IV CICLO
LA CREAZIONE DELLA TRIDIMENSIONALITÀ
LA CREAZIONE DELLA TRIDIMENSIONALITÀ
Il mondo dei vettori segue un formalismo differente rispetto a quello dei pixel:
utilizza un linguaggio di codifica diverso;
organizza le informazioni sullo schermo in modo distinto.
Nel caso dei pixel, tutto si basa sulla posizione di ciascun punto luminoso all’interno della griglia. Nei vettori, invece, si lavora con entità identificabili, che possono essere definite attraverso parametri di posizione e geometria. Questo tipo di descrizione si traduce in elementi base come:
punto;
linea;
segmento;
poligonale aperta;
poligonale chiusa.
Un sistema, quindi, più performante non solo nella fase di generazione degli oggetti, ma anche nelle successive trasformazioni. Una delle caratteristiche peculiari del mondo vettoriale è la possibilità di organizzare le informazioni in layer, ovvero strati con significato specifico. Sebbene il concetto di layer venga utilizzato anche in altri contesti, la sua origine è strettamente legata alla logica vettoriale.
Questa struttura a strati ha avuto un forte impatto anche nel pensiero architettonico contemporaneo:
i layer permettono di sovrapporre sistemi diversi con grande flessibilità;
ogni layer può essere ottimizzato indipendentemente, in base ai propri criteri;
diventano uno strumento utile per separare e gestire le varie componenti progettuali.
In architettura, infatti, i layer corrispondono spesso a diversi livelli informativi: il sistema strutturale, quello impiantistico, e così via.
IL LAYER ALLA BASE DI SISTEMI DINAMICI DI INFORMAZIONI:
Il concetto di layer, in una forma molto elementare, è il fondamento su cui si sviluppano, nel tempo, i sistemi dinamici di informazioni. Un esempio di sistema informatico che evolve direttamente dal mondo vettoriale è Rhino:
si basa su un processo generativo in cui le forme nascono da calcoli matematici → nurbs;
tutti gli oggetti che rappresentiamo vengono creati attraverso funzioni matematiche, mentre il mondo vettoriale tradizionale descrive semplicemente la posizione di certe entità nello spazio.
Anche se non percepiamo direttamente le equazioni che generano queste forme, esiste comunque una relazione, un "feeling" con la logica della loro costruzione.
Visual Scripting
In questo contesto si inserisce il visual scripting, che ha avuto una grande diffusione nei software. Un esempio emblematico è Grasshopper, plug-in di Rhino:
alla base c'è sempre una generazione matematica delle forme, ma resa accessibile e modificabile in modo intuitivo;
le equazioni non si modificano direttamente sulle singole entità, ma si interviene sulle ramificazioni delle relazioni tra i dati;
in questo processo, l’output di una formula diventa l’input per la successiva, creando una catena dinamica di trasformazioni.
IL SISTEMA DESCRITTIVO:
Le coordinate del sistema vettoriale sono 3 dunque avviane un salto dal sistema bidimensionale al tridimensinale.
Partiamo da un primo principio fondamentale.
All’inizio, nel sistema generativo, esiste solo il punto. Ma non lo dobbiamo immaginare come qualcosa di visibile: è un concetto astratto, una pura posizione nello spazio, quasi al limite dell'esistenza.
Ora, se a questo punto facciamo compiere un movimento, otteniamo una linea. Se poi anche la linea si muove, genera un piano. E se infine spostiamo il piano, otteniamo un volume.
Questo processo si basa su un concetto chiave: lo spostamento. È proprio attraverso lo spostamento che possiamo generare forme tridimensionali a partire da un punto.
E questi spostamenti si dividono in due grandi categorie:
La famiglia delle estrusioni, dove il movimento avviene in direzione perpendicolare rispetto all’oggetto o a una sua parte. In natura lo vediamo nel tronco di un albero che cresce verticalmente, o in meccanica con la pialla o i profilati metallici: si parte da una forma piana e la si estende nello spazio.
La famiglia delle rotazioni, dove invece il movimento ruota intorno a un asse esterno all’oggetto. Pensiamo al tornio: l’oggetto ruota e viene modellato grazie a questo movimento circolare.
