LE INTERVISTE

Kennedy, un presidente (ancora) moderno

L’OMAGGIO DELLA NAZIONE Il feretro del presidente John F. Kennedy mentre lascia la Casa Bianca il 25 novembre 1963 Foto: Public Domain | Robert Knudsen. White House Photographs. John F. Kennedy Presidential Library and Museum, Boston

 di Lorenzo Sivilli

ANALISTA POLITICO USA Larry Sabato, politologo americano, professore all’Università della Virginia e fondatore del “Center of Politics” e “Crystal Ball” 

Sabato: Kennedy è ancora

un presidente moderno

“Credo che tra un secolo Kennedy sarà ancora una presenza importante nella politica e nei governi americani”. Larry Sabato, analista politico statunitense e professore all’Università della Virginia, è fondatore e direttore del “Center for Politics” e di "Crystal Ball”, sito leader nella previsione accurata dei risultati elettorali. E’ autore del libro Kennedy mezzo secolo dopo: la presidenza, l’omicidio, leredità di JFK, uscito nel 2013.


Sabato spiega a Lumsanews qual è stato l’impatto della figura di John Kennedy nella storia politica americana. 


Professor Sabato, John Kennedy è stato un presidente rivoluzionario e controverso. Qual era la percezione che i cittadini americani avevano di lui durante gli anni della sua presidenza?


“JFK era visto come un liberal, anche se non lo era particolarmente, in verità. Essendo stato eletto con solo un piccolo margine di vantaggio, era cauto e voleva essere rieletto. Il Congresso era molto più conservatore, anche se era fondamentalmente di composizione democratica; gran parte di esso, infatti, era costituito da democratici di destra provenienti da Stati del Sud. Verso la fine della sua breve presidenza, Kennedy iniziò a improntare la sua politica in favore dei diritti civili, il che significa che sarebbe stato fortunato se avesse conquistato molti Stati del Sud nelle successive presidenziali del 1964”.


Dopo la sua morte, sono emersi segreti e affari privati che hanno messo in cattiva luce la sua figura. Questo ha influenzato la considerazione del popolo americano nei suoi confronti?


“Quando le informazioni cominciarono a emergere, nel 1975, in effetti sconvolsero gli americani perché JFK era stato elevato a santità laica dopo essere stato ucciso in modo così efferato, seduto accanto a sua moglie. Ma questo sentimento svanì con il tempo e con il cambiamento della morale pubblica. Oggi non credo che le scappatelle sessuali abbiano influito molto sull'immagine pubblica di Kennedy”.


Nel suo libro lei fa riferimento al fatto che Kennedy sarebbe stato giudicato diversamente se non fosse morto tragicamente. Può spiegare bene perché?


“Dopo Dallas, per anni, fu impossibile dire qualcosa di critico su Kennedy senza essere pesantemente attaccati. Se non fosse stato assassinato, forse sarebbe stato giudicato come un presidente retorico, che aveva ottenuto relativamente pochi risultati per essere degno di quella retorica. Eppure quello spargimento di sangue lo ha trasformato in uno dei grandi presidenti del Ventesimo secolo. Ad esempio, è citato sia dalle persone nere che dai bianchi come leader del movimento per i diritti civili. In realtà Lyndon Johnson ha ottenuto molto più di Kennedy in quel campo, sfruttando l'assassinio di JFK come leva. Ma LBJ non è ricordato con affetto, soprattutto a causa del Vietnam”. 


Kennedy ha cambiato radicalmente la comunicazione politica. Quanto è stato determinante l'uso del mezzo televisivo? Come è cambiato da allora?


“Ci sono tre presidenti dell'era televisiva che si distinguono: Kennedy, Reagan e Obama. Probabilmente JFK è stato il migliore. Le sue parole potenti, rese tali perché scritte da Ted Sorensen per la maggior parte (oltre che da Schlesinger ovviamente), erano accompagnate da una pronuncia eloquente. Anche i miei studenti, nati in questo secolo, possono citare il discorso inaugurale di Kennedy, il discorso sui diritti civili e il discorso "Ich Bin Ein Berliner". Kennedy è stato il primo presidente televisivo; era fatto per la tv e la tv era fatta per lui”.


