Il diritto alla felicità


Il diritto alla felicità - Woodstock 2018 

Trieste, convegno a cura di Paolo Cendon


relazione di Fabio Omero


1.


La tesi è elementare: per vivere felici basta non farsi castrare dai precetti ipocriti di maestri più o meno illuminati e di preti di tutte le confessioni.

E per dimostrare un tanto, da insegnante di storia dell’arte ho scelto di partire da Michelangelo e dalle sue “fragilità”.

Ovviamente penso alle fragilità dell’uomo Buonarroti, piuttosto che dell’artista Buonarroti, visto che l’artista appare semmai arrogante nelle sue pur legittime presunzioni. Ma del resto anche l’arroganza può essere annoverata tra le debolezze.

Fragilità quindi e supposta conseguente infelicità, che poi comunque ben si riversano proprio nella sua arte.


Prendiamo il suo Bacco ebbro, scolpito quando aveva ventun anni (http://www.bargellomusei.beniculturali.it/media/img_gallerie/2/db_09879bis.jpg). Così naturalisticamente e fieramente fisico nel corpo svelto esibito senza pudore e al contempo nell’incedere barcollante con il ventre proteso e gonfio d’alcool. Lo sguardo di sfida e di provocante sensualità. Espressione piena del desiderio probabilmente appagato che il maestro provava per il suo modello. Desiderio che all’epoca non sembra assolutamente voler nascondere.


Prendiamo poi il Prigione ribelle (https://collections.louvre.fr/en/ark:/53355/cl010091871) o quello morente (https://collections.louvre.fr/en/ark:/53355/cl010091872), che si trovano al Louvre e che, nel virile tentativo di slegarsi – l’uno – e nella languida sconfitta – l’altro –, manifestano la missione dell’artista di liberare la forma pura e perfetta dalla pietra grezza, ovvero la lotta dell’anima per spogliarsi del corpo e accedere alla piena contemplazione di dio o, ancora – a seconda della lettura e interpretazione che vogliamo dare –, l’autocastrazione dello scultore e dei suoi desideri omoerotici. E pensare che aveva all’incirca solo 38, 39 anni.


Si dice infatti che Michelangelo avesse abbracciato la causa dei neoplatonici proprio per poter giustificare la sua passione per i bei corpi maschili senza incorrere nel rischio di essere denunciato per sodomia e magari finire sul rogo – come si usava ancora all’epoca – in compagnia di streghe ed eretici.

In realtà i neoplatonici tutti, con Marsilio Ficino in testa e Botticelli appresso – altro penitente incallito –, appaiono più come un club gay démodé di anziani omosessuali attratti dai ragazzini, che come una cerchia di intellettuali, tanto sono intenti a giustificare le loro pulsioni dietro all’amore platonico.


Ma torniamo ancora a Michelangelo e a uno schiavo questa volta – e già questo titolo la dice tutta - lo Schiavo ribelle o Atlante del 1530-34, conservato all’Accademia di Firenze (https://www.galleriaaccademiafirenze.it/opere/atlante/). Costui è ormai schiacciato e del tutto vinto dalla massa di pietra grezza contro cui nulla più potranno tentare le sue membra muscolose e virili, così com’è ormai intrappolato dal peso del senso di colpa.


E infatti, se all’inizio con Bacco la bellezza e la perfezione fisica del corpo maschile potevano essere lo specchio della bellezza e della perfezione divina


veggio nel tuo bel viso, signor mio, (...)

l’anima, della carne ancor vestita (…)


così Michelangelo nei suoi sonetti,

e poi invece nei Prigioni bellezza e perfezione fisiche rischiano di distogliere l’uomo Michelangelo dalla sua missione di artista e di fedele servitore di dio, tanto da impegnarlo in una strenua lotta contro la materia grezza,


le fallace speranze e ‘l van desio,

piangendo, amando, ardendo e sospirando (...)

m’hanno tenuto (...)

lontan certo dal vero


ora con lo Schiavo l’artista coglie il fallimento della salvezza della anima sua, punito perché ha sfidato dio sostituendolo nell’atto stesso della creazione dell’uomo, o perché consapevole dell’impossibilità di poter giungere alla perfezione, o anche semplicemente alla sublimazione della sua attrazione per la perfezione maschile.