Quindi è interessante notare come la costruzione del mondo 3D – e anche di quello vettoriale – si basi sempre su un’idea di spostamento.
E in fondo, queste due modalità – l’estrusione e la rotazione – rappresentano i due modi fondamentali attraverso cui un piano si trasforma in un oggetto tridimensionale.
Passiamo ora al triangolo, che ha un ruolo fondamentale.
Perché proprio il triangolo? Perché è la forma minima che permette a un punto di muoversi in tre direzioni e di chiudersi su se stesso. È una configurazione stabile e compiuta.
Ora, se aumentiamo il numero di movimenti, se cioè facciamo più passaggi, otteniamo forme più complesse: ad esempio un cerchio. Ma dal punto di vista strutturale non c’è una differenza profonda tra un triangolo e un cerchio: cambia solo il grado di complessità, il numero di segmenti che usiamo. Più passaggi = forma più densa e articolata.
Il triangolo, quindi, è sia una forma descrittiva sia una forma costruttiva: possiamo usarlo per rappresentare le superfici sia sullo schermo che nella realtà fisica. È l’unità base di moltissimi sistemi di modellazione digitale.
In più, il triangolo è anche la minima forma statica, e proprio per questo non può deformarsi: è rigido, stabile, e offre una base solida su cui costruire.
Quindi, in sintesi, trasmettere dati tridimensionali significa lavorare con punti, spostamenti e triangoli.
E sono proprio questi i tre elementi chiave che ci permettono di passare dal concetto alla forma, dal digitale al reale.
GENERAZIONE DI FORME BOOLEANE:
Nei sistemi 3D c'è anche un altro formalismo.
Formalismo di tipo scultoreo in cui si ragiona per masse solide, invece che movimenti di trasformazione.
Se nell'altro caso la costruzione è meccanica, in questo si tratta di costruzione scultoreo-plastico come nel mondo naturale.
G. Boole è stato un matematico dell'800, il quale creò un linguaggio binario.
Se pensiamo a due volumi o due masse: massa a e b in 4 casi:
Unione = A +B
Scavo = - B + A
Scavo = - A + B
Intersezione = - A - B
Creare forme più naturali e scultoree è più efficente tramite formalismi booleani che di tipo vettoriale basati su movimenti, traslazioni e rotazioni.
Riflettere sul mondo tridimensionale così come siamo abituati a vederlo significa ammettere che quella che chiamiamo percezione oggettiva non è affatto tale. Quello che consideriamo “oggettivo” nasce in realtà da molteplici motivi e condizioni, non è mai un dato assoluto.
Il nostro modo di comprendere e interpretare la realtà si costruisce a partire da diversi fattori, che non sono fissi ma cambiano nel tempo e nello spazio.
Per iniziare a ragionare sul concetto di tempo, può essere utile partire da un esempio semplice: immaginare come, nel Medioevo, ci si potesse accordare per fissare un appuntamento.
EPOCA MEDIEVALE: veniva dato circa in un luogo, in un momento determinato della giornata. Luogo e tempo hanno grande ambito di variazione.
EPOCA INDUSTRIALE: assoluta precisione oggettiva sia sul tempo che sul luogo.
EPOCA DELL'INFORMAZIONE: l'appuntamento nella nostra generazione è una negoziazione continua. Non si raggiunge fin quando i due sistemi temporali riescono a sovrapporsi.
I. I DUE SISTEMI SONO IN RELAZIONE ALLA CULTURA E ALLA TECNOLOGIA DEL MOMENTO.
Tempo e luogo nell'epoca medievale era localizzato in punti precisi. Nell'epoca industriale ha valori prestabiliti ed è scadito (come lo zooning). Nell'epoca dell'informazione è ubiquo.
IL TEMPO È LA PRIMA DIMENSIONE DELLO SPAZIO, non si da spazio se non si da tempo.
Immaginiamo di vivere in uno spazio a una sola dimensione, dove tutto esiste su una linea. Senza la possibilità di vedere oltre, l’unico modo per conoscere questo mondo è percorrerlo. Solo attraversando la distanza tra due punti e misurando il tempo impiegato possiamo descrivere quello spazio: è l’intervallo di tempo a darci la misura di quella dimensione.
