Ringraziamo Matilda per averci inviato questo ultimo brillante racconto, tratto dal tema di Variazione su tema

Ultima variazione

CONFORTO

La cameriera punta nella nostra direzione con un passo che è a metà fra uno strascichìo e un rimbalzo, connubio quasi ossimorico; non riesco a osservarla senza esserne divertito. Dopo uno slancio particolarmente ardito, terminato con una specie di balzello di assestamento, la donna appoggia svogliatamente le due bionde medie sul tavolo straziato da centinaia di date e nomi incisi dai clienti. La ringrazio con un cenno e sposto il boccale alla mia destra per poter arrivare meglio al cestello con le arachidi, rovesciando così un po’ di birra su - cerco di decifrare il legno intagliato - Dado e Ginni, sembrerebbe. Una folata di vento mi raggiunge e alzo distrattamente lo sguardo per vedere entrare una giovane coppia. Il gelo sembra correggere per un secondo la piega presa dai miei pensieri, che si sono fino ad ora fastidiosamente attorcigliati in uno spazio troppo piccolo per permettere loro quella distensione e ossigenazione che li renderebbe forse meno ossessivi. Vediamo se dura. Per qualche secondo indugio sul viso dell’amico seduto al tavolo insieme a me. Sono contento non mi sia esattamente di fronte, così è più facile evitarne lo sguardo. Carlo non tenta di infrangere il silenzio, ma allo stesso tempo non sembra essere troppo a suo agio. Osserva la sua bionda media con un’intensità tale che mi fa pensare stiano avendo una conversazione, ne prende sorsi troppo generosi e poi tossicchia piano. Provo un moto di tenerezza per questo metro e novantacinque di giocatore di pallacanestro che fa del suo meglio per starmi vicino. Ormai si è abituato alle pause troppo lunghe, ai miei tic. Non che non lo mettano a disagio, ma resiste, fa quel che può. Quando va particolarmente male l’occhio mi balla senza tregua e non riesco a fare a meno di sbattere il piede contro al pavimento, ritmicamente; non vado nemmeno a tempo. Potessi se non altro far coincidere il tremolio impazzito della palpebra con il colpo del piede, forse allora sublimerei tutto quello che mi affligge in un unico motivo universale, accordandomi a una melodia cosmica segreta. Allora, magari, con l’ultimo battito spezzerei l’incantesimo, sarei libero. Ma non accade, non c’è nessun motivo universale se non la birra che parla e tutti i miei perché rimangono a sé stanti, incolti, non unificati, vaganti. Mamma mia, che lagna; sono una noia anche per me stesso. Torno a concentrarmi sulla giovane coppia che ora parla fitto fitto; sono giovani, forse poco più di vent’anni. Lei ride, spontanea e contagiosa, poi gli sfiora il braccio con le dita e fra le risate gli intima di smetterla, ripete che non riesce più a respirare, mentre lui evidentemente continua con l’imitazione di una conoscenza comune. Cerco di trovare un’ombra di compiacimento esagerato in lui che mi disgusti, ma in realtà sembra solo sinceramente deliziato dall’allegria di lei. Passo a lei, cerco qualcosa che stoni e distrugga quel quadretto, senza successo. Devo semplicemente accettare che esistono anche le coppie disgustosamente felici. Quasi penso a quanto la mente sappia essere una prigione e poi sogghigno fra me e me; che cliché. Il prossimo passo sarà una foto su Instragram con qualche malinconica citazione di un autore che certamente sarebbe molto stupito di vedersi a descrizione di un selfie, qualche autore che peraltro nessuno legge realmente; estrapolazioni di contenuto asistematiche e opportunistiche senza nessuna reale coscienza e conoscenza del contenuto. Ma comunque sia, basta con le polemiche. Non è colpa di nessuno se la mia ragazza è morta. Non morta morta, si intenda. Morta nel senso di scappata con un cinquantacinquenne coi capelli grigi e una cravatta vagamente assurda, rivelandomi che il figlio che porta in grembo, che credevo fosse il mio, avrà invece capelli grigi e sarà con ogni probabilità portatore di cravatte vagamente assurde. Come a dire che non è mio, per i più lenti di comprendonio. Mi sento tradito persino da quel bambino che fino al giorno prima, nei miei pensieri, aveva gli occhi di mia madre e certamente nessuna, nessunissima stramaledetta cravatta. Ma va bene così, non ero pronto per fare il padre. “Ah sì, non lo eri? - insiste una vocina dentro me - allora cos’erano tutti quei manuali di pedagogia che hai divorato negli ultimi tempi?”. La zittisco portandomi finalmente la birra alle labbra; addirittura faccio una battuta. “Quasi quasi me ne esco per una bella sigaretta, è l’ideale dopo una birra, eh Carletto?” lo tormento. Il povero ha smesso di fumare da ormai nove mesi ed è ancora dura per lui. Rido della mia stessa provocazione e lui mi osserva, stranito dal mio moto di ilarità. Ne è però così contento che dopo il primo attimo di sconcerto rincara la dose, sollevato. Il silenzio è rotto, non si può tornare indietro, glielo devo. Forse è proprio così, d’altronde, che si ricomincia a vivere.


Matilda Randighieri