La Storia e la Filosofia

In questa pagina abbiamo raccolto gli elaborati di Storia e Filosofia di alcuni alunni delle classi del Liceo Scientifico. Guidati dalla professoressa Lorella Sodano, gli allievi hanno prodotto delle analisi e delle riflessioni su tematiche di studio delle discipline in oggetto.

A.S. 2021/2022

Dell'amore, dall'avere all'essere, dell'amore che ti cambia: dal mito di Atteone a quello che so sull'amore... riflessioni

File 1, IV C

Dal mito di Atteone all’amore che ti cambia

La mia passione per la lettura ed il cinema mi ha sempre permesso sin da bambina di lasciare ampio spazio alla mia fantasia ed immaginazione; alla domanda “che cos’è l’amore” fino a qualche tempo fa probabilmente avrei risposto con una citazione di uno dei film romantici più noti alla storia della filmografia contemporanea, le pagine della nostra vita, “due anime che si riuniscono”, probabilmente non comprendendo neanche a pieno il profondo significato di una frase del genere. Ad oggi, all’alba dei miei quasi 17 anni non saprei dare una risposta ferma a questa domanda; non perché non abbia avuto le solite relazioni adolescenziali e la maggior parte delle volte ne sia rimasta delusa, ma semplicemente perché di fatto non sono mai stata innamorata. Mi limiterò, quindi, ancora una volta, ad immaginare ed ipotizzare, con qualche piccolissima ed umile consapevolezza in più, quale sia la mia concezione di uno specifico tipo d’amore.

Passione, conditio sine qua non è possibile entrare in relazione con l’altro; non intesa come mero rapporto carnale (componente senz’altro principale dell’intimità fra due persone) ma come sforzo continuo e necessario al mantenimento del rapporto. Resistere al tempo richiede impegno, volontà, connessione con l’altro da parte di entrambe le parti.

Dialogo. Comunicare, riflettere insieme, discutere, litigare, sono fattori sinonimi di sano amore. La persona amata diviene, per l’amante, un confidente, un amico, un maestro, un libro aperto, che può essere compreso solo attraverso un confronto continuo, su materie di qualsiasi tipo (perché sì, l’apertura e la flessibilità tra due persone e quindi menti pensanti diverse, è fondamentale.)

Fiducia. Condividere implica affidare parte se non tutta la propria vita anche nelle mani della persona che ci sta affianco- sapere di potere contare su quella persona è l’unica chiave per la porta del mettere in comune, del vivere insieme.

Tuttavia, a questa filosofia di pensiero riconosco una pecca: non sono mai stata innamorata, non ho mai provato per un'altra persona questi tre prerequisiti di base; ma questo non significa che io non abbia provato amore. Perché l’amore ha molteplici sfaccettature ed io ho sempre potuto contare sull’amore della mia famiglia, da cui ho imparato che l’altruismo e il prendersi cura dell’altro vince l’essere orgogliosi; su quello delle mie amiche, un amore conflittuale, giovane, vivace, fatto di risate pianti, follia e complicità; su quello per la me che vorrei diventare, per le mie ambizioni, per il mio futuro.

Io spero di riuscire a trovare la persona giusta che mi permetterà di provare quel sentimento così come lo immagino, o addirittura che stravolgerà qualsiasi mia certezza; però non è mia priorità. Pantarei, tutto scorre, ed io mi godo l’attesa. L’unica urgenza, ad oggi, è coltivare l’amore per me stessa, l’accettazione della persona che sono e della possibilità, anzi dell’inevitabilità, che anche a me è concesso sbagliare, maturare e cambiare.

Ecco, conoscere se stessi si aggiunge a quella lista di valori necessari per amare l’altro. Io non ci credo alla forza distruttiva dell’amore con cui tutti un po’ ti scoraggiano; mi auguro, che questo valore mi doni anche un cuore più attento e sempre all’erta nel distinguere da amore ciò che amore non è.

Fino ad allora, sono innamorata della vita.


File 2, IV C

L’amore, cos’è l’amore? L’amore non può essere descritto, è quel qualcosa di così complesso, quel qualcosa a cui non so attribuire un significato. Può essere tutto e tutti, l’amore per la famiglia, l’amore per il gelato al cioccolato, l’amore per gli animali, l’amore per quella persona che riesce a rubarci l’anima. Quella persona che anche nei momenti più bui riesce a strapparci un sorriso, quella persona di cui non riesci a fare a meno, quella che quando litighi hai quella paura incondizionata di perderla. Essere innamorati è come vivere in un mondo parallelo dove regna la felicità, ma l’amore tuttavia non è rosa e fiori; per amore si soffre, per amore si fanno le miglior follie andando contro tutti e rischiando di rimanere deluso se un giorno tutto quello creato si annullerà. Sinceramente io non so cosa sia l’amore, forse perché non sono mai stata innamorata e anche se lo fossi stata di certo non sarei stata in grado di spiegarlo, perché l’amore non si può spiegare, è un emozione così forte che non riesco neanche a spiegarmi il perché lo sia così tanto.


File 3, IV C

L’innamoramento è come un sogno, una condizione di non piena lucidità, in cui scattano potenti meccanismi che contribuiscono all’idealizzazione dell’altro e al ridimensionamento o negazione di tutti i difetti e le imperfezioni. Si attivano anche forti proiezioni, che spingono a mettere nell’altro i nostri pensieri, emozioni e vissuti, leggendoli come se provenissero da lui.

File 4, IV C

Tutta la nostra vita è una lotta per affermare quel qualcosa che ci sfugge, e per poter lottare dobbiamo imparare lezioni fondamentali per la nostra crescita. Qualcosa moto difficile da affermare però è l’amore. L’amore è un sentimento misterioso che ubbidisce, l’amore è un sentimento che improvvisamente ti colpisce quando meno te l'aspetti, come una freccia scoccata da cupido, ed è così forte che è difficile respingerlo. E’ difficile disinnamorarsi. L’amore si confonde a volte con il colpo di fulmine. Quindi non si può definire l’amore ma lo si può solo provare, capendo cosa sia veramente


File 5, Alessandro Porreca, IV C

Se cercassimo la definizione esatta di amore sul vocabolario, troveremmo questo: «Sentimento di viva affezione verso una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia». Per quanto corretta possa essere, non potrà mai soddisfarci perché l'amore è sicuramente molto di più. È il sentimento delle contrapposizioni, nel suo essere sia irrazionale, perché quando ci "colpisce" non lo possiamo controllare, ma è anche logico. Lo è poiché tocca sia il cuore che la mente. L’amore, quello vero, non è un’emozione, bensì un sentimento. Quest’ultimo si differenzia dalla “semplice” emozione per la sua durata: infatti, un sentimento dura nel tempo, si costruisce giorno per giorno e non è istantaneo e passeggero come l’emozione. L’amore nasce sì spontaneamente, ma va nutrito e coltivato con il passare del tempo.


File 6, Maria Nives Rossi, IV C

Eros, figlio di Penia (povertà) e di Poros (espediente), è una persona davvero particolare perché gli manca qualcosa e va alla sua ricerca, come gli androgeni alla ricerca dell’altra metà; ma chi è realmente? Nessuno sa con esattezza chi è o cos’è ma possiamo dire le sensazioni che ci fa ricevere, il modo in cui ci cambia la vita.

Egli è colui che è ovunque e da nessuna parte, nelle amicizie, nelle relazioni, nella famiglia, negli hobby, nelle tazze di latte e caffè, in una serie tv che ti migliora la giornata con un semplice gesto, perché non serve molto… è figlio di povertà. Egli è un virus che fa impazzire le persone, come Bruno con la natura, un virus invisibile che giunge nel nostro corpo con uno sguardo, un momento, una nuova alba che regala un calore simile ad una piccola fiamma di candela, calore che basta affinché ci riscaldi il cuore e che non ci lasci al buio. Ma si può vivere senza amore?

No, senza questo “banale” sentimento non ameremo la vita, non avremo un rifugio dove stare.


A.S. 2020/21

Filosofando e andando su e giù per la storia

Luisa Ceccarelli, III C - Filosofia

Sulla base dell'umanismo e del relativismo dei sofisti, rifletti sui valori che ti hanno trasmesso i tuoi genitori, la scuola, gli amici, etc., magari distinguendo ciò che tuttora ritieni assoluto ed inviolabile da ciò in cui non credi più, perché semmai pensi essere relativo e variabile a seconda dei punti di vista

” L’uomo è misura di tutte le cose, delle cose che sono in quanto sono e delle cose che non sono in quanto non sono”; è il “metro” della realtà o irrealtà delle cose, del loro modo di essere e del loro significato.

La posizione di Protagora, tuttavia, è una forma di umanismo in quanto ciò che si afferma o si nega intorno alla realtà presuppone sempre l’uomo come soggetto del discorso o baricentro di giudizio, cioè come criterio, regola o metro di valutazione; di fenomenismo in quanto noi abbiamo sempre a che fare con “fenomeni”, cioè come la realtà appare a noi; e infine di relativismo conoscitivo e morale, in quanto non esiste una verità assoluta, né esistono principi etici “assoluti”, ma ogni verità o ideale o modello di comportamento è “relativo” a chi giudica e alla situazione in cui si trova.

E’ proprio sulla base di questi punti che i sofisti riflettono sulla diversità ed eterogeneità degli ideali o valori che reggono la nostra società e la convivenza umana… Ma a questo punto la domanda sorge spontanea, quali sono i valori che ognuno di noi porta con se nel proprio percorso di vita, e quali sono quelli che invece tutti dovremmo adottare e fare nostri?