I. Il tempo diventa così la prima dimensione conoscitiva e descrittiva dello spazio e anche la dimensione generativa. La linea è la minima entità spaziale.
LO SPAZIO È UN INTERVALLO PERCORRIBILE, quindi come un concetto che unisce spazio e tempo. Usare il tempo per descrivere lo spazio permette di superare il postulato di Euclide secondo cui "il punto non ha parti", avvicinandosi alla visione della fisica moderna, come nel caso del buco nero, dove massa e curvatura sono infinite e tempo e spazio si annullano.
II. Lo spazio e il tempo si generano insieme e sono tra l'altro governati da una relazione nota: 1s=300k Km che è la velocità della luce.
PUNTO È CIÒ CHE NON HA SPAZIO, NE TEMPO, non ha un intervallo percorribile. Come percepire una figura a tre dimensioni vivendo in un mondo a due? Immaginiamo un foglio di carta e tracciamo una linea retta T tra i punti A e B: per chi vive in 2D, quella è la via più breve, un intervallo che collega i due punti. Se iniziamo a curvare il foglio, T rimane sempre la stessa in lunghezza, ma assume forme curve pur restando in 2D. Però, se osserviamo il foglio da una terza dimensione, ci accorgiamo che esiste un collegamento più diretto: una nuova retta "t" che unisce A e B passando fuori dal piano, nello spazio tridimensionale.Così scopriamo che cambiando dimensione cambia anche il modo di misurare spazio e tempo: t è più breve di T e introduce una logica spaziale e temporale diversa, più efficiente per collegare quei due punti.
III. Non vi è uno spazio e un tempo assoluto ma ciascun sistema è spazio-temporalmente autonomo e dipendente dal sistema di riferimento usato.
QUATTRO DIMENSIONI
Il salto di dimensione è essenziale non solo per percepire un'altra dimensione, ma anche per comprendere meglio quella in cui si vive. Tuttavia, il salto non è solo un fenomeno percettivo: è il punto di partenza per capire le regole di sistemi diversi, con altri spazi, tempi e valori. Contrariamente a quanto spesso si pensa, la quarta dimensione non coincide con il tempo, ma rappresenta una dimensione geometrica superiore che amplia il classico spazio tridimensionale xyz. Possiamo immaginarla con un processo di traslazione analogo a quello descritto da Bernhard Riemann nell’Ottocento: così come traslando un quadrato otteniamo un cubo, traslando un cubo otteniamo un ipercubo a quattro dimensioni, che ha 16 vertici invece degli 8 del cubo di partenza.
Anche questo spazio segue le stesse logiche fondamentali:
Il tempo è la prima dimensione dello spazio.
Lo spazio è un intervallo percorribile.
Il punto non ha né spazio né tempo.
Ogni sistema inferiore è contenuto in uno superiore.
Da un sistema inferiore si può proiettare un sistema superiore.
Ogni sistema ha il proprio spazio e tempo, validi nel suo ambito.
Per capire davvero cosa sia uno spazio a quattro dimensioni, serve però aggiungere un'ulteriore riflessione, una settima formulazione.
IV. In ogni sistema di livello superiore coesistono infiniti sistemi di riferimento di livello inferiore.
QUAL È LA NAVIGABILITÀ PREVALENTE DI UNO SPAZIO A 4D?
Nello spazio lineare ci si può muovere solo lungo il binario. Nello spazio a due dimensioni ci si sposta su una superficie piana, mentre nello spazio a tre dimensioni si aggiunge la possibilità di salire e scendere, quindi di muoversi anche in verticale.
In uno spazio a quattro dimensioni, invece, la navigabilità avviene per salti: si può passare da un intero sistema tridimensionale a un altro. Non si tratta solo di spostarsi nello spazio, ma di cambiare sistema di riferimento, modificando insieme spazio e tempo. Il salto diventa così il modo naturale di muoversi in un mondo a quattro dimensioni.
V. La navigabilità delle quattro dimensioni è quella del salto.
Se Eisenman può essere considerato il riferimento per un'architettura fondata su vettori e layer, allo stesso modo Gehry rappresenta il punto di riferimento per un approccio basato su massa, traiettorie e collisioni, ovvero su un lavoro profondamente radicato nella tridimensionalità e nella manipolazione dei volumi.
