Da Cuba a Berlino

Le sfide globali della coesistenza pacifica

L’INCONTRO CON GROMYKO Il 18 ottobre 1962, in piena crisi dei missili di Cuba, Kennedy incontra il ministro degli Esteri dell’Unione Sovietica Andrei Gromyko nello Studio Ovale della Casa Bianca | Public

Domain | Public Domain | Abbie Rowe. White House Photographs. John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston

di Veronica Stigliani

Furono gli anni della coesistenza pacifica con l’Unione Sovietica quelli in cui John Fitzgerald Kennedy occupò la Casa Bianca. Gli anni in cui le due superpotenze avevano scelto di riconoscere la reciproca legittimità e lo status quo in diversi teatri globali, Europa in testa, nel tentativo di scongiurare un confronto diretto. Nei fatti, però, quei tre anni furono i più caldi della Guerra fredda, caratterizzati da alcuni degli episodi più rilevanti del periodo: il fallito sbarco americano alla Baia dei Porci, la successiva crisi dei missili di Cuba, la costruzione del muro di Berlino, l’americanizzazione del conflitto in Vietnam. E il rapporto tra Usa e Urss fu competitivo anche nei Paesi in via di sviluppo, dall’America Latina, all’Africa, all’Asia, dove i due blocchi volevano espandere la propria sfera di influenza. 


La teoria della modernizzazione

Mentre la situazione in Europa si era cristallizzata a partire dagli anni Cinquanta, la politica estera di Kennedy si caratterizzò per il tentativo di ribadire la centralità statunitense nel resto del mondo, assicurando una particolare attenzione al problema del sottosviluppo. Per conciliare le due esigenze, l’amministrazione Kennedy costruì il rapporto con le aree sottosviluppate a partire dalla “teoria della modernizzazione”, delineata dal sociologo Walt Rostow (poi scelto come consigliere dal governo) nel testo Gli stadi dello sviluppo economico. L’idea era che gli Stati potessero raggiungere la modernità attraverso diverse fasi, e che il compito degli Usa fosse “indirizzare il percorso verso il modello capitalista e democratico per arginare il pericolo della deviazione verso il comunismo”, spiega a Lumsanews la ricercatrice dell’Università di Roma Tre Alice Ciulla. In America Latina Kennedy lanciò l’Alleanza per il Progresso, un programma di aiuti economici che, nelle parole del presidente, doveva essere “un esempio per tutto il mondo che libertà e progresso vanno a braccetto”. Tra gli obiettivi americani c’era anche quello di migliorare la propria immagine macchiata dall’imperialismo colonialista, per cui Kennedy promosse la formazione dei Peace Corps, giovani volontari da dispiegare nei Paesi sottosviluppati “per aiutare i poveri ad aiutarsi”. Inoltre, sottolinea Ciulla, Washington lanciò “progetti legati alla gestione delle risorse idriche e dell’agricoltura in Medio Oriente e in Indocina”.

  

Il fallimento del Vietnam

Ma proprio la gestione del Sud-est asiatico fu una delle questioni più controverse della presidenza J.F.K. Se il presidente aveva capito di dover accettare il neutralismo di alcuni Paesi, come fece con il Laos nel 1962, le sue scelte in Vietnam sono da molti considerate le radici del conflitto che si sviluppò nel decennio successivo. 

In Vietnam Kennedy “ereditò l’impegno dall’amministrazione Eisenhower e lo interpretò a suo modo”, spiega Ciulla. La teoria della modernizzazione applicata al Paese si tradusse nella creazione di “villaggi strategici” pensati per il benessere dei contadini, che in realtà venivano duramente sfruttati. La retorica di prosperità e sviluppo promossa da sempre da Kennedy svelava le sue contraddizioni, mentre il progetto vietnamita contribuiva “a radicalizzare i cittadini contro il governo” del presidente filo-americano Ngo Dinh Diem, rivelatosi uno spietato dittatore, assassinato in un colpo di Stato nel novembre del 1963. A descrivere la reazione di Kennedy alla notizia fu Arthur Schlesinger: “Senza dubbio si rendeva conto che il Vietnam era il suo grande fallimento in politica estera (...). Quando entrò in carica c’erano in Vietnam 2mila soldati, diventati 16mila durante il suo mandato. (...) Non lo vedevo così depresso dai tempi della Baia dei Porci”. 