Sono tanti gli esempi da seguire, gli ideali a cui riferirci… La maggior parte di questi, però, proviene inevitabilmente da ciò che i nostri genitori ci insegnano. Ognuno di noi, infatti, ha un modo di pensare, di vedere le cose, di agire che senza dubbio è frutto di una singolare educazione. Ma ci siamo mai chiesti cos’è più importante per noi stessi? I valori della vita a cui teniamo di più? Porsi questa domanda è di vitale importanza, ci permette di comprendere da dove veniamo, chi siamo, e dove andiamo… Sono i valori a guidarci, rappresentano la nostra bussola interna, il faro che illumina il nostro destino. La nostra vita deve essere sostenuta da dei valori che portiamo in fondo al cuore, che abbiamo a mente e che ci conducono nel nostro cammino nel tempo, li ritroviamo in tutto ciò che facciamo e che pensiamo, nella vita quotidiana, nei progetti futuri, nelle relazioni di tutti i giorni. Influenzano la nostra persona, i nostri rapporti con gli altri e con la società in cui viviamo. E sono questi valori che noi dobbiamo tramandare alle future generazioni. In assoluto, credo che uno dei più importanti e che senza dubbio mi è stato trasmesso dalla mia famiglia, sia il rispetto. Il rispetto verso le persone e le cose, ma ancor prima verso noi stessi, verso la nostra stessa vita, verso la società in cui viviamo. Rispettare consiste nel misurarsi con le diverse posizioni dell’altra persona, e ci aiuta, quindi, a non giudicarla per la sua scelta o opinione. Consiste nel tenere conto dell’altro nelle sue differenze individuali, senza cercare di manipolarle e senza pretendere che l’altro si comporti diversamente da com’è. Come si può riuscire a rispettare tutti? Rispettare è rendersi conto che ogni persona ha il diritto di scegliere di essere come è realmente, con il suo modo di pensare, di esprimere la propria opinione, di sentire, di agire e persino di scegliere i suoi gusti e le sue preferenze di vita. Se ciascuno ha dunque il diritto di essere chi decide di essere, nessun altro può permettersi di obiettare o decidere per lui/lei. La famiglia…Cosa si può dire? Chi ci ha dato la vita, chi ci ha cresciuto, chi condivide con noi ogni singolo aspetto delle nostre esperienze, il nostro stesso sangue. Un legame che non ha eguali, che resterà per sempre. Ciò che si può definire famiglia è fondato sull’amore, il rispetto e la solidarietà; tutte caratteristiche assolutamente imprescindibili sulle quali costruire i nostri rapporti. E’ il primo nucleo della società, è la base della nazione, il santuario degli affetti, il faro della salvezza e il rifugio dei naviganti. Ogni uomo, infatti è come un navigante che affronta pericoli e difficoltà: molti di questi si risolvono nel senso stesso della famiglia. Lì si condividono gioia e amarezze. Fin da piccoli ci hanno insegnato ad essere generosi, e abbiamo iniziato questo lungo percorso verso la generosità e la solidarietà dai piccoli gesti, come quando da piccoli condividevamo la merenda con un amico o con un compagno. Ma che cosa significa veramente la parola generosità? Siamo tutti così presi dai nostri impegni quotidiani, dal lavoro e dallo studio che viviamo una vita superficiale; ma cosa accadrebbe se ci fermassimo un attimo a pensare? A pensare a tutte quelle persone meno fortunate di noi che ci circondano, e che noi non vediamo o facciamo finta di non vedere, a tutti quei bambini che appena nascono non hanno la fortuna di avere un tetto sicuro e del cibo caldo, a tutte quelle persone vittime di violenze, e tante altre che ogni giorno per un qualsiasi motivo stanno male e non ce la fanno ad andare avanti. La generosità non è classificabile in base all’azione che compi, essa deve venire da un cuore puro che non aspetta altro che far sorridere una persona, che ne abbia bisogno o meno, un bimbo o un anziano, chiunque esso sia, la generosità non è un vanto, la generosità è un’azione semplice, ma capace di colmare quei vuoti creati dalla vita monotona di ogni giorno con un’immensa felicità.


Ci sono periodi della nostra esistenza in cui appare normale, se non addirittura indispensabile, riflettere sul valore della vita. Penso per esempio agli anni dell’adolescenza, quando si cresce al cospetto di un mondo che non si condivide ancora abbastanza, e a quelli della vecchiaia, quando si ricorda un lungo passato nella prospettiva di un futuro che si accorcia sempre più. Oppure ancora ai numerosi traumi, di cui l’esistenza è inevitabilmente intessuta, fino ad arrivare alla morte, passando per amori e odi, successi e fallimenti, paci e guerre, unioni e divisioni. In certi momenti speciali siamo così particolarmente consapevoli di noi stessi, riflessivi e introspettivi. È certo invece che, ripensandoci, tali occasioni ci appaiono terribilmente importanti, anzi addirittura decisive per capire noi stessi e il senso della vita. Proprio per ciò sembra strano che i filosofi occidentali non se ne occupino maggiormente nelle loro opere. Pochi sono, infatti, i testi – dall’Etica di Aristotele ai Saggi di Montaigne e all’Emilio di Rousseau– nei quali un filosofo affronta esplicitamente il tema del valore della vita in maniera coerente con la propria visione del mondo. La vita sembra essere un fenomeno troppo complicato perché noi possiamo discuterla razionalmente e pacatamente, sarebbe a dire con il linguaggio e i metodi tradizionali dei filosofi. Anzi, a ben riflettere, la filosofia rischia di apparire, da questo punto di vista, una consolazione.”

SEBASTIANO MAFFETTONE: IL VALORE DELLA VITA, COSA CONTA DAVVERO E PERCHÉ.





In questa pagina raccogliamo gli elaborati di alcuni studenti di 3C, 4C, 5C e 5D del Liceo Scientifico. Guidati dalla professoressa Lorella Sodano, gli allievi si sono cimentati con analisi e riflessioni sui temi di storia e filosofia oggetto di studio. Buona lettura!

Martina Cocozza, III C - Filosofia

Immagina un dialogo tra maestro e alunno o, più semplicemente, tra due persone in cui si discuta di un argomento importante.

Strutturalo secondo il dialogo socratico, cioè in più momenti: ironia, confutazione, maieutica e definizione


Personaggi: Marco (maestro), Antonio (ex alunno)

Marco, per caso, incontra Antonio, suo vecchio alunno, e i due discutono sul concetto della virtù.

MARCO Ciao, Antonio! Come stai? È dai tempi del liceo che non ci vediamo.

ANTONIO Buongiorno, professore! Che piacere rivederla. Mi sono trasferito da poco a Berlino, ora insegno Diritto in una scuola superiore.

MARCO Mi fa molto piacere. Ti sei laureato alla facoltà di Giurisprudenza?

ANTONIO sì, una delle mie virtù è l'onestà. Sono sempre stato un uomo ligio alle regole dello Stato e ora insegno ai miei alunni quali regole bisogna rispettare per essere dei buoni cittadini. Se sono un buon insegnante di Diritto lo deve anche a lei.

Marco perché dici questo? Io non ho fatto nulla. Ho semplicemente insegnato la filosofia ai miei alunni.

Antonio no, professore. Lei ha fatto molto di più. Oltre ad insegnarci ad insegnare, ha lavorato con onestà e ci ha trasmesso questa virtù.

Marco Tu mi lusinghi. Io, però, sono diventato vecchio e sono lento nell’afferrare i tuoi discorsi. Non mi è molto chiaro cosa intendi. Che cos’è per te la virtù?

Antonio certo che lo so professore. Lo sanno tutti. La virtù è una capacità innata di fare bene qualcosa.

Marco Bene, noto che sei molto competente come insegnante. Se la virtù è innata allora tutti sono virtuosi, giusto?

Antonio certo, professore. Tutti hanno una virtù. I miei genitori, per esempio, erano onesti e mi hanno insegnato la virtù dell’onestà.

Marco bene. io, invece, mi vergogno, perché mio padre era un ladro. Essendo io suo figlio, per come tu parli della virtù, io sono meno onesto di te.

Antonio no, professore. Lei è di certo il più onesto di tutti. Ha sempre valutato noi alunni in maniera obiettiva, ha sempre rispettato gli orari, ha sempre lavorato sodo. Immagino che lei abbia sempre pagato le tasse e rispettato il codice stradale, giusto?

Marco certo. Tu, però, sei diventato ancora più onesto grazie all’esempio dei tuoi genitori, due avvocati onesti.

Antonio la virtù dell'onestà non è per tutti. Ci sono alcuni che sono onesti, altri che sono saggi, altri ancora che sono amichevoli etc. Io sono nato onesto come lei, ma lei lo è di più, perché è nato più onesto di me.

Marco Allora la virtù è innata e ognuno di noi ha un grado di virtù diverso?

Antonio certo, professore. Oltre ad avere diverse virtù, ognuno di noi ha un certo grado di virtù. Lei sicuramente ha il maggior grado di virtù di tutti.

Marco Se la virtù è innata ed è graduale allora un uomo onesto sarà onesto per tutta la vita, un uomo poco onesto sarà poco onesto per tutta la vita, un uomo disonesto sarà disonesto per tutta la vita, giusto?

Antonio Certo, professore. Chi nasce disonesto muore disonesto, insegna ai suoi figli e ai suoi alunni ad essere disonesti: si salvano soltanto coloro che sono nati onesti, tutti gli altri meritano il carcere a vita.

Marco Quello che tu dici non mi quadra. Io, secondo ciò che dici, sarei nato onesto, da genitore disonesto. Sarei nato con il maggiore grado di onestà e sarei rimasto onesto, nonostante gli insegnamenti di un padre disonesto, soltanto perché sarei il più onesto di tutti. Chi stabilisce chi nasce onesto e chi nasce disonesto?

Antonio nessuno, io non credo in Dio, ma credo che la virtù sia parte di noi.

