Heretical Machinism and Living Architectures of New Territories è un saggio visionario che affronta alcune delle sfide più urgenti e radicali della contemporaneità: la relazione tra architettura, ambiente, informazione e natura.
Attraverso l’analisi dell’opera di François Roche e del suo collettivo New-Territories, Di Raimo costruisce una riflessione che va ben oltre la critica architettonica. Il testo attraversa temi come l’ecologia, le tecnologie emergenti e le scienze cognitive, proponendo un nuovo statuto per l’architettura: non più oggetto, ma organismo vivente; non più prodotto, ma sistema informativo e biologico integrato.
L’aspetto più interessante dell’analisi è la capacità di tenere insieme rigore teorico e apertura sperimentale. Di Raimo non si limita a descrivere i progetti di Roche, ma li decostruisce, mettendone in luce la coerenza interna, i riferimenti culturali e il potenziale trasformativo. Ogni edificio diventa l’occasione per discutere i limiti del modernismo, la fine dell’autorialità, la crisi della forma canonica e il bisogno di pensare l’architettura come parte di un ecosistema complesso.
Il libro è diviso in tre capitoli principali, più una conclusione visionaria.
Nel primo si riflette sul ruolo delle macchine nell’architettura, non più intese come strumenti meccanici, ma come entità eretiche capaci di apprendere, reagire, ibridarsi con il corpo umano.
Il secondo capitolo mostra come l’informazione venga incorporata nella materia architettonica, generando edifici che vivono, traspirano, si disgregano e si rigenerano.
Il terzo propone una sintesi teorica: un’architettura nutrita da dati, energia e relazioni biologiche.
La conclusione, con il concetto di Gre(Y)en, è un atto poetico e politico: Roche ci invita ad abitare la tensione tra ecologia e disturbo, tra utopia e tossicità.
Una delle qualità più forti del libro è la capacità di anticipare una nuova etica del progetto. In un’epoca segnata da crisi climatiche, pandemie e trasformazioni digitali, questo libro suggerisce che l’architettura non debba più rappresentare il mondo, ma essere parte del mondo vivente, accettandone la complessità, l’instabilità e l’errore.
Capitolo 1 – Una posizione critica: dualità conciliabili tra macchina ed essere vivente
Il primo capitolo del libro si apre con una riflessione sul modo in cui l’architettura possa oggi essere pensata come un sistema vivente, cioè capace di reagire, adattarsi e trasformarsi, grazie all’integrazione tra tecnologia, materiali intelligenti e processi ambientali. Il punto di partenza è l’opera di François Roche e del collettivo New-Territories, che fin dagli anni ’90 propone un’architettura ibrida, radicale e provocatoria.
Al centro di questa visione c’è la convinzione che la tecnologia non debba essere neutra, ma avere un ruolo attivo, trasformativo. L’architettura diventa così una “macchina eretica”, che si oppone alla standardizzazione e cerca nuovi linguaggi, nuove forme di relazione con l’ambiente e con il corpo umano.
Tra i progetti discussi in questo capitolo, alcuni assumono un ruolo emblematico:
Aqua Alta (Venezia): un’installazione che non si limita a interagire con l’acqua, ma che la assorbe, la filtra e la rende parte del progetto stesso. L’edificio non è più oggetto, ma dispositivo.
I’ve Heard About: un progetto visionario in cui un robot costruttore (chiamato VIAB) interpreta il comportamento degli abitanti e costruisce architettura in tempo reale. L’edificio non è più progettato in modo chiuso, ma si genera e si trasforma nel tempo, in base agli stimoli ricevuti.
Il concetto di indeterminazione è centrale: il progetto non è qualcosa di totalmente prevedibile, ma è attraversato dal rumore, dalla casualità, dall’errore. Roche vede in questi elementi un valore positivo, una risorsa creativa.