“ICH BIN EIN BERLINER” Il 26 giugno 1963 Kennedy pronuncia davanti a 250 mila persone il celebre discorso alla Rudolph Wilde Platz. Le sue parole sono un messaggio di solidarietà ai cittadini di Berlino Ovest Public Domain | Robert Knudsen. White House Photographs. John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston 

Cuba, la spina nel fianco

Era stato il fallito sbarco degli esuli anticastristi a Cuba, organizzato nell’aprile del 1962 da Kennedy per destituire Fidel Castro a convincerlo a optare per un approccio più morbido verso le regioni sottosviluppate. D’altro canto, era stato lo stesso tentativo di invasione dell’isola a preoccupare tanto Castro quanto l’Urss di Nikita Krusciov. Washington aveva già imposto nel febbraio del 1962 un embargo commerciale su Cuba, che chiedeva l’intervento di Mosca. L’11 settembre del 1962 la Russia inviava un comunicato agli Usa: “Se ci fossero normali relazioni diplomatiche ed economiche tra Cuba e gli Stati Uniti, Cuba non avrebbe bisogno di rafforzare le difese”.  Mentre l’America cominciava a sospettare l’invio di missili russi verso l’isola, Mosca avvertiva gli Stati Uniti che avrebbe risposto a un eventuale attacco militare americano. Il mondo guardava con il fiato sospeso alla crisi dei missili: la competizione tra le due superpotenze minacciava di diventare aperto scontro. Forse anche nucleare. Il 14 ottobre gli aerei U-2 americani tornavano dall’isola con le foto che dimostravano la costruzione di siti militari sul territorio. Iniziavano giorni di apprensione dentro gli apparati statunitensi, divisi sul da farsi: attaccare o negoziare. “Non rischieremo prematuramente o inutilmente una guerra nucleare mondiale in cui anche i frutti della vittoria sarebbero cenere nella nostra bocca. Ma nemmeno ci sottrarremo se ce ne fosse bisogno", dichiarò il presidente, che scelse poi il compromesso del blocco navale intorno all’isola per impedire l’arrivo dei missili sovietici.

Di tutte le letture della situazione presentate dall'Excom, il gruppo istituito ad hoc per gestire la crisi, Kennedy credette a quella che vedeva la mossa sovietica come “un test alla forza e alla credibilità americana”. Mentre la gestione della crisi dei missili viene ampiamente considerata un successo diplomatico dell'amministrazione Kennedy, che riuscì effettivamente a evitare lo scontro diretto, è vero anche che Washington tirò la corda, facendone una questione di reputazione. Come spiegò poi il fratello del presidente, Robert Kennedy, “nessuna delle due parti voleva una guerra, ma era possibile che una delle due facesse un passo che, per ragioni di "sicurezza" o di "orgoglio" o di "faccia", avrebbe richiesto una risposta da parte dell'altra”. Fu Krusciov, che non mancava di ricordare alla Casa Bianca la presenza di missili statunitensi in tutta Europa, a proporre a Kennedy - in una delle tante lettere scritte in quei giorni concitati - una metafora della contrapposizione in corso: “Non dovremmo tirare le estremità della corda in cui avete stretto il nodo della guerra, perché più tiriamo, più quel nodo si stringerà. E potrebbe arrivare un momento in cui quel nodo sarà così stretto che nemmeno chi lo ha legato avrà la forza di scioglierlo, e allora sarà necessario tagliarlo”. Alla fine Kennedy accolse l’offerta russa, grazie anche alla mediazione dell’Onu: Cuba non avrebbe ospitato i missili, a condizione che gli Usa assicurassero che non l’avrebbero invasa. In un accordo segreto, poi, Washington accettò di rimuovere i suoi missili da Turchia e Italia. 

La paura vissuta in quei giorni fu il carburante dei negoziati sulla limitazione dei test nucleari: il 5 agosto 1963 Usa, Urss e Gran Bretagna firmarono il Partial Test Ban Treaty, uno dei maggiori successi diplomatici dell’amministrazione Kennedy.


“Ich bin ein Berliner” 

Quando il 13 agosto 1961 l’Unione Sovietica decise di costruire il muro di Berlino, per impedire ai tanti tedeschi che scappavano dall’est della città di raggiungere la parte occidentale, Washington scelse di non intervenire, pur assicurando il fermo sostegno alla Germania ovest. D’altra parte la costruzione del muro “sollevava” l’amministrazione Kennedy, che poteva escludere un intervento militare russo nella città. Il muro, poi, era “il simbolo tangibile dei limiti del modello socialista”, sottolinea Ciulla. E Kennedy sfruttò l’errore sovietico nel suo viaggio in Europa del 1963, quando giunto a Berlino disse a una folla galvanizzata: “Ci sono alcuni che dicono che il comunismo è l'onda del futuro. Che vengano a Berlino”. Kennedy mostrò la sua vicinanza alla popolazione dichiarando “Ich bin ein Berliner”, io sono un berlinese. Sarà ricordato con questa espressione uno dei discorsi più celebri del presidente. Il suo tour europeo - che voleva mostrare la vicinanza degli Stati Uniti alla popolazione - continuò in Irlanda e Regno Unito per concludersi in Italia. A Roma fu accolto dal primo ministro Giovanni Leone e dal presidente della Repubblica Antonio Segni, che prima della visita aveva scritto a Kennedy che “agli storici legami” tra Usa e Italia si aggiungeva “un’alleanza senza precedenti nella storia". Al Vaticano J.F.K incontrò Papa Paolo VI, eletto il 21 giugno, e si recò poi a Napoli, dove insieme alle figure istituzionali fu accolto da una folla entusiasta. Lasciando il Paese il presidente promise: “L’unica scusa per la brevità del mio soggiorno è la certezza del mio ritorno”. Non ne ebbe il tempo.