Marco Se tu credessi in Dio sarebbe paradossale credere che lui abbia deciso di creare uomini onesti e uomini disonesti. Che senso avrebbe condannarli ancor prima di giudicare la loro vita? Se, invece, tu non credi in Dio, allora sarebbe assurdo credere che la virtù sia innata, perché non sapresti dire chi ci ha creati e chi ci ha scelto di donarci la virtù dell’onestà.

Antonio la virtù è innata, perché i nostri Avi la possedevano.

Marco e chi li avrebbe fatti nascere virtuosi?

Antonio il genere umano è pieno di virtù. L’educazione serve per sviluppare il potenziale di virtù che ognuno di noi ha.

Marco quello che tu dici è contraddittorio. Se credi che nessuno abbia generato l’uomo allora il primo uomo e la prima donna sarebbero stati l’uno onesto e l’altro disonesto e avrebbe generato prole onesta e disonesta, giusto?

Antonio potrebbe essere così. Da una donna e un uomo disonesti nascerebbero soltanto figli disonesti, da un uomo e una donna onesti nascerebbero solo figli onesti.

Marco allora che cos’è l'onestà?

Antonio è la virtù del fare onestamente.

Marco non puoi dirmi che la bellezza è la virtù dell’essere belli, così come non puoi dirmi che la generosità è la virtù dell’essere generosi. Questo tipo di risposta non mi chiarisce ciò che ti ho chiesto

Antonio allora l’onestà è la virtù rispetto.

Marco che intendi per rispetto?

Antonio il rispetto è l’obbedienza delle regole.

Marco come tu dici, l’onestà sarebbe innata, essendo una virtù ed essendo la virtù innata. Il tuo ragionamento, però, è contraddittorio, perché se l'onestà fosse innata come tu dici, perché ci fossero uomini e donne disonesti, la prima donna o il primo uomo sulla terra sarebbero nati disonesti e avrebbero generato figli disonesti. Allora l’onestà non è una virtù, perché la virtù è sempre innata e per esistere la disonestà sarebbe o insegnabile o trasmissibile.

Antonio di certo il primo uomo o la prima donna sarebbero stati disonesti, ma non so perché quell’uomo o quella donna sarebbero nati disonesti. Forse la loro virtù non sarebbe stata l’onestà, ma ad esempio la saggezza. Ecco, il primo uomo disonesto aveva un’altra virtù.

Marco quello che dici continua ad essere contraddittorio, perché se nessuno crea l’uomo, come tu credi, essendo ateo, nessuno decide quale sia la sua virtù, nessuno decide se egli debba essere virtuoso: la virtù non è innata, dunque l’onestà è una virtù non innata.

Antonio qualcuno avrebbe potuto però insegnarla

Marco la virtù non può essere allo stesso tempo innata e insegnabile. Se qualcuno dovesse insegnarla, che senso avrebbe farlo se la virtù è innata?

Antonio credo che la virtù sia innata, ma non l’onestà. L’onestà si insegna.

Marco allora il tuo ragionamento non è corretto, perché se la virtù è innata, ma l’onestà non lo è, l'onestà non è una virtù. Dunque non si potrebbe insegnare l'onestà, nemmeno a scuola.



Maddalena Di Donna, III C - Filosofia

Sulla base dell'umanismo e del relativismo dei sofisti, rifletti sui valori che ti hanno trasmesso i tuoi genitori, la scuola, gli amici, etc., magari distinguendo ciò che tuttora ritieni assoluto ed inviolabile da ciò in cui non credi più, perché semmai pensi essere relativo e variabile a seconda dei punti di vista


I sofisti introducono nella storia della filosofia un importante cambiamento: non si dedicano alla ricerca dei principi ultimi, poiché è una verità impossibile da conoscere per l’uomo, bensì ad un’indagine approfondita sull’uomo e i suoi comportamenti.

Questi adottano come principio base della propria filosofia l’umanismo, che mette al centro della discussione filosofica l’uomo e tenta di trovare risposte all’interno di quest’ultimo e non all’esterno.

Sofisti come Protagora introducono un qualcosa che regge o almeno dovrebbe reggere la società moderna: il relativismo. Secondo quest’ultimo la percezione delle cose intese anche come valori e pensieri è relativa al singolo individuo, popolo o in caso di relativismo trascendentale all’umanità.

Il relativismo è uno strumento, che se non utilizzato in maniera eccessiva, porta al rispetto del prossimo e alla comune e armonica convivenza. Quest’ultimo apre anche la mente dell’individuo al confronto e all’arricchimento del pensiero personale.

Il relativismo ha un’importante validità sociale e contribuisce a quello che è il processo di accettazione mondiale riguardo le diversità, ma non deve essere applicato in maniera ingente al sistema amministrativo di uno stato. Chi non coglie il vero senso di questo strumento oppure vuole aggirarlo a suo piacimento potrebbe supporre che non essendo nessuna idea superiore alla sua, non debba seguire le leggi. In realtà il sistema amministrativo è organizzato secondo il criterio di giovamento all’individuo e alla comunità e di conseguenza garantisce il corretto e pacifico funzionamento dei paesi. Proprio Protagora afferma che è possibile seguire un qualcosa che sia istituito in base al criterio dell’utile per evitare la creazione di anarchia e disordini popolari.

Il processo della nostra crescita attraversa varie fasi e quando si giunge a quella adolescenziale inizia un grande cambiamento nel nostro pensiero che diventa man mano sempre più autonomo e indipendente da tutti gli insegnamenti ricevuti in precedenza.

Cosa ho imparato dalla mia nascita fino ad ora?

Il primo insegnamento ricevuto dalla mia famiglia è stato quello dell’amore: un amore infinito, eterno e indistruttibile. La mia famiglia mi ha amato dal primo giorno, ha assecondato le mie idee folli, ha perdonato i miei primi errori e soprattutto mi ha salvato da tutto l’odio del mondo. Sono cresciuta sapendo di non essere mai sola, di aver un porto sicuro in cui tornare dove nessuno mi avrebbe mai giudicata.

Crescendo con un tale sentimento, quando ho iniziato ad avere contatti con il mondo esterno ho cercato di amare tutti gli estranei in modo incondizionato come avevo imparato. Ma ad oggi ho capito che non tutti meritano questo tipo di amore e che per amor proprio quello che potevo offrite aveva un limite. Ora amo profondamente solo chi si presenta senza maschere e gioca a carte scoperte, amo solo quando ho la sicurezza di non poter più provare dolore.

Un altro valore fondamentale nella mia vita è la gentilezza e la bontà: non riesco a restare indifferente quando vedo qualcuno in difficoltà, non riesco a vedere gli altri cadere e non porgergli la mano per tirarli su e soprattutto non capisco come sia possibile tagliare via persone dalla tua vita per uno sbaglio. Io in primis commetto errori e ritengo che tutti meritino il perdono e una possibilità per cambiare e rimediare.

Un valore che oggi reputo essenziale e inevitabilmente non soggetto al relativismo è l’empatia e la solidarietà verso il prossimo: ciò che alimenta la crudeltà nel mondo è l’indifferenza. L’indifferenza di chi non agisce davanti ad un atto di violenza, di chi non prende mai posizione per evitare di compromettersi, di chi pur restare al sicuro non si mette in gioco.

Mi chiedo, cos’è vivere senza prendere posizione? Probabilmente una vita statica e vissuta in modo passivo, poiché non agire significa restare fermi, temere il cambiamento e le sue conseguenze. Prendere posizione comporta rischi, ma d’altronde cos’è vivere senza rischiare?

Penso che Don Abbondio nei “Promessi Sposi” abbia vissuto una vita povera e priva di emozioni: costantemente impegnato nella salvaguardia dei propri privilegi senza preoccuparsi del danno causato all’altro a causa delle sue decisioni.

La parte noiosa ma altrettanto importante dell’esistenza è fatta di studio, lavoro, stabilità e comfort. Ma il rischio, l’adrenalina, il trovarsi in equilibrio su un sottile filo e rischiare di cadere …è ciò per cui voglio vivere veramente. Voglio vivere per le sensazioni forti, quelle che ti destabilizzano e non ti danno possibilità di riflettere ma solo di agire.

Ciò che invece ritengo relativo sono le dosi di emozioni da voler condividere, le porzioni di amore da voler prestare agli altri e la possibilità di scegliere come voler apparire. Viviamo in un mondo che ci costringe a fingere che vada sempre tutto bene, in cui una persona sorridente che non mostra i suoi problemi è sempre più apprezzata di una persona genuinamente ferita e stanca della vita. Io vorrei la libertà di mostrarmi senza filtri sulle emozioni che provo, vorrei essere sciolta dall’obbligo di apparire come vogliono gli altri e poter essere me stessa.

Inoltre vorrei che tutti non si aspettassero sempre qualcosa da me, che non pretendessero di entrare nel mio cuore e scombussolare il mio equilibrio. Desidero tenere una grande dose di amore per me stessa e utilizzarlo per curare l’odio che inevitabilmente mi trafiggerà.

Per me, non è possibile avere opinioni sull’accettazione: non è sottoponibile a giudizio poiché abbiamo il dovere di accogliere senza se e senza ma le “diversità”. Abbiamo l’obbligo morale di non fare sentire a disagio una persona insicura e di coinvolgere tutti quelli che la società ha fatto sentire “sbagliati” ed

“emarginati”. Quando le persone fanno affermazioni razziste oppure omofobe velate da un finto buonismo, mio padre mi dice: “Sono loro pensieri, distanziati da questi ma non provare a dissuaderli e cambiarli”. Ad oggi dico NO: non accetto più chi parla senza curarsi dei sentimenti del prossimo oppure solo per sentirsi parte di un gruppo scredita senza limiti. Non sono d’accordo con chi dice che l’accettazione dei membri dell’LGBT community, degli immigrati oppure di un ragazzo disabile in un gruppo di amici sia un fattore relativo; l’integrazione di chi è sempre stato occultato dai libri di storia, dalle manifestazioni pubbliche ed è stato privato di diritti è un dovere.

