molto soddisfatta dei risultati raggiunti perché in realtà l’attività principale era quella di costruire insieme un blog e renderlo vivo attraverso post e commenti sull’esperienza di “contatto” tra alunni di classi diverse e con una cultura differente, studiata su libri di lingua e civiltà ma mai incontrata e vissuta personalmente: tale fase del progetto è stata caratterizzata da grande entusiasmo e partecipazione degli studenti, come è evidente dal feedback ricevuto nel blog.
Per rendere la valutazione anche un momento per ripensare a ciò che si è vissuto direttamente o indirettamente, realizzato, condiviso, prima invito gli studenti a partecipare ad un gioco chiamato “Il filo di Arianna”, in cui partendo da un cerchio finiamo legati dal filo di un gomitolo di lana che segna il cammino fatto e quanto nel nostro percorso abbiamo imparato insieme; poi spedisco via email una Ficha de Evaluación (Scheda di valutazione) della Miniestancia e di Aulas en contacto, utile per riflettere sui contenuti e le strategie didattiche utilizzate nell’intero progetto. Per redigere la scheda di valutazione dapprima scelgo il software QuizFaber, che dà la possibilità di creare test e sondaggi interattivi, ma poi per utilizzare meglio i risultati decido di usare due fogli di Excel che invio come allegati di un’email e che gli studenti mi inoltrano di nuovo, una volta compilati.
Dai risultati ottenuti, è evidente che il Project Work ha reso i processi di insegnamento-apprendimento più efficaci e orientati al raggiungimento effettivo dei risultati. Infatti, la maggior parte degli studenti ha considerato l’esperienza del blog in particolare e dell’uso delle nuove tecnologie in generale, come motivante e divertente, ha imparato i termini e le espressioni relative a tale campo semantico, ha scritto in spagnolo nei post e nei commenti, superando la paura di pubblicare (e quindi rendere visibile a tutti, compresa l’insegnante) un testo con errori. Inoltre, la realizzazione dell’intero progetto da una parte e della scrittura dell’e-portfolio dall’altra, hanno fortemente contribuito a farmi acquisire una maggiore professionalità, aiutandomi a sviluppare capacità progettuali, organizzative e comunicative, oltre che competenze digitali.
Pensando al lavoro svolto, posso affermare che inserendo i nuovi media nella didattica si può cambiare il modo di fare lezione da parte dei docenti e di apprendere da parte dei discenti perché si esce dalla monomedialità del libro a stampa per entrare nella multimedialità delle rete, dove ognuno può interagire con l’altro e con tutti, condividere materiali e lavorare in un unico ambiente, imparare per sé e per la comunità, dove il sapere non è trasmesso in modo frontale dalla cattedra ai banchi, ma elaborato e costruito insieme attraverso l’ascolto reciproco e il superamento di rigidi ruoli prestabiliti. Gli studenti di oggi, a causa delle molte sollecitazioni della rete e dei videogiochi, si sono abituati a prestare attenzione soltanto a ciò che veramente li colpisce, quindi è necessario che anche in classe i saperi vengano insegnati in modo diverso, imprevedibile, inaspettato, sorprendente e in questo le nuove tecnologie, cambiando il supporto materiale su cui i contenuti disciplinari si depositano, modificandone l’interfaccia, aiutano a coinvolgere fisicamente, cognitivamente, emotivamente gli allievi, cioè esaltano le potenzialità dell’apprendimento-in-azione, sui cui si basano già da tempo diversi metodi e approcci, da quello comunicativo all’integrato e al costruttivista, dal Learning-by-doing al Project Work, al Task based teaching.
Un contenuto su carta, e quindi prevalentemente scritto, cambia se viene rappresentato attraverso un video poiché combina un vero e proprio pluralismo di linguaggi: la parola (scritta, stampata, registrata), l’immagine (statica, animata, grafica, fotografica, televisiva, cinematografica), il suono (rumore, musica, canto), il corpo (prossemica, cinesica); di conseguenza, lo stesso processo di insegnamento è più efficace perché opera nel rispetto dei diversi stili di apprendimento.
L’unico svantaggio potrebbe essere il tempo, se a tali attività interattive non si dà il giusto spazio nella programmazione annuale, cioè le si continua a considerare un qualcosa in più (e soprattutto di categoria inferiore) alla lezione in aula.
