Mi è molto difficile scrivere.
Quando morì avevo quasi quindici anni e pochi giorni dopo il funerale mi comperai per novemila lire una chitarra con scandalo dei vicini ed anche un po’ di mia madre. Imparai a suonare discretamente e fui rimandato quell’anno in due materie in seconda Liceo Scientifico. Di converso non andai sulla sua tomba che dopo il matrimonio, a ventotto anni.
Potrei cominciare raccontando che arrivato a Genova smise di frequentare la scuola per fare il garzone di un odiatissimo macellaio cui rubò anche per vendetta del denaro nel cassetto. Così, dotato della licenza di seconda elementare, intraprese la scalata del mondo.
Cameriere in un ristorante, apprendista prima e operaio specializzato poi, combatté una eroica battaglia contro la fame. Quando andava a trovare in casa mia madre, veniva sbattuto fuori di casa dal nonno Pedrin che caricando la sveglia diceva: “dex’ue, quexi l’ua da anna’a a durmi” (traduzione: sono le dieci, quasi l’ora di andare a dormire), ma la mamma, affettuosa, gli appioppava due michette (panini) da mangiarsi tornando a casa. La fame era tanta che se veniva richiamato da mia madre nel corso della discesa delle quattro rampe di scale che lo portava al portone, veniva immancabilmente sorpreso con la bocca piena.
Nel corso della guerra, diviso tra il triplo lavoro per sopravvivere (a sera fabbricava vasi da notte e riparava manometri) e la Resistenza, sposò la mamma ed andarono a vivere in Via Rostan dove io nacqui parecchi anni dopo.
Lì fu certamente un periodo precario, la scala di corda sotto il letto per sfuggire alle retate dei tedeschi (anche perchè coinvolto con i partigiani), lo spezzone di bomba incendiaria che traversò tutto la casa di via Rostan creando un bel buco nel tetto e nel pavimento di graniglia, tanto mal riparato da essere visibile molti anni dopo.
Con un bel coraggio misero al mondo mio fratello che nacque nel ’45 con l’aiuto del forcipe.
Io nacqui sette anni più tardi, quasi un errore, dopo una sorellina abortita. Nel frattempo papà aveva messo su una piccola azienda metalmeccanica con due soci, Martelli, pittore dalla amante famosa (a ‘Cu rosa’ – la ‘culo rosa’) e Bascherini con la casa a Martina e la figlia mezza scema. Si trattava della ‘O.S.M.A’ in Genova Voltri sul greto del Leira.
Essa costò a mio padre molte cambiali, un sacco di impegno e, in definitiva, la vita.
A quarantanove anni fu colto da un infarto non ben identificato e, tornato a battere la mazza, fu ridotto da un secondo colpo ad una larva vagante per ospedali per tre anni, prima di morire.
Procedendo però per ordine, mio padre dovette far salti mortali nei primi tempi: orari impossibili, sabato e domenica a lavorare. Gli svaghi: quattro passi con il vestito buono ed i figli la domenica pomeriggio.
Poi le cose migliorarono: arrivò la macchina (una Fiat 1100), le vacanze estive in campagna (Masone, Acquabuona, Acquabianca) e l’operazione per sistemare qualche problema provocato dal forcipe a mio fratello Mauro.
La casa continuava ad essere una schifezza: niente bagno, il riscaldamento con stufa a carbone solo in cucina e, soprattutto, un freddo porco nelle camere da letto: quando pioveva la tappezzeria diventava bagnata e per infilarci in letto occorreva un coraggio da leoni ed almeno un paio di calzerotti.
Certamente era un uomo intelligente: creava piccole miniature di case in lamiera, scriveva poesie ed era uno stalinista convinto della bontà dell’unione sovietica, del PCI e delle cooperative rosse. Ci sono comunque cose strane: poco dopo la sua morte dovetti cancellare una registrazione di una sua poesia dal magnetofono ‘Geloso’. Non riuscivo a sopportare lo strazio.
Poi arrivarono i lavori importanti ed i soldi. Con essi comperammo la casa di Pegli in via Opisso. E con quei soldi mia madre, vendendo anche la sua casa di Multedo, riuscì a portarmi fino alla laurea.
Tuttavia una cosa mi ha colpito facendo questa raccolta: benché più ricchi di altri rami dell’albero non ho trovato foto di particolare bellezza e comunque nemmeno una immagine del matrimonio dei miei genitori.