Per la me di sedici anni è relativo il gusto di gelato, la preferenza riguardo una squadra di calcio e le opinioni riguardo uno stile musicale, ma non l’uguaglianza di diritti, possibilità, credibilità e considerazione sociale.

È relativo per me credere in qualcosa. Spesso ci sentiamo obbligati a far parte di un gruppo o di una comunità religiosa per evitare lo smarrimento. Io comprendo il desiderio di legarsi ad una figura superiore per dare un senso alla propria vita ma, penso anche che lo si possa dare anche credendo solo in sé stessi. La fede è un qualcosa di magico e importante, immagino si crei un rapporto di profonda devozione verso il proprio Dio, e che sia facile vivere avendo dei valori chiari da seguire. Ma io non mi sono mai sentita vicina a qualcuno sul serio e in mondo veritiero. Scelgo di credere nei miei ideali, nelle mie capacita e ai miei pensieri, i quali a volte mi faranno smarrire…ma trovo piacere nel rinsavire dalla deviazione senza l’aiuto di nessuno. Non critico la fede, ma ritengo che essa sia profondamente relativa: tutti sono liberi di scegliere in cosa credere.

Socrate afferma che non ci sia cosa migliore di vivere secondo ciò che si ritiene giusto, ed io mi auguro di poter affrontare il cammino dell’esistenza seguendo sempre i miei ideali, pensando con la mia testa e facendo della mia persona uno strumento utile per rendere il mondo un posto più giusto ed equo.

Massimo Esca, III C - Filosofia

Sulla base dell'umanismo e del relativismo dei sofisti, rifletti sui valori che ti hanno trasmesso i tuoi genitori, la scuola, gli amici, etc., magari distinguendo ciò che tuttora ritieni assoluto ed inviolabile da ciò in cui non credi più, perché semmai pensi essere relativo e variabile a seconda dei punti di vista.


Il termine “Sofista” deriva dal greco “Sophistes”, ovvero sapiente. Con i sofisti cambia l’oggetto della ricerca filosofica e, dallo studio della natura, si passa allo studio dell’uomo. Abbandonato il cosmo, i sofisti affrontarono i problemi delle leggi, della politica, della società, dell’educazione, divenendo i filosofi dell’uomo e della polis. L’epoca odierna è sofistica, perché è segnata dal dominio dell’opinione, dalla certezza che la verità non possa essere perseguita, dallo scetticismo. Infatti, si dilaga sempre di più ormai all’interno della nostra società, una diversità ideologica senza precedenti che affonda le proprie radici non solo nella sfera pubblica ma ancora di più in quella privata dell’uomo, e che conduce così ad un disgregamento dei valori primari e di punti di riferimento che un tempo erano porti sicuri in cui rifugiarsi. Oggi le persone non hanno voglia di assumersi le responsabilità degli altri e preferiscono vivere in piena solitudine godendosi dei propri averi. Tuttavia, il solo vantaggio economico non basta a rendere ricco un uomo ma anzi, impoverisce i sentimenti e lo spirito. In tempi difficili come questi, la felicità è per molti diventata un’illusione, nonostante la sua ricerca sia uno dei principali obiettivi della vita dell’uomo. Molti uomini illustri come filosofi, poeti, scrittori, si sono chiesti cosa fosse davvero la felicità. Per arrivare a questa bisogna andare ben oltre attimi fuggenti di gioia, come spiega il celeberrimo poeta Giacomo Leopardi nella sua dottrina del piacere. La felicità non è misurabile e il suo significato non si trova all’interno dei libri o guide che spiegano come si possa condurre una vita gioiosa, ma nei piccoli gesti compiuti con grande spiritualità e anche con una dose di amore, il sentimento più emozionante che permetterà all’uomo di ritrovare la retta via da seguire affinché il mondo possa diventare un posto migliore per i posteri. Sfortunatamente però con lo sviluppo dei social media, ogni giorno ci immergiamo all’ interno di questa realtà virtuale non sapendo distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. L’errore commesso soprattutto dagli adolescenti, che trascurano le relazioni con altre persone lasciandosi vincere dalla voglia di giocare ad un videogame, oppure dalla mania per lo sharing e per i social, e tutti quei luoghi. Ma cos’è effettivamente un luogo? La delimitazione di un luogo fisico nasce in virtù di ciò a cui quest’ultimo è destinato. Ad esempio, una persona che si trova a scuola, è in un luogo dedito allo studio, e non al gioco. Il mondo digitale invece, essendo un mondo ideale, non ha limiti fisici, né tantomeno comportamentali. Il capovolgimento di queste due realtà ha avuto delle importanti ripercussioni sulla vita quotidiana e sulla morale di noi uomini: la perdita delle regole e delle responsabilità. In questo processo occorrerebbe recuperare il valore del tempo da trascorrere insieme e la stessa scuola, che dovrebbe abbandonare la faccia feroce e, dovrebbe diventare, per gli adolescenti, un’occasione emotivamente significativa di maturazione personale, culturale, sociale e affettiva. Perciò bisognerebbe ascoltare di più le storie e le esperienze di persone sagge che sanno cos’è la vita, invece di ascoltare le stories dei social network di personaggi, talvolta falsi, che riempiono il nostro cervello di malevoli dicerie che non sono salutari per la nostra vita.

Teresa Vaccariello, III C - Filosofia

Sulla base dell'umanismo e del relativismo dei sofisti, rifletti sui valori che ti hanno trasmesso i tuoi genitori, la scuola, gli amici, etc., magari distinguendo ciò che tuttora ritieni assoluto ed inviolabile da ciò in cui non credi più, perché semmai pensi essere relativo e variabile a seconda dei punti di vista


“La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che io riesco a darmi.” Luigi Pirandello, in “Uno, nessuno e centomila”, definisce così la propria visione di quel relativismo individuale alla base del più ampio relativismo etico. Probabilmente però questo estremismo poco ha da condividere con il reale insegnamento che questa corrente filosofica ha trasmesso all’Atene Periclea prima e ai cittadini del mondo, oggi. Tuttavia, l’autore ritrae in pieno le convinzioni e il comportamento che un adolescente si trova a sperimentare nel processo di crescita. È proprio durante questa fase, infatti, che io in primis, anzitempo, ho apprezzato i significati che dottrine filosofiche come la precedente, o ancora l’umanismo, che vede l’uomo come misura di tutte le cose, hanno voluto comunicarci. Avrei tanto voluto, in quel particolare processo, che ancora oggi mi vede coinvolta, poter usufruire delle mie pochissime conoscenze filosofiche per guardare alla realtà con occhio più critico. Ascoltando per la prima volta una verità che differisce da quella che i nostri genitori o educatori o ancora amici hanno sempre portato avanti, si assiste allo sgretolamento delle proprie certezze e un metodo per sopravvivere a situazioni del genere non ci viene fornito. Mio padre mi ha sempre ripetuto fin da piccola di “proseguire per la mia strada, senza dar conto agli altri”, ma cosa succede se l’ascolto o il confronto con gli altri è fondamentale per raggiungere la propria meta? In un primo momento, quindi, la me testarda ha avuto la meglio in situazioni di confronto e crescita e le mie sicurezze, e una mancata messa in discussione di queste ultime, mi hanno impedito di prender parte a quei fantastici processi di polemica e dialogo che, da sempre, nella storia dell’umanità hanno portato a vittorie, conquiste, scoperte. Per quanto i genitori giochino un ruolo fondamentale nella vita di ognuno e io abbia sempre intrattenuto con loro un rapporto di fiducia, stima, e dialogo, è necessario, ad un certo punto, imparare a camminare con le proprie gambe e quel mio desiderio di crescere e affacciarmi al mondo degli adulti non si sarebbe concretizzato se avessi continuato ad essere incastrata in quella bolla di protezione, che involontariamente, loro stessi avevano creato.

“Homo sum, humani nihil a me alienum puto” è il fulcro del pensiero letterario che Terenzio, nella tradizione della commedia latina, per primo, apporta: “sono un uomo, niente di ciò che riguarda l’uomo ritengo mi sia estraneo”. L’invito del commediografo al pubblico è riflettere sulla varietà dei comportamenti umani, sull’affetto disinteressato che ne deriva verso il prossimo e, inevitabilmente, su valori come la solidarietà. Nel momento in cui si afferma che i principi e i giudizi morali non sono riconoscibili in modo oggettivo e assoluto, contemporaneamente, Terenzio constata una sorta di indulgenza e comprensione verso le scelte altrui e il riconoscimento di comportamenti e valori diversi da quelli tradizionali. Ed è proprio con il riconoscimento e la tolleranza che si concorre ad una resurrezione del relativismo etico che, in quanto bilanciato da atteggiamenti del genere, non sfocia in alcun tipo di estremismo e, contemporaneamente, a quella tendenza infantile che si ha nell’approccio con l’altro diverso da te.

Ciò che ad oggi, mi sento di criticare a quell’atteggiamento eristico e talvolta suggestionale che i sofisti adottavano nel momento in cui aspiravano al raggiungimento del successo nella polis, ed io, al fine di non mostrare le mie debolezze, è che alla fine, non è vero che “ogni realtà è un inganno” ma che ogni piccola realtà è necessaria per realizzarne una più grande: quella della varietà.

La Teresa sedicenne ha fatto proprio questo concetto e di certo ha molte meno certezze ma tanta più voglia di scoprire il diverso. Questo non significa che io abbia completamente cancellato i consigli o i valori con cui sono cresciuta, anzi, spesso gli “stai attenta, sai quanto vali” o “sii sempre diretta, la sincerità viene apprezzata”, hanno permesso a quella rete di ingranaggi che il mondo adulto, tanto desiderato, nasconde di non farmi travolgere. Oggi, tuttavia, se mia madre mi venisse a dire “non correre perché c’è il rischio che ti sbucci il ginocchio”, inteso come metafora di un’esperienza più ampia, senz’altro disubbidirei con il rischio di farmi male e essere messa in punizione, perché, non è detto che da quella ferita rimarrà necessariamente una cicatrice, come, senz’altro, non è certo che la mia pelle reagisca bene all’istante.