E così anche nei disegni passa dal Ratto di Ganimede – giovane bellissimo di cui si innamora Zeus, che lo “assume” quale valletto/coppiere sull’Olimpo – ancora una volta un simbolo tra amore fisico ed elevazione a dio, alla Caduta di Fetonte – visto che gli amici/bulli non lo credevano figlio di Apollo, lui convinse il padre a fargli guidare il carro di fuoco, ma questo gli sfuggì di mano e Zeus per salvare la terra e il cielo dal fuoco folgorò il giovane facendolo piombare nel fiume Po –, Fetonte simbolo appunto del fallimento di chi troppo ha desiderato e sfidato.


Un tanto per gli storici dell’arte.

Ma a dirla tutta e in modo meno scientifico/artistico, in quel tempo, a cavallo tra gli anni ‘20 e ‘30 del ‘500, a detta dello studioso di Michelangelo Robert Clements dovrebbe esser finita la storia decennale di Michelangelo con il muscoloso giovane modello Gherardo Perini


ho sempre pensato di poter fare i conti con l'amore, – canta Michelangelo –

ora soffro, e vedi come brucio


e iniziata un’altra storia certamente non troppo felice con un prostituto – tale Febo di Poggio – di cui scrisse


qui con i suoi begli occhi mi ha promesso conforto,

e con quegli stessi occhi ha cercato di portarmelo via


e poi con Tommaso Cavalieri


luce del secolo nostro


che invece non gli si concesse mai, pur restandogli vicino fino alla morte.


Si può allora ben dire che l’auto-repressione dei propri impulsi o la resistenza a non commettere peccato, la negazione stessa della propria identità sessuale – così come poi anche i suoi stessi parenti si affrettarono a fare subito dopo la sua morte cancellando lettere e annotazioni varie –

lo abbiano portato a un dolore profondo, a un’angoscia del vivere spasmodica, alla frustrazione straziante del desiderio affettivo e sessuale.

Ciò non leva che probabilmente è stata proprio tale tanta sofferenza a portarlo a compiere opere via via sempre più straordinarie.


E forse con un’interpretazione più banale, ma certamente anche più umana, è facile supporre che nel percorso della vita siano andate via via riducendosi la sua prestanza fisica e la sua potenza sessuale e neppure la sua fama di grande maestro bastava da sola ad attrarre i giovani maschi. E quindi o accettava di pagare o si rassegnava alle amicizie platoniche accontentandosi dell’autoerotismo. O infine, nella solitudine di rapporti si lasciava prendere dalla depressione per l’età che avanzava, la vista che gli si abbassava, la pelle della faccia che cadeva – vedi l’autoritratto sorretto da san Bartolomeo nel Giudizio universale nella Cappella Sistina (http://www.museivaticani.va/content/museivaticani/it/collezioni/musei/cappella-sistina/giudizio-universale.html) –, la difficoltà a ricordare nomi e ricollocare volti, il corpo incapace a trattenere umori e pulsioni, e via così...


Ma diciamo che il merito di Michelangelo sta nel aver raggiunto sempre un grado elevato di definizione dei canoni estetici – naturalismo, classicismo, manierismo – e di esser sempre stato in grado poi di mettere tutta la sua arte in discussione per andare oltre e ricominciare a cercare.

Ma forse anche di aver troppo messo in discussione se stesso.

Quindi ci può stare anche una depressione da artista che vede esaurirsi proprio la capacità di ricercare e di rinnovarsi di continuo.


Senza per questo né condannarlo né assolverlo, ma senza dimenticare che oggi Michelangelo sarebbe finito in pieno sotto lo schiacciasassi di #metoo.

Strano anzi che nessuno abbia proposto di transennare la Galleria dell’Accademia con tanto di Dàvid…


2.


E a proposito di roghi: secondo un’interpretazione pseudo storico-filologica il termine “finocchio” – con cui in modo dispregiativo e gergale sono nominati gli omosessuali – deriverebbe dall’utilizzo del frutto del finocchio sui roghi di streghe e omosessuali per togliere il cattivo odore delle carni bruciate. In realtà è solo una leggenda che non ha nessun credito storiografico.


Piuttosto per tornare al tema della mia comunicazione potrebbe essere utile provare a indagare sul termine “gay” (https://www.gay.it/ecco-il-dizionario-italiano-gergo-gay).

“Gay” è il termine entrato nell’uso del linguaggio politicamente corretto e, come “gàio”, deriva dall’occitano “gai” con il significato di allegro, piacevole e spensierato.


Gaia scienza era il nome dato alla poesia dei trovatori d’epoca medioevale che cantavano del mondo cavalleresco e dell’amore cortese – leggiadro e galante, ma in realtà anche erotico e sessuale –. Ancora il dualismo spirito e carne.