In che modo la sua politica innovativa ha influenzato le presidenze successive?


“La maggior parte dei presidenti ha citato Kennedy per dare slancio alle proprie proposte. Lyndon Johnson, ad esempio, lo ha fatto costantemente. Ronald Reagan era d'accordo con Kennedy sui tagli alle tasse e sull'anticomunismo, e lo citava spesso per corteggiare i colletti blu democratici. Bill Clinton era un ammiratore di Kennedy fin dalla giovinezza e si è ispirato al suo eroe giovanile”.


Secondo lei, l'eredità che ha lasciato Kennedy è ancora presente nella politica di oggi?


“Con il passare dei decenni, credo che la figura di John Kennedy sia passata alla storia. Tuttavia, ancora oggi resta l’eredità di un presidente fuori dall’ordinario, con un'eredità che comprende politiche come i corpi di pace, l'esplorazione dello Spazio e l'abile diplomazia come alternativa alla guerra. Ritengo che tra cento anni Kennedy sarà ancora una presenza importante nella politica e nei governi americani, soprattutto per l'ispirazione che ha fornito durante la sua breve vita e la sua presidenza. Kennedy è uno dei pochi presidenti che sembra ancora moderno, nonostante sia morto da sessant’anni. Mi aspetto che continui a esserlo a lungo”.



EX VICEPREMIER Walter Veltroni, politico, giornalista, scrittore e regista italiano primo segretario del Pd e già sindaco di Roma | Foto Ansa 

Veltroni: John e Bob sono stati incarnazione di un’utopia capace di diventare realtà” 

di Sofiya Ruda

“L’idea di un pensiero democratico che sia capace di applicare ricette radicali al cambiamento della società è la soluzione giusta”. Walter Veltroni, politico, giornalista, scrittore e regista italiano, ma anche primo segretario del Pd, ex vicepresidente del Consiglio e già sindaco di Roma, rievoca la figura dei due fratelli Kennedy. Veltroni ha appena pubblicato il libro “I fratelli che volevano cambiare il mondo. La storia di John e Bob Kennedy”.


A sessant’anni dalla morte di John Fitzgerald Kennedy qual è la prima cosa che viene in mente dell’ex presidente degli Stati Uniti?


“Inevitabilmente ci ricordiamo la morte, quella scena e quella sequenza filmata da una telecamera di otto millimetri di Abraham Zapruder che fissò il momento in cui Kennedy fu colpito. Ma quello è l’atto conclusivo di un periodo di grandi speranze e grandi sogni. Un periodo in cui la guerra sembrava lontana anni luce. Un periodo di profondi cambiamenti in cui Kennedy si batté soprattutto sul tema dei diritti civili e della lotta alla segregazione razziale. E poi la crisi dei missili di Cuba, risolta con una soluzione di pace non ispirata all’idea che la guerra potesse essere la risoluzione del problema. Trattò, discusse, trovò la soluzione usando la politica, che è un grande strumento di salvaguardia anche della sicurezza e dell’integrità delle persone. Io associo come immagine inevitabilmente quella del 22 novembre del 1963 a Dallas, ma come pensiero l’incarnazione di un’utopia capace di diventare realtà”.


Kennedy è il simbolo di un sogno e anche nel libro che lei ha scritto uno dei protagonisti è proprio il diario di un sogno. Secondo lei rappresenta il sogno americano?


“Rappresenta quell’idea del sogno americano non statica, dinamica. In fondo il tema della Nuova Frontiera alludeva proprio a questo, cioè ad una società sempre in movimento e alla conquista di nuovi spazi. Per lui il nuovo spazio era lo spazio. Negli anni ‘60 annunciò che entro la fine di quel decennio l’uomo sarebbe arrivato sulla Luna e poi è realmente accaduto. C’è l’idea di una società  che combattesse i conservatorismi e che si mettesse in sintonia con un cambiamento anche dal punto di vista del costume. Sono gli anni dei Beatles, della televisione, della Beat Generation. Il giovane Holden di Salinger è uscito proprio in quel tempo lì. Sono anni effervescenti in cui i due Kennedy, John e Robert, sono l’espressione di questa febbre di cambiamento che attraversa la società occidentale”.