Angelina Napolitano, IV C - Filosofia

Durante gli anni in cui Cartesio a modo di conoscere la guerra in prima persona, dirà, che sta

conoscendo il grande libro del mondo. Il 10 novembre 1619, in una notte, mentre era accampato con l’esercito sul Danubio, vede in sogno i principi della nuova scienza matematica /geometrica, egli appare in sogno la necessità di riformare il sapere.

CARTESIO: ”ciao popolo, io sono Cartesio, l’inventore del nuovo metodo, creato durante tutte le guerre in cui mi sono visto coinvolto, in particolare in quella di dei trent’anni”.

MINA :” ciao Cartesio, Facci sentire un po’ su cosa si basa questo metodo“.

CARTESIO:” il mio metodo è prevalentemente matematico. Ero attanagliato dal dilemma di come distinguere il vero dal falso...”

PLATONE : ”anche io ero attanagliato da questo problema!“

CARTESIO: "senza, però, appellarsi a principi divini“

MINA :” E come hai fatto a distinguere il vero dal falso? Io ancora non ci sono riuscita!“

CARTESIO:” sono stato anni ad elaborare questo metodo e sono arrivato alla conclusione che, l’unico organo umano che permette all’uomo di elaborare un metodo, per distinguere il vero dal falso è la ragione.“

MINA:” questo è un razionalismo moderno?!“

CARTESIO :” esatto, però ha la pretesa di essere scientifico, un razionalismo che deve evitare nella spiegazione della realtà, il soprannaturale e che deve evitare nella spiegazione della realtà, i dogmi.la ragione deve formare un metodo scientifico questa ragione deve essere alla base di tutto il sapere, per esempio la fisica, la matematica, la geometria, ma anche quando mi occupo di anima lo devo fare a partire dalla ragione. Per questo è tutto riconducibile alla matematica“.

MINA:” quindi tu stai dicendo che ciò che vediamo, é ciò che è?“

CARTESIO:” oddio, mi stai facendo venire i dubbi“.

MINA:” E se tutta la realtà che sto vivendo non fosse altro che un sogno?“.

CARTESIO :” oddio, magari c’è un demone che si diverte ad ingannarci ed alterare la realtà!“

MINA:” Cartesio avevi detto di essere riuscito a distinguere il vero dal falso, sei solo un bugiardo! Come faccio ad avere la certezza che ciò che appare non sia distante da ciò che è?“

CARTESIO:” mina io sono un fedele cattolico, io credo in un Dio buono, in un Dio giusto che garantisca la corrispondenza tra la Rex cogitans e la rex extensa, la rexcogitas È la realtà psichica e sono certo che esista, perché io esisto come essere pensante, la certezza che esista al mondo esterno, ovvero la Rex extensa mi é garantita da Dio.”

MINA:” io non credo in Dio”

CARTESIO :” cara Mina, proprio quando dici di non credere in Dio, stai affermando la sua esistenza“.

MINA:” come fai a dimostrare la sua esistenza?“

CARTESIO :” Per dimostrare l’esistenza di Dio, si deve partire dalle idee, perché sono il contenuto della mente. Ci sono tre tipi di idee esistenti: la prima è l’idea avventizia, ovvero l’idea che deriva dall’esterno, dall’esperienza dei sensi.

MINA:” ma i nostri sensi non possono ingannarci?“

CARTESIO:” sì, infatti nessun grado o forma di conoscenza può sottrarsi al dubbio, neanche la matematica“.

THOMAS HOBBES :” Cartesio, io sono un materialista e penso che ci sia qualcosa di materiale, come il cervello, la cui attività è appunto il pensiero“.

CARTESIO :” no Thomas, c’è una separazione tra pensiero in materia, la devi interpretare in modo totalmente “meccanicistico“ e rimuovi dal tuo pensiero i residui finalisti, magici e astrologi!“

Chiara Taddeo, IV C - Filosofia

È una delle tipiche sere estive e l'aria calda e piacevole di agosto accompagna la lettura di un libro altrettanto piacevole. Per Sofia però questa lettura è insoddisfacente: Edoardo Ruggero è sempre stato il suo scrittore preferito ma questa volta è assolutamente in disaccordo con la tesi del suo testo. Lei è una sedicenne spensierata, è istintiva, segue il suo cuore: come può, un libro sul dubbio, fare al caso suo? "Fortuna che domani incontrerà il signor Ruggero." Pensa prima di andare a dormire.

Il mattino seguente arriva e Sofia si dirige alla libreria Il Cogito dove Ruggero sta parlando ai presenti del suo libro. Lui è un uomo che ha sempre cercato "il vero" del mondo e il suo libro è basato proprio su questo.

"Vi spiegherò un metodo per distinguere il vero dal falso" Dice ai suoi ascoltatori.

"Il mio metodo è basato su quattro regole: l'evidenza perché bisogna partire sempre da idee chiare e distinte, l'analisi che consiste nello scomporre un problema complesso in fattori semplici, la sintesi che consiste nel tornare dal semplice al complesso gradualmente e l'enumerazione e la revisione perché bisogna sempre controllare che l'analisi e la sintesi siano state condotte correttamente. Per far sì che questo metodo funzioni dovete però dubitare di tutte le vostre conoscenze sia sensibili che

intellettuali."

Si intravede una mano alzata, è proprio quello di Sofia che dice: "Nel suo libro lei

mette in dubbio anche la matematica, ma come posso mettere in dubbio che 2+2 faccia sempre 4?"

"È proprio questo il punto, ragazzina" Risponde Ruggero. "2+2 nella nostra mente fa sempre 4. Ma se un genio maligno avesse fatto a tutti un incantesimo e questa verità fosse solo nella nostra testa? Se qualcuno ci avesse messo in realtà delle lenti blu alla nascita e dunque il mondo che vediamo non fosse il mondo reale?"

Sofia ci pensa, non è convinta di ciò. Per lei l'attrazione verso le cose è sempre sincera. È una questione di fiducia. Tutti cercano di arrivare alla realtà ragionando, ma è una questione di colpo d'occhio. In tutte le grandi cose subentra sempre il cuore: è il cuore per Sofia il vero intuito. Quindi si apre un vero e proprio dibattito tra lei e lo scrittore e gli chiede: "Lei, signor Ruggero, dubita di tutto e non ha certezze nella sua vita?"

"Oh ragazzina, posso sapere il tuo nome?"

"Sofia"

"Ecco Sofia, hai mai sentito la frase 'Cogito Ergo Sum'? Puoi dubitare di tutto, ma non del fatto di dubitare e quindi pensare. Io penso, dunque esisto. È questa la mia certezza. Il cogito però non è solo esercizio, ci fa capire che noi siamo pensiero."

Sofia è ancora più confusa, questa non le sembra affatto un’intuizione.

“Ma…signor Ruggero, a me sembra che lei sia entrato in un circolo vizioso, questa non è altro che la regola dell’evidenza e il cogito derivando da un principio non può essere fondamento!”

“Dici, Sofia? Io non dimostro a me stesso di essere pensiero…penso e basta! Il cogito è autoevidenza.”

“Ma è pur sempre una deduzione” ribatte Sofia. “Tutto ciò che pensa esiste, dunque il fatto che io esisto è solo una conseguenza.”

Ruggero sorride, si aspettava questa risposta.

“Oh, cara mia” le dice avvicinandosi. “Non ho mai detto che tutto ciò che pensa esiste, parlo solo per me. Sono certo di esistere perché penso, ma non sono certo che tu esista.”

Sofia si siede un attimo a riflettere, i dubbi che ha sono ancora molti, dunque, dopo un breve silenzio, si alza e risponde: “Cogito ergo sum: penso dunque sono. Di conseguenza posso dire che passeggio dunque sono una passeggiata”.

Ruggero sorride ancora, sa sempre come rispondere.

“Ciò che fai non ti dice chi sei. Non passeggi sempre, ma pensi costantemente. Il pensiero è essenziale e ti dirò di più: se sei certo di ciò che sei, in parte cade anche il genio maligno. Hai mai sentito parlare di Dio?”

“Non credo in Dio” risponde Sofia.

Ruggero le mette una mano sulla spalla e le dice: “Ecco, io ti convincerò del contrario: abbiamo idee innate, avventizie e fattizie. L’idea di infinito è innata ma di certo non dipende da noi, esseri finiti e imperfetti, l’idea di una sostanza perfetta, eterna e onnipotente. Dunque l’idea di infinito nasce da un ente infinito esistente che è Dio. Io sono imperfetto e finito, e la consapevolezza di ciò mi porta alla consapevolezza dell’esistenza di un essere perfetto e infinito che per essere considerato perfetto deve per forza esistere. Mi segui?”

Sofia fa un cenno con la testa e Ruggero continua: “E secondo te, un essere così perfetto può mai fare una cosa imperfetta come ingannarmi? No, dunque tutto ciò che mi appare chiaro ed evidente deve per forza essere vero”.

Sofia continua a non fidarsi ma ormai si è fatto tardi e la libreria deve chiudere. Decide di andare via senza proferire parola ma ad un tratto si volta e porge la sua ultima domanda: “ E se tutta questa teoria fosse il suo divertissement per sfuggire alla noia e all’infelicità e dunque rappresenti la più grande delle sue miserie?”

Esce e si chiude la porta alle spalle. Nessuno dei due era stato capace di convincere l’altro ma una cosa era certa: nessuno dei due avrebbe mai più visto la vita allo stesso modo.