Un secolo dopo – nel ‘300 – sette rimatori di Tolosa si autonominarono giudici e difensori della poesia in lingua d’oc, fondarono l’accademia “Sobregaya companhia dels set trobadors de Tolosa” – ovvero la “Gaissima compagnia dei sette trovatori di Tolosa” – e scrissero il trattato di grammatica e poetica “Leys d'amors”, in realtà soprattutto un insieme di regole alla fine solo limitanti la creatività e l’ispirazione. E non potrebbe essere diversamente in ogni senso, quando all’amore si dettano norme.


Tornando al termine “gay”, dalla Francia arrivò in Inghilterra, dove nel ‘700 ebbe il significato di anticonformista o dissoluto, e un secolo dopo di depravato. Ma nulla c’entrano ancora gli omosessuali. Infatti le “gay women” erano le prostitute, donne di facili costumi.


Poi negli Usa, negli anni ‘20 del ‘900, negli ambienti omosessuali venne utilizzato in termini gergali per indicare l’omosessuale maschio con un non-tanto-nascosto accostamento alla gay woman e quindi a un concetto di promiscuità, ovvero a una certa mescolanza e a un frequente scambio di partners.


Ma solo a fine anni ‘60, in piena stagione di controculture giovanili, di trasgressioni e di libertà sessuali, “gay” divenne con le prime lotte per i diritti degli omosessuali il termine scelto dagli stessi movimenti politici e culturali proprio perché nato nella comunità stessa e non imposto dalla cultura eterosessuale. Lì dove appunto il “di facili costumi” e quindi la “promiscuità” nei rapporti sessuali diventarono lo stile di vita affermato e rivendicato in contrapposizione alla morale borghese e religiosa.

Allegro, spensierato, promiscuo, disimpegnato e quindi – perché no? – libero!

Siamo in un’epoca pre-aids. Poi la punizione divina si abbatté su sodomiti promiscui e impenitenti. Ma questa è un’altra fiaba.


3.


Mentre a proposito di “gaia scienza”, questa unione di spensieratezza e conoscenza insieme, dai miei ricordi del liceo “Die fröhliche Wissenschaft” di Nietzsche era l’affermazione dello spirito libero, l’approccio lieve e senza imposizioni alla scienza, ma anche il superamento dei valori della tradizione, lo smascheramento degli ideali morali dell’Europa cristiana, l’abbattimento delle barriere che limitavano e limitano l’espressione delle libertà politiche/sociali/scientifiche, ma anche individuali/personali. E quindi anche il riconoscimento e l’accettazione o autoaccettazione dei desideri e degli impulsi, che ognuno sente crescere dentro di sé, diventano indispensabili per vivere una vita degna di essere vissuta.


Che cosa è – si chiede Nietzsche – il sigillo della raggiunta libertà?

Non provare più vergogna davanti a se stessi”.


E senza alcuna apologia del filosofo tedesco e neppure del suo uomo, magari “nuovo” piuttosto che “super”, riconosciamogli che certi valori di sacrificio e di purezza, proprio in contrapposizione a desideri e impulsi, certe verità e quindi certi miti o religioni sono serviti e servono solo a ingabbiare gli uomini e ad asservili.


4.


Ma restiamo in tema di “eros”. Eros tra mitologia e Freud, tra simbolo dell’amore per i greci e fondamentali istinti di vita per il maestro della psicanalisi.


Eros è fratello di Anteros, concepito da Afrodite proprio per fare crescere Eros. Appunto: Anteros colui che ricambia l’amore e lo fa crescere.

Senza dimenticare che Eros era tra l’altro figlio del dio della guerra, dell’odio e delle risse – di Ares – e qualcosa avrà pur significato.


Secondo Freud gli istinti dell’eros sono indispensabili. Sono irrinunciabili per uomini e donne. La sessualità, che è il primo tra gli istinti dell’eros pur con tutte le soggettività, sublimazioni e “deviazioni” – mi permetto di dire – è quello che in qualsivoglia sua traduzione e interpretazione dona e preserva la “vita” intesa non solo nel mero atto del concepimento.


E poi c’è Thanatos. Colui che taglia agli uomini prima che muoiano un ricciolo e poi li accompagna nell’Erebo a occidente al di là dell’oceano.


Così, se Thanatos è il rifiuto dell’altro, è la negazione dello scambio, è la costruzione di barriere, è la paura per il diverso – per il diverso che è in ciascuno di noi –, è il brutto fisico e morale, Eros è l’attrazione, è l’incontro, è la scoperta e l’accettazione di noi stessi e dell’altro, è la seduzione reciproca, è la bellezza fisica e morale. In una parola è la “felicità”.