Quali sono invece secondo lei gli aspetti più problematici della figura dei due fratelli Kennedy?


“Nel caso di John Kennedy l’errore più grande fu l’invasione della Baia dei Porci che peraltro era stata preparata dall’amministrazione precedente, ma che lui non ebbe la forza di fermare. Nel caso di Bob sinceramente non saprei dire, lui è stato veramente l’ultima grande speranza di quel periodo. Una speranza che si è poi rinnovata con Barack Obama che in qualche modo ha incarnato quel tipo di sentimento. Lo hanno ucciso quando stava per diventare presidente degli Stati Uniti e la storia della Casa Bianca sarebbe cambiata con lui”.


Il sogno americano è un concetto molto contraddittorio. Purtroppo molto spesso, come la storia ci insegna, il sogno si infrange. Alla fine i due fratelli Kennedy muoiono, muore Martin Luther King. Ma cosa rimane di questo sogno infranto?


“La convinzione che quelli che veramente cercano di cambiare le cose non sono i declamatori che agiscono con le idee più estreme, ma sono quelli che cercano di cambiare le cose realisticamente. I Kennedy hanno fatto questo e sono stati uccisi per questo, come Olof Palme, Yitzhak Rabin, Aldo Moro, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Tutti personaggi che cercavano di spostare il mondo un pochino più avanti. Chi invece lo vuole tenere fermo e vuole gestirsi un potere che evidentemente ha, capisce che sono quelle le persone che bisogna colpire. Per i Kennedy il sogno americano non doveva essere appannaggio solo dei ricchi e dei fortunati, ma estendersi a tutti gli strati della popolazione. Per loro il sogno americano era un progetto di giustizia sociale e di diritti civili”.


Nella sua carriera politica lei cosa ha attinto da questi miti della storia americana?


“Io ho studiato la loro vita, ho scritto vari libri su di loro, ho conosciuto molti delle loro famiglie e anche molti dei collaboratori di John e Robert. Mi sono convinto, ma lo ero fin da allora, che quel filone, cioè l’idea di un pensiero democratico capace di applicare ricette radicali al cambiamento della società  sia la soluzione giusta. Lo pensavo allora, lo pensavo da ragazzo e lo penso ancora adesso”.


Alla luce della difficile situazione internazionale che stiamo vivendo lei cosa si augura in generale e per l’Italia?


“Che si capisca che non esiste la soluzione di distruggere un Paese, un’identità, una storia, una nazione. Che i popoli devono convivere rispettando le loro diversità e che una società che faccia della contrapposizione dell’uno contro l’altro è una società destinata alla violenza e alla guerra. Mi auguro che più che le armi parli la politica”.




POLITOLOGO Gianluca Pastori, collaboratore ISPI e docente di Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l’Europa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore 

Pastori: “Capire come parlare

con un mondo nuovo

la grande sfida di JFK” 

“Kennedy è stato nella percezione internazionale un personaggio divisivo e che ha lasciato il segno”. Gianluca Pastori, collaboratore ISPI e docente di Storia delle relazioni politiche tra il Nord America e l’Europa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, spiega a Lumsanews il contesto internazionale che John Fitzgerald Kennedy visse durante gli anni della sua presidenza.


Quali furono le grandi sfide internazionali che John Fitzgerald Kennedy dovette affrontare?