*Ruggero rappresenta il pensiero di Cartesio e Sofia rappresenta sia il pensiero di Pascal che le critiche al pensiero di Cartesio

Lucia Pia Crisci, V C - Storia

Arturo è un giovane chiamato alle armi, viene dal sud: in prima o in terza persona, racconta con gli occhi di questo personaggio di fantasia le vicende della prima guerra mondiale negli anni 1917-1918. Descrivi le difficoltà, la quotidianità , le angosce e le speranze di questo ragazzo.


In ricordo del mio caro nonno Arturo, sopravvissuto alla Prima Guerra Mondiale, ho deciso di aprire il suo diario per leggerlo ai miei figli e fargli capire l’importanza di tutto ciò che hanno e che non gli è stato sottratto in questa pandemia .

‘’Ciao, sono Arturo e oggi ho voluto farmi coraggio e ricordare con voi la mia tragica esperienza in guerra.

Voglio ricordare in primis, il mio primo anno in guerra e come ben sapete anche gli anni più difficili della guerra: 1917-1918.

Sapete dai libri di storia che la guerra ha avuto lunga durata e il nostro Paese stava subendo un ulteriore aumento delle difficoltà economiche e nel febbraio 1917 , poco dopo il mio arrivo in guerra, i Tedeschi decisero di intensificare la guerra sottomarina e ciò causò l’ingresso degli USA al fianco dell’Intesa ( 6 Aprile 1917) . Il 1917 fu l’anno decisivo per la guerra: il regime zarista fu sostituito dalla repubblica, e fu obbligata a delle forti concessioni; la Germania ottenne la Polonia e i Paesi baltici , mentre l’Ucraina diventava indipendente.

In seguito alla crisi della Russia, l’Austria e la Germania spostarono delle truppe sul fronte occidentale e su quello italiano.

Gli austriaci , appoggiati dai tedeschi , con un forte attacco riuscirono ad abbattere le nostre linee a Caporetto, il 24 ottobre 1917 … non dimenticherò mai questa data per quanto in quel giorno io e i miei compagni abbiamo sofferto in qualsiasi modo un uomo può soffrire. Questa sconfitta è stata causata , non solo dalle difficoltà economiche e quindi la costrizione a combattere frontalmente con le SOLE forze fisiche, ma anche per l’inefficienza del nostro capo militare Luigi Cadorna. Il comando del nostro esercito passò nelle mani del comandante Armando Diaz che decise di risistemare una nuova linea di difesa sul fiume Piave . Il nuovo comandante puntava sulla ripresa dell’esercito , per cui ne curò meglio l’addestramento . Evitò , inoltre tutte le azioni che potevano portare ad un inutile sacrificio di noi soldati , che eravamo stremati e privi di forza fisica e psicologica per continuare la guerra.

La Germania e l’Austria iniziarono ad avvertire il blocco economico e si sentirono circondate dall’Intesa , il che li portò a varie sconfitte. L’esercito austriaco fu sconfitto il 29 ottobre 1918 nella battaglia di Vittorio Veneto , e l’armistizio di Villa Giusti dichiarò l’Italia vincitrice. L’imperatore tedesco Guglielmo II lasciò il trono e si proseguì alla firma dell’armistizio di Rethondes. Terminava cosi la prima guerra mondiale. (8milioni e mezzo di morti).

Oltre questo aspetto negativo , che vi ho ora raccontato , noi ragazzi eravamo stanchi soprattutto psicologicamente, le condizioni della guerra non le avrei mai immaginate in quel modo vivendo a casa mia condizioni più che agiate .

La mia entrata in guerra mi ha cambiato la vita, il modo di pensare e ancora oggi dopo tanti anni tremo al ricordo di tutto ciò.

Personalmente , l’esperienza più brutta è stata quella delle trincee, sistema difensivo maggiormente utilizzato. La trincea era un fossato dove noi ci proteggevamo dagli attacchi nemici e dove passavamo la maggior parte del nostro tempo , facendole diventare la nostra dimora. All’interno delle trincee le condizioni di vita erano estreme . Le condizioni igieniche erano , quindi , pessime , noi sopravvissuti condividevamo il loro posto con i cadaveri dei compagni caduti e i bombardamenti alle trincee causavano un numero sempre più alto di vittime. La mancanza di igiene trasformò presto le trincee in ricettacoli di topi che danneggiavano l’equipaggiamento e anche le riserve di cibo. Frequenti erano , quindi , le epidemie in particolare di colera , malaria .

Una delle caratteristiche del primo conflitto fu la tragica presenza della morte, con i quali noi soldati purtroppo dovevamo convivere.

Vivevamo paure individuali e panico collettivo, la nostra resistenza era messa a dura prova dai bombardamenti . Il momento peggiore , però, era quello dell’assalto alle trincee dei nemici. Le probabilità di morire erano alte anche durante l’assalto , perché i soldati rimanevano impigliati nel filo spinato , diventando dei bersagli per i nemici.

Tra di noi regnava una solidarietà che ci permise di continuare nonostante tutto.. Tutti erano costretti a combattere , sia per l’attaccamento alla nazione e alla patria , sia perché il comandante aveva il diritto di vita o di morte sul soldato stesso . Subivamo una pressione psicologica che ci induceva implicitamente a continuare a combattere, ci dicevano che avremmo trovato difficilmente lavoro e ci avrebbero denunciati oltre che coprire di vergogna le nostre famiglie volevano anche ridurci in miseria.

Come se tutto ciò non bastasse , lo sviluppo scientifico e tecnologico portò anche alla diffusione di nuove armi chimiche : i gas . Questi ultimi causavano morte per soffocamento o avvelenamento , ustioni e piaghe. Inizialmente gli eserciti non possedevano maschere antigas che arrivarono successivamente . La mia speranza e dei miei compagni, anche loro giovanissimi , era la stessa: arrivare al giorno dopo e magari anche uscirne vivi. Ogni giorno ricordavo quanto sembrava lontano da me lo scoppio della guerra , il 26 Aprile 1915 con la sottoscrizione del Patto di Londra e la non curanza degli italiani interventisti iniziai a farmi coraggio e accettare che purtroppo avrei vissuto la Prima Guerra Mondiale.

Il ricordo felice è quando vennero finalmente , nel 1919, emanati i trattati di Pace anche se il nostro Paese non ebbe i vantaggi in cui sperava . Le reazioni ai trattati di pace , però , furono davvero violente in Germania , i Tedeschi ritenevano di essere stati sottoposti a condizioni dure a causa della Francia, la quale non era soddisfatta. Dopo i trattati la situazione mutò completamente. I veri vincitori della guerra furono gli Stati Uniti che divennero la prima potenza mondiale .

Triste è il ricordo di questa guerra, ma la speranza , la forza e la fede mi hanno aiutato di sicuro ad uscirne vittorioso , poter tornare a casa e riabbracciare mia mamma e mia sorella e aver avuto modo di lasciare vivo il mio ricordo. ‘’

Queste le parole di mio nonno Arturo che allora era solo un ragazzino , come i miei figli, che a soli 21 anni ha vissuto tutti gli orrori della guerra.



Noemi Pia Luongo, V C - Storia

Arturo è un giovane chiamato alle armi, viene dal sud: in prima o in terza persona, racconta con gli occhi di questo personaggio di fantasia le vicende della prima guerra mondiale negli anni 1917-18. Descrivi le difficoltà, la quotidianità, le angosce e le speranze di questo ragazzo.


Il 1917 fu per me un anno durissimo. Da soldato del sud Italia, avevo perso la fiducia nei miei comandanti, ero sempre più demoralizzato. Sul fronte italiano, dopo la Strafexpedition, non c’erano state novità. Noi soldati italiani proseguimmo le offensive lungo il fiume Isonzo e riuscimmo a liberare finalmente Gorizia. Il 24 ottobre 1917, a Caporetto, le linee italiane furono sfondate da un’offensiva austro-tedesca. Fummo costretti a ritirarci precipitosamente, subendo gravi perdite. Questa disfatta portò gravi rivolgimenti. Si formò un nuovo governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando. Fu riorganizzato l’esercito, che aveva perduto 400000 uomini, fra morti e feriti, e poiché occorrevano nuove forze, furono chiamati a combattere anche altri miei connazionali nati nel ’99. A guidarci, non fu più il generale Cadorna ritenuto responsabile del disastro, ma il generale Armando Diaz. A noi, impegnati al fronte, promisero premi e vantaggi economici per il dopoguerra. Nella guerra di trincea il fango, gli escrementi, i pidocchi e i topi, l’arroganza dei comandanti e le inutili carneficine ci avevano logorato non solo nel fisico, ma anche nello spirito. I nostri occhi erano sbarrati dal dolore e dal terrore. Dalla nostra trincea, udivamo un continuo lanciare di bombe, mine e granate a mano. Non vedevo più né cielo, né terra. Ero costantemente sotto il pericolo della morte. Ben rammentavo le facce dei miei compagni. Davanti ai miei occhi si stendevano campi coperti di uomini falciati da proiettili. Quanti corpi caduti senza croce e senza tomba, sotto la neve. L’odore di questi corpi era pesante ed insopportabile. Dopo la tragedia di Caporetto agli ufficiali fu ordinato di trattarci in modo più umano, garantendo turni di riposo effettivo, concedendo licenze, dando appoggio ed assistenza a noi e alle nostre famiglie. Una cosa soprattutto era cambiata: a una guerra offensiva, si era sostituita una guerra in cui ci si batteva per difendere la propria terra, il proprio Paese. Il 1918 fu l’anno decisivo del conflitto: oramai l’Austria-Ungheria e la Germania non avevano più forze per continuare la guerra. Nel mese di luglio, una grande controffensiva congiunta di Francesi, Americani ed Inglesi sul fronte occidentale obbligò le truppe austro-tedesche ad una rapida ritirata dalla Francia e dal Belgio. Sul fronte italiano, in ottobre, il nostro esercito assieme agli alleati attaccarono l’esercito austriaco a Vittorio Veneto, sbaragliandolo. Soldati austriaci, croati, sloveni abbandonarono i fronti cercando la via di casa. La monarchia austro-ungarica fu costretta a firmare un armistizio. L’imperatore Carlo D’Asburgo abdicò e un’assemblea nazionale proclamò la nascita della repubblica austriaca. Anche l’imperatore tedesco Guglielmo II abdicò e fuggì in Olanda. Il 9 novembre fu proclamata la repubblica tedesca. L’11 novembre vi fu il primo atto del nuovo governo, ossia la firma di un armistizio fra la Germania e le forze dell’Intesa (armistizio di Rethondes).