Il capitolo si sofferma anche sul tema del rapporto tra biologia e macchina. L’autore richiama le scienze cognitive, e in particolare l’approccio cosiddetto “embodied” (incarnato): la mente e la cognizione non sono solo calcolo, ma dipendono dal corpo e dal contesto. In modo analogo, anche l’architettura deve incorporare il corpo e l’ambiente nei suoi processi progettuali.
Questo capitolo definisce i pilastri teorici del libro:
L’architettura non è più solo forma o funzione, ma sistema reattivo.
La tecnologia è materia attiva, non uno strumento passivo.
Il progetto è aperto, processuale, adattivo, come un organismo vivente.
La macchina e il corpo non sono in opposizione, ma in relazione continua.
Capitolo 2 – Incorporare informazione nel contesto
Il secondo capitolo entra nel vivo della pratica progettuale di François Roche e del collettivo New-Territories, mostrando come l’architettura possa assorbire informazione, materia vivente e dati ambientali per diventare un organismo radicato nel proprio contesto. Qui l’obiettivo non è più solo progettare un oggetto, ma attivare un processo, costruire una relazione simbiotica tra edificio, ambiente e corpo.
Roche lavora su architetture ibride, che si dissolvono nel paesaggio, cambiano forma, si degradano e si rigenerano. L’informazione – sia ambientale che biologica – viene incorporata nella materia stessa dell’architettura. I progetti non si impongono, ma si adattano, si nascondono, mutano nel tempo.
I’m Lost in Paris: una casa abitata da batteri, funghi e piante. La facciata viva trasforma l’edificio in un ecosistema. L’edificio non si mostra, ma si confonde con il paesaggio urbano.
Spidernethewood: un’architettura che si dissolve nel bosco. La costruzione si mimetizza, perde i suoi contorni netti e diventa parte dell’ambiente.
Mosquito Bottleneck: il progetto non costruisce solo muri, ma rende visibili elementi invisibili, come la diffusione delle zanzare. L’architettura diventa uno strumento per leggere il territorio e le sue criticità ecologiche.
Dustyrelief (Bangkok): un museo che attira la polvere della città con campi elettrostatici. Il materiale sporco diventa parte integrante della facciata. Una critica alla pulizia come valore estetico assoluto: lo sporco è forma, è dato urbano.
Un-Plug: edificio autosufficiente che si scollega dalle reti cittadine. È alimentato da pannelli solari, dotato di membrane sensibili. Un'architettura che non solo consuma, ma produce e gestisce le proprie risorse.
Hybrid Muscle: un padiglione che usa l’energia di un bufalo vivo per produrre elettricità. Una visione radicale di cooperazione tra specie, tra uomo, animale e macchina.
Mi(pi) Bar (MIT): l’urina degli utenti viene filtrata e riutilizzata. L’intimità del corpo entra nel ciclo ecologico dell’edificio. L’architettura assorbe il biologico e lo trasforma in sistema.
Questi esempi mostrano una tendenza chiara: Roche propone un’architettura che non rappresenta la natura, ma che si comporta come natura. Non simula la vita, vive. Gli edifici traspirano, mutano, si dissolvono, reagiscono.
Questo capitolo dimostra come Roche sposti l’architettura dal dominio della composizione a quello della biologia, costruire non è più disegnare forme, ma attivare ecosistemi.
Capitolo 3 – Verso un’architettura come sistema vivente
In questo capitolo, Antonino Di Raimo raccoglie e sintetizza i concetti sviluppati nei precedenti, per delineare con chiarezza la visione teorica alla base del lavoro di François Roche e New-Territories. Il punto centrale è che l’architettura, per Roche, deve essere concepita come un sistema vivente: non più oggetto, ma organismo. Non più forma da costruire, ma processo da innescare.
Questa architettura è:
autopoietica, cioè capace di auto-organizzarsi, evolversi, rigenerarsi;
reattiva, in costante relazione con stimoli esterni (clima, utenti, energia, corpi);
sistematica, perché integra materia, informazione e comportamento in una rete coerente.