La felicità quindi quale diritto per cui lottare. Diritto a essere attratti, diritto a incontrare, diritto a sedurre e a essere sedotti, diritto a essere diversi, diritto al bello dentro e fuori di noi.


Senza dimenticarci di Psiche, che ogni notte “giaceva” con Eros, ma sempre al buio, pena la scomparsa di lui. Così, assillata dal dubbio che Eros tanto giovane e bello forse non lo fosse, una notte lo spiò, illuminandolo con una lampada a olio, ma non fece in tempo a scoprire la sua bellezza, i ricci biondi, la bocca profumata d’ambrosia, ecc., che una goccia d’olio bollente cadde su Eros svegliandolo di brutto. Costui, accortosi del tradimento di Psiche, la abbandonò. Anche se poi la storia si concluse felicemente. Infatti dopo l’espiazione della colpa Psiche poté ricongiungersi a Eros e il loro matrimonio esser benedetto da Zeus.


Morale: l’amore non si nutre solo di contatti fisici, ma necessita di dubbi e di fiducie, di curiosità e di conferme, di verità e di inganni, di rispetto delle regole e di loro trasgressione, di peccati e di confessioni. E magari a leggere di Amore e Psiche anche di espiazione. Così se, anziché giacere accondiscendente ogni notte al buio accanto al partner, fai peccato, ma poi con la redenzione ci guadagni anche l’Olimpo, un pensierino alla disubbidienza – che male c’è – ci può anche stare.

Del resto è luogo comune che chi prova il senso del peccato, quando trasgredisce, gode di più di chi commettendo lo stesso atto non lo vive come una colpa da confessare e da cui redimersi – ogni volta daccapo –.


Senza quindi dimenticarci di Psiche – il soffio vitale, l’anima per i greci e magari la conoscenza per noi – . Psiche, l’insieme di percezioni e sensazioni, di relazioni e affetti, di ricordi, nostalgie e memorie, di sperimentazioni, di scienza e di ragione, ma anche di sogni e fantasie e magari di ansie e di paure.


5.


Ma al di là di filosofi e psicanalisti, tutto inizia lì – ma non so dire dove, a che altezza del nostro corpo – con il desiderio, che è poi attrazione fisica, o lo è almeno all’inizio. Poi, magari con l’andare in là del tempo, sia quello anagrafico dei partners, sia quello della coppia o convivenza scandito dagli anniversari, l’attrazione fisica diventa attrazione intellettuale, che è comunque sempre attrazione per il bello, e da tutto ciò scambio – di umori, di pulsioni e ovviamente di pensieri e sentimenti –. E poi ancora comunione/condivisione di tutto quanto sopra detto e alla fine complicità – parola e valore che per una coppia io amo e perseguo –.


È questa la felicità? non lo so , lo chiedo. Ma comunque sia, tutti dovrebbero avere diritto al bello, allo scambio, alla comunione liberamente espressi e coniugati, alla complicità.


6.


Quando a vent’anni decisi che dovevo vivere la mia omosessualità e allora l’Organizzazione mondiale della sanità la considerava ancora una patologia perversa – è infatti appena nel1990 che l'Oms cancellò l'omosessualità dall'elenco delle malattie mentali e la definì “una variante naturale del comportamento umano”–, non so se lo feci per ricercare una presunta felicità. Certamente avevo chiaro che volevo essere me stesso.

Ricordo che tenevo un elenco mentale delle persone che sapevano che ero/sono omosessuale. E sapere che questo elenco cresceva di numero e soprattutto che tante di queste persone mi confermavano la loro amicizia, era un modo di raggiungere un equilibrio personale ed era la conferma della giustezza della mia scelta di non nascondermi.


Sì certo ho dovuto confrontarmi con i valori borghesi dominanti: famiglia sufficientemente laica per non rincorrere i precetti cattolici, ma decisamente borghese da dipendere dal pregiudizio sociale. Ma fu un lavoro di crescita e di comprensione, di amore e di condivisione, non più solo personale ma familiare – familiare prima nella famiglia di origine, poi in quella che ho costruito con il mio partner –.

Quindi non più solo accettazione o tolleranza – “il figlio gay ha diritto a non esser cacciato via da casa”, questa bizzarra quanto contorta dichiarazione è il massimo dell’apertura/concessione di papa Francesco sulla questione –, ma diritto a vivere appieno nel proprio contesto familiare e sociale la propria sessualità e la propria affettività, assumendosi le responsabilità reciproche per gli altri.


In poche parole diritto a essere a tutti gli effetti parte di una famiglia e a poter costituire con un matrimonio egualitario una nuova famiglia.