La Grande Guerra era finita. Il numero di vittime aveva superato qualsiasi scontro verificatosi precedentemente e per le sue dimensioni straordinarie il conflitto lasciava in eredità gravi problemi economici e sociali. Quando sono tornato, non ero diverso da come ero partito. La guerra non mi aveva mai lasciato; ho sempre in testa le immagini di paura e di orrore ma anche talvolta di speranza che questi fatti possano non accadere più.


Pamela Pia Luongo, V C - Storia

Giovanni è un giovane interventista: in prima o in terza persona, racconta con gli occhi di questo personaggio di fantasia, lo scontro tra neutralisti e interventisti che precedette la prima guerra mondiale. Sappi descrivere i valori e gli ideali del giovane, collocandolo politicamente e distinguendo le sue posizioni da quelle degli altri interventisti e da quelle dei neutralisti

Italia 1914, Antonio Salandra che presiede il governo, apprende da un servizio via radio l’uccisione dell’erede al trono d’Austria, Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia, freddati da Gavrilo Princip e, capisce così che si sarebbe scatenato uno scenario agghiacciante che avrebbe messo in ginocchio gran parte dei paesi. In Italia si aprì un dibattito sulla necessità di intervenire o meno a fianco dell’intesa, poiché, l’accordo prevedeva l’intervento solo in caso di guerre difensive, ma l’Austria e la Germania erano gli aggressori non gli aggrediti. Neutralisti ed interventisti, è così che si divise il paese. Giovanni 23 anni, interventista patriota, combattevo con fare fiero e costante presenza a fianco di intellettuali come D’Annunzio e Papini che non indugiò ad affermare che c’era bisogno di fare spazio per respirare meglio e la guerra fosse “ la sola igiene del mondo”. Noi, interventisti di destra, avevamo come obiettivo quello di liberare Trento e Trieste dal dominio austriaco e la guerra era l’unico modo per elevare i profitti. Appartenevo ad una famiglia benestante dell’epoca ma decisi comunque di voler entrare a far parte degli interventisti andando contro gli ideali neutralisti dei miei genitori. Quando iniziarono i primi tumulti, incominciai a convincermi sempre di più che la guerra fosse giusta, c’era bisogno di cambiare radicalmente la situazione e solo noi giovani sprezzanti del pericolo e ignari di quello che sarebbe potuto succedere, potevamo fare ciò. Eravamo spinti a combattere per elevare il valore del tricolore italiano, tenevamo alte le spade per proteggere l’unificazione del nostro paese e per elogiare e ringraziare Vittorio Emanuele II per la grande svolta di cui era il fautore. Non provo vergogna nel dire che all’epoca pensavo fosse giusto anche dimezzare la popolazione, facendo sì che l’Italia fosse un paese abitato solo da persone valorose e coraggiose. La parola chiave di questa prima guerra era proprio “CORAGGIO”, c’era bisogno di saper impugnare bene un fucile, di sapere quando fosse il momento giusto di fare fuoco, di non avere pietà dell’altro, doveva esserci solo un vincitore. Eravamo, dunque, una fazione di giovani che erano stati forgiati affinché diventassimo uomini degni di proteggere valorosamente e con il patriottismo che avrebbe dovuto contraddistinguerci, la grande Italia. Eravamo sottoposti a vessazioni e pressioni, violenze anche psicologiche che ci portavano a percepire sensazioni nuove mai provate prima, non eravamo abituati a svegliarci con i rumori degli spari, ad indossare per settimane gli stessi vestiti, a dover diventare rifugio per pidocchi e pulci, ma in quel momento era giusto che fosse così. Ho visto nel mio regimento uomini che avvertivano palpitazioni, tremori, non solo per il freddo ma anche per paura che un passo compiuto potesse essere l’ultimo, alcuni di loro smettevano addirittura di parlare, perdevano il senno, non riuscivano ad essere più i soldati valorosi di un tempo. Non nascondo di aver visto morire molti di quelli che erano diventati oramai i miei amici, ma la tristezza che mi pervadeva in quel momento lasciava nell’immediatezza spazio all’idea che non meritavano di essere chiamati italiani. Gli interventi di sinistra, erano più plebiscitari e pensavano di affiancare i paesi democratici dell’Intesa per debellare la potenza tedesca e austriaca. Nelle prime file di tale schieramento si distinse l’importante figura di Benito Mussolini. Tutto sommato, noi interventisti rappresentavamo una minoranza ma a gran voce facevamo valere le nostre tesi poiché, d’altronde avevamo anche l’appoggio del re e dei giornali. I neutralisti, maggioranza della popolazione nella quale rientravano anche i parlamentari, non volevano un’Italia bellica, infatti, divulgavano l’ideale di pace. Tra i sostenitori di tale asserzione spiccava un personaggio già conosciuto, ovvero, Giovanni Giolitti, che voleva ottenere dall’Austria Trento e Trieste offrendo in cambio la neutralità. Mentre il paese discuteva se intervenire o meno, il governo attuava misure dallo stampo diplomatico, infatti, il 26 Aprile 1915, Sonnino sottoscrisse il Patto di Londra che vincolava l’Italia ad entrare in guerra nel giro di un mese e che le garantiva in caso di vittoria dell’Intesa, Trento, Trieste, l’Istria, la Dalmazia e la cessione di altri territori che le spettavano. In seguito, il 3 Maggio, uscimmo dalla Triplice Alleanza e il 24 maggio 1915 dichiarammo guerra all’Austria-Ungheria. In quello stesso anno, però, noi dell’esercito italiano non eravamo ancora pronti a sostenere un conflitto così difficile, ma il comandante Cadorna fu in grado di formarci alla perfezione impartendoci regole ferree e durissime discipline, che non ci permisero più di esternare sensazioni tipiche di un uomo, ma potevamo essere paragonati ai freddi carri armati che giunsero in futuro ad essere utilizzati. Fra giugno e dicembre del 1915 si tennero le prime quattro battaglie dell’Isonzo che causarono un rilevante numero di vittime, mentre, nel giugno del 1916, l’Austria attaccò il nostro fronte fino ad occupare Asiago, ma l’offensiva si arrestò, Cadorna contrattaccò e riuscì a liberare Gorizia il 9 agosto. A distanza di anni, rimugino sulle mie scelte e suoi miei atti, dopo aver visto il mio paese in ginocchio, in grave difficoltà, mi rendo conto di essere stato tra i fautori di questa decadenza, ora me ne pento, ma posso dire che vivere in quei giorni non era semplice, c’era sempre la paura di morire, vivevamo con una zavorra sul collo e non eravamo lucidi nel prendere le decisioni, sono riuscito a sopravvivere, forse perché ero ligio al mio dovere, ora spero solo che tutte quelle vittime, gran parte fucilate da me, non siano dimenticate, e che tutto il sangue versato non renda vani i loro sacrifici. Vivo gli ultimi istanti della mia vita con la speranza di lasciare un mondo migliore.

Ilaria Vaccariello, V C - Storia

Arturo è un giovane chiamato alle armi, viene dal sud: in prima o in terza persona, racconta con gli occhi di questo personaggio di fantasia le vicende della prima guerra mondiale negli anni 1917-18. Descrivi le difficoltà, la quotidianità, le angosce e le speranze di questo ragazzo


Caro figlio mio,

La guerra era ormai iniziata da 3 anni , ero ancora un ragazzino di 15 anni , come te , quando tutto ciò ebbe inizio. Inizialmente l’Italia , sotto il governo di Antonio Salandra si dichiarò neutrale , causando lo scontro tra neutralisti ed interventisti , ma successivamente con il Patto di Londra, le succulente proposte delle nazioni che facevano parte della triplice intesa , diedero all’Italia la spinta per partecipare alla guerra. Nel 1915 l’Italia entra in guerra. Ricordo , che, fin da subito, qualche mio compagno di giochi , di qualche anno più grande di me , fu chiamato a combattere la Grande Guerra come soldato in trincea. Non ho più avuto la gioia di vedere il suo volto, le quattro giornate dell’Isonzo erano state fatali per lui . Di conseguenza speravo che, qualora avessi raggiunto la maggiore età, non sarebbe toccata a me la stessa sorte dei miei amici….e invece…

Era l’anno 1917, poco dopo il compimento dei miei 18 anni , che arrivò “la lettera della mia fine”. Anche io dovevo andare in trincea a combattere. Partì dal mio piccolo paesino in provincia di Bari e dopo più di una giornata di viaggio , durante la quale mi fu consegnata una divisa consumata, stivali molto più grandi della mia taglia , e un fucile che non sapevo neanche maneggiare, arrivai alla mia postazione.

Non sapevo cosa fosse la guerra , in radio, sui giornali, la situazione non sembrava mai così grave , evidentemente lo Stato, attraverso la sua propaganda, ingannava noi che eravamo lontani dal fronte e ci invogliava a continuare questa grande lotta; ma il contatto ravvicinato con le trincee non rappresentava altro che un inferno a cielo aperto.

