Recensione Testo

Game Zone, Playground tra scenari virtuali e realtà, è un testo di Alberto Iacovoni. L’autore cerca di fare chiarezza sul rapporto che c’è tra gioco (inteso come attività ludica) e architettura, ma soprattutto sul significato di questi due termini.

Iacovoni, nel tentativo di costruire da più punti di vista una definizione di gioco afferma che l'italiano condivide con altre lingue come il tedesco e l'olandese l'uso di due omonimi per denotare due concetti estremamente differenti, che corrispondono al contrario nell'inglese a due termini ben distinti, come fa notare Umberto Eco nella sua prefazione all'edizione italiana di Homo Ludens. Nell'inglese, con game si evidenzia l'aspetto di competence, insieme di regole conosciute e riconosciute. Game è un sistema di regole, schema di azioni, matrice combinatoria di mosse possibili (tennis, poker, golf). C’è un soggetto astratto, il gioco come game, e c'è un comportamento concreto, una performance, che è il play.

C'è una parte delle regole di ogni game che si fa spazio, che diventa campo di gioco, un'architettura dove i limiti rappresentano interdetti e opportunità per il giocatore che ne è così divenuto abitante.

Se da un lato l'architettura vuole essere e rappresentare quel campo, lo deve fare fuori dall'autoreferenzialità della disciplina stessa, ma dentro la realtà senza dissolversi nella simulazione di una spontaneità che non esiste. Deve divenire essa stessa play, estendersi ai livelli multipli degli spazi dell'uomo, attraversarli e produrre illusioni di mondi possibili, diventare mezzo per modificare le condizioni presenti di spazio e tempo, strumento di conoscenza e mezzo di azione.

L’autore, non costruisce una storia degli spazi ludici, bensì tenta di descrivere un paesaggio attraverso quei luoghi dove un'attitudine ludica dichiarata o meno si è concretizzata in spazi capaci di produrre mondi possibili, virtuali, che possano cambiare le nostre relazioni con lo spazio, con chi ci circonda e con noi stessi. Ognuno dei playground analizzati ha la sua scala specifica di intervento, i suoi strumenti peculiari per la costruzione di uno spazio ludico, è architettura nella misura in cui lo è ogni modificazione di uno spazio vissuto ed è un luogo in cui ritrovare teorie, progetti e realizzazioni che condividono una modalità operativa comune.

Prima di addentrarsi nella serie di esempi, l'autore, da una definizione di playground. Con questo termine ci vuole indicare quelle aree dedicate al gioco per i bambini, nei giardini e nei parchi urbani, spazi delimitati sotto controllo, protetti dall'intrusione del mondo degli adulti, spesso niente più che alcuni pezzi da catalogo messi insieme con la convinzione che, come l'arredamento di una casa inevitabilmente composto da tavoli, sedie, divani e poltrone, così anche un'area per il gioco debba necessariamente constare di scivoli, altalene e cavallucci. Molto spesso la loro desolazione è lo specchio di una società che al gioco lascia ben poco spazio, quando non è dietro una recinzione di un parco a tema, prigioniero e neutralizzato nel recinto del tempo libero.

Ognuno dei playground che segue postula al contrario l'abbattimento di quel recinto e il rispetto delle ragioni più profonde per cui un bambino gioca: la vita come scoperta, sogno e avventura.

Il primo playground (il gioco del punto di vista) è quello dello sguardo, dove è sufficiente cambiare punto di vista per costruire intere nuove città. Il secondo (il gioco del corpo nello spazio) si estende al corpo e alle relazioni significanti che esso stabilisce con lo spazio. Il terzo (il gioco invade la città) esporta nello spazio della città agli altri corpi, giochi urbani che scardinano i tempi e i luoghi della vita quotidiana rimescolando ruoli e gerarchie. Il quarto playground (la città del gioco) ha nella New Babylon di Constant la sua espressione più completa ed anticipatrice e comprende tutte quelle architetture che hanno tentato di fondere tra di loro la solidità del costruito con la fluidità del reale, integrando nuove e vecchie tecnologie. Il quinto (il gioco dell’architettura istantanea) è un playground dove i vincoli fisici dello spazio architettonico evaporano nell'esperienza multisensoriale prodotta dalla tecnologia. Il sesto ed ultimo (invasori dello spazio) è infine quello enorme, vastissimo e popolatissimo dei videogame, luogo molteplice in cui milioni di persone sempre più non solo passano parte del proprio tempo, ma costruiscono relazioni, si inventano nuovi ruoli e infrangono regole.

Il terzo ed ultimo capitolo, quello con cui l’autore chiude il suo pensiero, dedicato ai playscape, prende in considerazione la geografia e la composizione di luoghi come shanty towns e terrain vague, territori in via di sviluppo modellati sulla base di comportamenti e necessità di coloro che li abitano. Spazi dalla forma instabile nei quali l’oggetto architettonico viene rovesciato, nei quali lo spazio stesso è un playground che si costruisce da solo senza ricorrere a tecnologie complesse, dove regole e limiti si adattano al volere della comunità.

L'autore ha compiuto il tentativo di comprendere il potenziale dell'architettura ludica, che utilizza il gioco per creare nuove forme di relazione e nuove modalità di costruzione degli spazi complessi della contemporaneità.