“Kennedy diventa presidente in un momento in cui i rapporti fra Stati Uniti e Unione Sovietica nel quadro della Guerra Fredda stanno cambiando. Già negli anni precedenti, sotto l'amministrazione di Eisenhower, vi era stato un primo parziale riavvicinamento fra le due superpotenze, dopo la morte di Stalin e dopo le trasformazioni che  questo aveva portato in Unione Sovietica.  Capiscono che non possono continuare a ignorarsi sempre e non possono continuare ad assumere ancora a lungo l'atteggiamento ostile che avevano avuto fino ad allora. Nella seconda metà degli anni ‘50 si aprono alcune finestre di dialogo che però si chiudono relativamente in fretta. Nel 1959 le cose non sono più particolarmente rosee. Quando Kennedy viene eletto si trova di fronte alla necessità di capire cosa fare di questa Unione Sovietica. Continuare con la chiusura oppure riprendere il discorso che Eisenhower aveva avviato – e che si era interrotto – per cercare una nuova modalità di collaborazione. Questa è a livello globale la grande sfida che deve affrontare. D’altro canto Kennedy e la sua amministrazione devono tenere conto di una serie di situazioni contingenti. Il mondo e il sistema internazionale stanno cambiando. Sono gli anni della grande decolonizzazione, gli imperi europei stanno cessando di esistere e al loro posto stanno nascendo tanti Stati nuovi con cui gli Stati Uniti devono capire come relazionarsi. Questa è l’altra grande sfida che Kennedy deve affrontare: capire come parlare con un mondo nuovo”.


Kennedy era considerato l’uomo del dialogo. Alla luce delle guerre che sono in corso, come possiamo interpretare l’arte diplomatica dell’ex presidente statunitense?


“Era un uomo di dialogo, ma non soltanto quello. È anche il presidente che autorizza l’operazione della Baia dei Porci, quindi il tentativo di ribaltare con la forza il regime castrista. È il presidente che inventa, per così dire, le forze speciali da impiegare in Vietnam, quindi è anche un presidente belligerante, non è soltanto dialogo. La sua fama come presidente dialogante nasce da un episodio specifico, ovvero dalla crisi dei missili di Cuba, quando gli Stati Uniti si trovano di fronte al rischio concreto di avere armi nucleari sovietiche schierate a poche miglia dalla costa. In quel momento la strategia di Kennedy di parlare con l’Unione Sovietica, anziché ricorrere semplicemente allo strumento militare, si dimostra pagante, ma è comunque un parlare accompagnato da un uso della forza. Kennedy negozia con l’Unione Sovietica, ma allo stesso tempo schiera le navi della marina americana intorno a Cuba per porre in essere di fatto un blocco navale. Dietro al negoziato c'è una forza. Se c’è una lezione che potremmo imparare oggi dall’esperienza di Kennedy è questa: le due dimensioni della forza e della diplomazia non devono mai essere scollegate, la forza deve essere sempre al servizio di una visione politica”.


Cosa possiamo imparare invece dai suoi errori, se ce ne sono stati?


“Parlare male di Kennedy è sempre abbastanza difficile per tante ragioni. In un certo senso è diventato un’icona, negativamente è diventato diciamo così un santino che ne ha appiattito la complessità. Invece, era un presidente complesso, molto più sfaccettato di quanto lo si percepisca oggi. È difficile anche parlare di errori perché la politica kennediana non è mai stata veramente messa alla prova. Se dovessi individuare un errore, che però sarebbe stato difficile da evitare, è quello di impelagarsi nel pantano vietnamita. È Johnson che dopo la Risoluzione del Golfo del Tonchino porta veramente gli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, ma le premesse per quello che farà sono poste dall’amministrazione Kennedy”.


Kennedy in un certo senso rappresenta un simbolo del sogno americano. All’estero come lo percepivano?

“Kennedy è stato nella percezione internazionale un personaggio divisivo e che ha lasciato il segno. Per la classe dirigente sovietica il fatto che fosse giovane e portasse un certo tipo di messaggio non era un valore ma un disvalore, perché la cultura politica sovietica era basata sulla seniority. Per l’Europa, invece, sicuramente è stato un simbolo, soprattutto per i giovani europei dell’epoca che non avevano vissuto la guerra. Kennedy rappresentava un modello di novità e modernità americana. E lui gioca consapevolmente sul suo essere simbolo di novità. I collaboratori di Kennedy guadagnano subito il soprannome di “best and brightest”, i migliori e i più brillanti elementi di questa nuova America che si contrappone a quella un po’ polverosa e vecchio stile che l'amministrazione Eisenhower aveva rappresentato”. (s.r.)