L’idea è che materia, energia e informazione non siano ambiti separati, ma aspetti diversi dello stesso sistema architettonico. Questo implica una nuova metodologia progettuale, basata su:
strumenti digitali avanzati (simulazioni, algoritmi, automazione),
principi biologici (crescita, metabolismo, adattamento),
interazione costante con l’ambiente.
Roche non si limita a teorizzare queste possibilità: le mette in pratica, progettando edifici capaci di:
trasformarsi nel tempo,
autogestire le risorse (acqua, energia),
dialogare con l’utente attraverso interfacce sensoriali o attive.
Questo tipo di architettura non si “adatta” semplicemente, ma vive, perché reagisce, apprende, si modifica, come fanno gli organismi complessi.
Qual è il ruolo dell’architetto in tutto questo?
L’architetto, in questa visione, non controlla ogni parte del progetto, ma definisce le condizioni iniziali di un sistema che poi evolve da solo. Progettare diventa programmare comportamenti, disegnare interazioni, più che costruire oggetti statici. L’autore paragona il ruolo dell’architetto a quello di un “orchestratore” di relazioni, più simile a un biologo o a un programmatore che a un modellatore di forme.
Questo capitolo propone un ribaltamento radicale della disciplina: Roche non vuole solo cambiare l’estetica dell’architettura, ma il suo statuto ontologico. L’architettura, come la vita, è instabile, fragile, interconnessa. E il progetto, oggi, non può più ignorarlo.
Conclusione – Gre(Y)en
L’ultima parte del libro si chiude con un testo poetico e denso, in cui François Roche introduce il concetto di Gre(Y)en: un neologismo che unisce “green” (verde, ecologico) e “grey” (grigio, disturbato, inquinato). Questo termine non è solo un gioco di parole, ma rappresenta una sintesi esistenziale e progettuale della sua visione.
Roche rifiuta l’idea di un’architettura “verde” nel senso semplicistico e rassicurante del termine, quella dell’eco-sostenibilità standardizzata, delle certificazioni, delle foglioline stilizzate. Allo stesso tempo, non abbraccia nemmeno una visione fatalista o puramente estetica del degrado urbano. La sua proposta è più radicale: abitare la tensione tra ecologia e tossicità, tra il desiderio di rigenerazione e la consapevolezza del disordine.
“Gre(Y)en” è quindi una zona grigia tra utopia e realtà, tra tecnologia e natura, tra corpo e macchina. È lo spazio in cui l’architettura non si limita a rispondere ai problemi del mondo, ma li accoglie e li mette in scena, trasformandoli in narrazione attiva, in materiale progettuale.
In questa visione:
l’architettura non dà soluzioni, ma pone domande nuove;
non crea oggetti da contemplare, ma ambienti da abitare e attraversare con consapevolezza;
non cerca l’equilibrio perfetto, ma la frizione, l’ibridazione, il confronto con la complessità.
La conclusione, in fondo, è un invito a ripensare il ruolo dell’architetto: non più autore assoluto, ma agente dentro un sistema aperto, fragile, in evoluzione.
Punti focali della conclusione:
“Gre(Y)en” è un nuovo paesaggio tra naturale e artificiale, tra pulito e contaminato.
L’architettura deve accettare la contraddizione come condizione di progetto.
L’architetto non costruisce certezze, ma attiva domande e immaginari alternativi.
L’informazione e il disordine diventano materie progettuali, non ostacoli.
I capitoli precedenti avevano una struttura più analitica, infine vediamo un approccio volutamente più visionario, poetico e aperto: Roche non dà una risposta definitiva, ma lascia uno spazio vuoto — da abitare, appunto, con immaginazione e responsabilità.
^1 Antonino di Raimo, Heretical Machinism, disponibile su https://new-territories.com/00%20web%20pic%20shared/book/Heretical%20Machinism.pdf