Riguardo agli obiettivi che la scuola attualmente si propone, data la pervasività delle nuove tecnologie, dovrebbe modificarli per adattarsi ad accoglierle: così facendo avrebbe l’opportunità di costruire un Sapere e una Cultura che “parlano la lingua degli studenti di oggi” e sono pensati per gli studenti di oggi. Infatti, le tecnologie digitali hanno plasmato il cervello degli alunni che popolano le aule, i “nativi digitali” e, anche se ciò potrebbe sembrare un vero e proprio stravolgimento, in fondo non c’è niente di nuovo: ogni tecnologia genera dei modi diversi di conoscere, capire, interpretare, analizzare, percepire. Seppure con modalità totalmente nuove, si sta riproponendo una rivoluzione che ha caratterizzato ciclicamente la vita dell’uomo: si pensi per esempio al passaggio dalla cultura orale a quella scritta che si configura innanzitutto come passaggio dall’orecchio all’occhio, dall’udito alla vista, dal pensiero situazionale-concreto a quello logico-astratto, dalla ridondanza del discorso alla sua linearità e sequenzialità. Anche la scrittura è stata una “nuova tecnologia” perché offriva all’uomo un nuovo spazio dove immagazzinare le informazioni, gli consentiva di riporre le informazioni in un posto fisicamente al di fuori di lui e, allo stesso tempo, ne ha forgiato il pensiero e l’esperienza. Ciò che la scuola dovrebbe fare è cercare di educare i nativi digitali a vivere nel proprio tempo, quindi a sfruttare tutte le risorse fornite dalle nuove tecnologie per l’apprendimento ma contemporaneamente educandoli al rispetto di sé e degli altri, dei propri e altrui diritti e doveri. Ovviamente per farlo è necessario che il corpo docente in particolare e in generale tutto il personale scolastico sia pronto a cambiare modo di concepire il sapere, superi quell’atteggiamento che Maragliano chiama del “Vuoi mettere?!”:
«“Vuoi mettere?!”. È quanto regolarmente mi sento obiettare dal collega universitario. C’è bisogno di specificare che, in quelle due paroline, si cela tutto un altro discorso, fortemente critico nei confronti della mediazione di cui mi servo? Sì, ce n’è bisogno. Grosso modo, quel che mi si scarica addosso è un: “Vuoi mettere, tu che ti occupi di tecnologia, anzi – ammettilo – tu che dalla tecnologia sei occupato, per non dire ingabbiato, vuoi mettere quanto è più efficace e umana l’esperienza diretta, quella sprovvista di mediazioni, dove ci si guarda negli occhi, si dialoga, ci si confronta? Quando mai diventerà possibile fare tutte queste cose in rete? E se mai ci si dovesse arrivare, si sarà sempre distanti: docente e allievo. Come negarlo, allora? Un rapporto non comunicativo, tutto affidato alla macchina, non sarà mai educazione. Vuoi mettere l’insegnamento in presenza con l’apprendimento di rete?”. Non è facile dargli risposta, o, meglio, non è facile farlo utilizzando paroline semplici ed efficaci, come le sue. Questo perché l’organizzazione entro cui il mio obiettore opera, le mansioni che svolge, le relazioni che intrattiene hanno un così forte radicamento nella cultura di cui si fa portatore (o meglio, nella cultura da cui egli è portato, che è la cultura – come si diceva in tempi sospetti – dell’apparato ideologico dominante) da permettergli di non cogliere la mediazione sottostante: quelli di cui dispone sono, per lui, dati immediati, dati di fatto e fatti allo stato naturale, che gli mostrano, in tutta evidenza, che cosa sia insegnare e che cosa sia apprendere (e che, di conseguenza, gli mostrano anche che cosa l’uno e l’altro non siano). Il suo “vuoi mettere?!” equivale a un “non ha senso che io mi metta a fare il confronto”: questo non avrebbe senso perché tutto quel ch’egli pensa e dice, a proposito dell’insegnare e dell’apprendere, già di per sé qualifica un simile confronto come improponibile. E dunque il suo “vuoi mettere?!” è come un invito a me, perché la smetta. Ciò che lui non vede è che la tecnologia regge e media l’assetto del mondo in cui egli stesso vive: la tecnologia è la gabbia che dà senso a tutto ciò che fa, ivi comprese le opinioni di cui dispone e le obiezioni che mi rivolge. Anche lui è ingabbiato, ma la differenza è che lui la sua gabbia non la vede (e vede benissimo la mia), mentre io vedo bene la sua e la mia. Fosse solo questo, avrei vita facile, vedendo io più di quello che lui vede e potendogli, dunque, mostrare quel che non vede. Il fatto che rende tutto più difficile è che lui non sente il bisogno di uscire dalla gabbia: è il suo mondo, non ne conosce altri. La sua gabbia, ovviamente, è quella del libro a stampa, grande e insostituibile strumento di liberazione culturale, ma anche forma particolare del sapere e sua configurazione locale, sia in senso storico sia in senso materiale».
L’essere inseriti in un gruppo e il poter scambiare pareri con masterini e tutor, con chi condivideva la mia stessa esperienza mi è stato, oltre che utilissimo, di sostegno: a scuola, purtroppo, non ho trovato sempre appoggio per ciò che proponevo. Con mio grande rammarico, infatti, non sono riuscita a coinvolgere nell’esperienza del blog una classe: malgrado l’interesse iniziale mostrato dagli allievi di quella classe, lo sminuire l’importanza di tale progetto da parte di alcuni colleghi in presenza degli alunni, lo ha fatto lentamente scemare fino ad annullarlo completamente. Fortunatamente, il confronto positivo con i partecipanti al master, la soddisfazione di migliorare i processi di insegnamento-apprendimento, di accrescere la motivazione dei miei alunni e anche l’interesse mostrato da persone che sono state più o meno coinvolte nella Miniestancia e nel blog (dal preside ai segretari, da alcuni colleghi alla guida del viaggio e alla direttrice della scuola frequentata dai ragazzi), hanno contribuito a migliorare il mio modo di concepire le tecnologie per l’educazione.
Ho iniziato questo progetto pensando di poter arricchire, sviluppare, consolidare le mie conoscenze e competenze ed effettivamente così è stato non soltanto perché ho provato nuovi strumenti e risorse, ma anche perché è stato un continuo mettersi in gioco, riflettere, collaborare, crescere insieme, procedendo al di là di una prospettiva personale e limitata:
«Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è una enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili. Ma forse la risposta che mi sta più a cuore dare è un’altra: magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale» (Calvino, 1988, "Lezione americane", p. 120)