Il suo metodo progettuale si articola attorno a sei verbi d’azione, che possiamo considerare come categorie operative utili per comprendere come egli interviene sulla materia architettonica:
Assemblare
Spaziare
Separare
Fondere
Slanciare
Liquefare
Per capire a fondo la poetica di Gehry, e in particolare il primo dei suoi verbi – assemblare – è necessario introdurre il concetto di imprinting.
Il termine viene dalla biologia comportamentale, in particolare dagli studi di Konrad Lorenz, etologo austriaco che osservò come i piccoli delle oche riconoscessero come madre il primo essere vivente visto alla nascita. Questo processo, chiamato imprinting, corrisponde a una sorta di impressione profonda e iniziale, che si fissa nella memoria e guida il comportamento futuro. In italiano potremmo tradurlo appunto come “impressione”, qualcosa che si imprime e che plasma la nostra percezione del mondo.
Nel caso di Gehry, l’imprinting risale all’infanzia e ha a che fare con la ferramenta del nonno. Da bambino trascorreva ore tra utensili, metalli, reti, oggetti semplici e materiali grezzi. Questo ambiente denso, disordinato e tattile è diventato parte fondante del suo immaginario progettuale. Non è un caso che molti dei suoi edifici sembrino nascere per aggregazione spontanea, per sovrapposizione di frammenti, per accostamenti arditi e apparentemente caotici.
Quell’esperienza precoce, quella memoria fisica e visiva, si è impressa nel suo modo di fare architettura e ha continuato a modellarne la poetica.
Dal '62 Gehry fonda il suo studio, lavora su volumi puri, influenzato dal minimalismo (es. Donald Judd).
Tra il 1968 e il 1972 inizia a deformare lo spazio e a sperimentare nuovi materiali.
La Casa di Santa Monica (1978) segna un punto di svolta: diventa laboratorio di sperimentazione, “paesaggio costruito” con materiali poveri.
Concetto di Cheapscape: rivalutazione estetica e sociale di spazi e materiali di scarto, assegnando dignità ai paesaggi informali e periferici.
Dopo aver assemblato, Gehry crea relazioni tra i volumi generando spazio.
Gli edifici diventano “motori di spazio”, parlanti e dinamici.
Esempio: Loyola Law School (1978-1991), dove l’interazione dei volumi crea piazze e spazi pubblici, con una logica di “zoning” e stratificazione.
Il passo successivo allo spaziare è il separare: tagliare, creare accessi e percorsi.
L’edificio diventa un corpo tranciato che articola lo spazio urbano.
Esempio: Edgemar Center (1984-1988), paragonato alla logica delle vie cave (percorsi scolpiti nel paesaggio).
Il separare permette di “vedere” e far emergere nuove relazioni spaziali tra interno ed esterno.
Qui Gehry utilizza operazioni booleane: i volumi si fondono e perdono i propri confini.
Unico materiale, unico colore → la forma diventa organica e continua.
Divide spazi serviti e serventi, lavorando su plasticità e comunicazione.
Esempio: Vitra Museum, Germania (1987-1989).
Gehry si ispira al futurismo: traiettorie, dinamismo, forze plastiche.
Gli edifici non sono solo contenitori ma esprimono tensioni e movimenti.
Esempi:
Walt Disney Concert Hall (1988-2003): superfici che slanciano, si irradiano.
Guggenheim Bilbao (1991-1997): simbolo urbano, ritorno alla monumentalità, ma con linguaggi industriali.
La fase finale: i volumi si sciolgono, si smaterializzano, si “liquefano”.
Non si percepisce più una forma netta → si crea un senso di trasparenza e dissoluzione.
Esempi:
DZ Bank, Berlino (1998-2000): uso di materiali leggeri, volumi che si dissolvono.
Progetto per Times Square (1997): rete metallica avvolgente, monumento smaterializzato, cheapscape reso monumentale.
Dignità estetica e sociale degli scarti e dei margini urbani.
Non più “poverismo” ma risignificazione creativa e critica della periferia.
Gehry lavora sul paradosso: materiali poveri → architettura iconica.