Se è vero che ogni uomo è, nei confronti dell’albero genealogico, come il punto centrale di una X sopra di cui si divarica il numero degli umani che lo hanno generato e sotto si estende il numero di coloro che da lui discenderanno, la nonna Giuseppina deve aver pensato ad una crescita esponenziale.
In realtà ben pochi dei suoi nove (o forse undici) figli contribuirono a tale sviluppo. E peraltro, come mia madre sosteneva probabilmente a ragione, essi furono più figli del caso e dell’ignoranza che di smanie dinastiche.
Di lei ricordo, durante le svogliate visite domenicali, il volto che rivelata una bellezza consunta trasmessa come un tesoro solo ad alcuni dei figli, lo stentato italiano e le dita dei piedi accartocciate dall’artrosi. Ma la cosa più spettacolare ed inquietante era il serraglio di quei figli non maritati che vivevano nella casa di Via Piandilucco: Luigi, con ambizioni di inventore di dischi volanti, Angela, una sorta di prototipo di zitella insoddisfatta e Annetta, alta come un soldo di cacio e ticchiosa.
Luigi era realmente l’incubo di mio padre: bevitore di vino e mangiatore di cose che all’epoca mi apparivano degne di un orco formato mignon, quali i granchi, non riuscì mai a stabilire un rapporto sensato con la vita. Basti pensare che nel pieno della seconda guerra mondiale pensò bene di recarsi liberamente in Germania, dove gli altri venivano deportati, per avviarsi a una improbabile carriera di regista cinematografico.
Gli altri fratelli di mio padre erano la sorella Vittoria, sposatasi con Fulvio Argento da cui ebbe una figlia, Daniela, e la più romantica e bella di tutti, Adalgisa, morta a ventiquattro anni.
Dei restanti tre (o forse 5), al di là di una morte in tenera età non ho notizie.