Infatti , il sistema difensivo maggiormente utilizzato durante la prima Guerra Mondiale fu quello delle trincee. La trincea era un fossato dove i soldati si proteggevano dagli attacchi nemici e dove passavano la maggior parte del loro tempo , facendole diventare la propria dimora. All’interno delle trincee le condizioni di vita erano estreme , molte erano le malattie che venivano trasmesse dall’ambiente malsano e dagli animali che vivevano al loro interno. Ricordo che durante i momenti di pausa , dove ci concedevano riposare un attimo gli occhi, i topi diventavano i nostri nemici, punzecchiandoci e rosicchiando le nostre divise e i nostri miseri averi , o ancor peggio , facendo dei nostri compagni caduti il proprio bottino. Le condizioni igieniche erano , quindi , pessime , noi soldati sopravvissuti condividevamo il nostro posto, appunto, con i cadaveri dei compagni caduti e i bombardamenti alle trincee causavano un numero sempre più alto di vittime. Le probabilità di morire erano alte anche durante l’assalto , perché i soldati rimanevano impigliati nel filo spinato , diventando dei bersagli per i nemici. Mi chiedevo continuamente come fossi ancora vivo. Tutti erano costretti a combattere , sia per l’attaccamento alla nazione e alla patria , sia perché il comandante aveva il diritto di vita o di morte sul soldato stesso. Quando arrivai , il comandante si chiamava Luigi Cadorna : aveva un cuore di pietra e zero pietà per noi soldati , ci trattava come carne da macello e ci mandava a morire nei suoi attacchi frontali , dove ovviamente venivamo sterminati dai nemici austriaci , molto più forti e pratici di guerra. Negli stessi anni ci fu anche l’introduzione di nuove armi da combattimento : i gas, i quali causavano morte per soffocamento o avvelenamento , oltre a gravi ustioni e abrasioni della pelle , e ricordo che noi soldati più giovani fummo gli ultimi a ricevere le maschere antigas che arrivarono , anche in ritardo. A partire dal 1917 la Germania intensificò la guerra sottomarina , e ciò causò l’ingresso degli USA al fianco dell’Intesa. Il 1917 fu l’anno decisivo per la guerra: la Russia fu costretta ad abbandonare la , infatti a causa di rivoluzioni interne , il regime zarista fu sostituito dalla repubblica, e fu obbligata a delle forti concessioni: la Germania ottenne la Polonia e i paesi baltici , mentre l’Ucraina diventava indipendente. E qui arrivò anche il nostro momento di sconfitta : era il mese di Ottobre , ma sembrava esser passato un secolo da quando mi trovavo lì. L’Austria , capendo ormai la nostra debolezza decise di sferrare un forte attacco, abbattendo più della metà del nostro esercito , come mosche che cadono al suolo , così i soldati morivano in un attimo. La battaglia di Caporetto fu una delle più grandi sconfitte subite dalla nostra Italia , tanto che sotto la guida del comandante fummo costretti ad a ritirarci dalla battaglia. Da qui anche il nostro comandante , Luigi Cadorna , si rese conto dei suoi errori e abbandonò il fronte e l’incarico passò ad un uomo che sembrava essere molto più valoroso e temperato : Armando Diaz; fu , proprio lui , a salvarci alla fine :riuscì a bloccare l’offensiva austriaca sul Piave . anche sugli altri fronti le truppe anglo-francesi, nostre alleate , ebbero la meglio contro la forte Germania : durante la battaglia di Marna e di Amiens , essa subì gravose sconfitte . La Germania e l’Austria, allora, iniziarono ad avvertire il blocco economico e si sentirono circondate dall’Intesa: l’esercito austriaco fu sconfitto il 29 ottobre 1918,quasi più di un anno dopo che ero partito per il fronte , e l’armistizio di Villa Giusti dichiarò l’Italia vincitrice. L’imperatore tedesco Guglielmo II lasciò il trono e si proseguì alla firma dell’armistizio di Rethondes. Terminava così la prima guerra mondiale (8 milioni e mezzo di morti). Le successive trattative di pace stabilirono la nuova carta politica e fisica dell’Europa del XX secolo.

Ma alla fine , mi chiedo ancora : come sono sopravvissuto a tutto ciò? Mi feci forza , una forza tale che un ragazzo di 18 anni non possedeva , vedevo morire i soldati più abili e forti di me , vedevo morire coetanei con cui avevo potuto scambiare massimo 2-3 parole , ma che per me in quel momento cosi aspro e forte erano diventati fratelli, e sapendo che la mia famiglia a casa non avrebbe mai ricevuto notizie di me , volevo far di tutto per tornare un giorno , anche senza una gamba , o un braccio , ma con la consapevolezza di essermi battuto per amore del mio popolo , per vendetta del mio compagno , i cui occhi non ho più rivisto , e per la mia famiglia , che combatteva la guerra sul FRONTE ESTERNO. Non ero più un ragazzo di 18 anni dopo quel periodo passato lì , ero un uomo che tremava ancora quando sentiva bussare il campanello di casa , il pensiero mi rimandava sempre a quelle sirene di attacco in trincea . Lì non avevo mai un attimo per pensare , correvo , aiutavo chi era in difficoltà , e anche il sonno diventava un mero bisogno. Ad oggi però ho lucido nella mia mente tutto quel tempo passato in quell’inferno , e voglio e pretendo che tutto ciò rimanga per sempre impresso nelle menti dei posteri , compresa nella tua ,mio caro figlio Armando ….. il tuo nome ha un grande significato per me!



Lorenzo Bove, V D - Storia


Emanuela Capuano, V D - Filosofia

Claudio e Andrea, erano due adolescenti apparentemente migliori amici, tra i due sembrava esserci un’armonia particolare, andavano d’accordo su tutto, raramente si venivano a creare discussioni o dibattiti, ma questo rapporto nascondeva insidie particolari, quali: cedimenti, sottomissioni, condiscendenze. Questo lo sapeva benissimo Andrea, che soffriva la sua condizione di devoto in questo legame tutt’altro che equilibrato. Claudio e Andrea sono due autocoscienze che sono diventate tali dopo essersi riconosciute a vicenda attraverso un momento di lotta e di sfida. I due frequentano la stessa scuola e sono compagni di classe, hanno rafforzato la loro amicizia grazie ad un lavoro di gruppo. Proprio quel giorno iniziò il vero combattimento tra le due autocoscienze, Andrea cercava di proporre idee, Claudio era sempre pronto a contraddirle con altre che a suo parere erano più funzionali. Andrea, già molto timido caratterialmente, dopo aver compreso che le proprie idee non sarebbero mai state prese in considerazione da Claudio, si rese conto che forse sarebbe stato meglio acconsentire a quelle di lui. E’ qui che Claudio, mostrandosi sicuro di sé prevalse sull’autocoscienza di Andrea, ottenendo così la posizione di leader e padrone. Da quel giorno Andrea si sottomise alle decisioni di Claudio. In ogni uscita, era lui a decidere dove andare, cosa fare e con chi. Andrea anche quando non aveva voglia e voleva semplicemente starsene a casa, per paura di essere giudicato e di non essere più considerato dal gruppo, annuiva alle richieste di Claudio. Temeva la solitudine, non aveva mai avuto un amico come Claudio, nessuno prima d’ora lo aveva fatto sentire parte di un gruppo come lui e proprio adesso che aveva trovato qualcuno, avrebbe fatto di tutto pur di continuare a far parte di esso, anche a costo della sua felicità. Molte volte Claudio gli chiedeva i compiti per casa svolti, soprattutto quelli di matematica, a volte anche con l’aggiunta di spiegazioni perché non seguiva mai in classe e quindi si trovava spesso in difficoltà. Andrea puntualmente concedeva non solo i suoi appunti presi in maniera ordinata e rigorosa, ma anche tutti gli esercizi. Inoltre, in altre occasioni Andrea era stato costretto a passare i test scolastici e capitava che Claudio ottenesse anche risultati migliori di quelli di Andrea. Andrea inizialmente cercò di passarci su e di non dare troppa importanza alla cosa, ma quando la questione si ripresentò, iniziò a sentirsi sfruttato, iniziò a capire che Claudio senza i suoi appunti precisi, che richiedevano ore di lavoro, non sarebbe riuscito a raggiungere i voti che aveva; Claudio, dipendeva da lui e dal suo lavoro. Il culmine venne raggiunto quando Andrea, sfogliando uno dei suoi libri di filosofia, si ritrovò il pensiero di Marx che gli ricordò il parallelismo precedentemente studiato con Hegel. Quel proletariato che con la lotta di classe doveva abbattere la minoritaria parte dominante, gli rimembrò Hegel che nella Fenomenologia dello spirito presenta una delle figure più importanti, quella del servo-padrone. Quella che per i marxisti era la vittoria dell’operaio sul padrone e per Hegel la vittoria del servo sul padrone, ma con valore speculativo e non politico come quello di Marx, per Andrea risultò essere il suo rapporto con Claudio. Egli aveva lasciato che le decisioni di Claudio prevalessero sulle sue, aveva temuto la sua esclusione dal gruppo e quindi mostrato la sua paura della morte, intesa in questo caso come rifiuto, si era completamente sottomesso alle sue scelte lasciando prevalere l’autocoscienza di Claudio. Ma Andrea tramite il suo servizio e quindi prestandosi per Claudio e grazie al suo lavoro, che consiste nello studio, è riuscito a comprendere che in conclusione è Claudio, il cosiddetto padrone, ad essere dipendente da lui e dal suo servizio. Il lavoro infine ha forgiato il carattere di Andrea, lo studio gli ha permesso di raggiungere l’indipendenza e l’autonomia, ha imparato ad avere un pensiero critico, personale e attivo. Andrea è riuscito a rompere questo legame di prigionia che lo teneva legato a Claudio, fortificandosi. Adesso non teme più l’esclusione da parte di Claudio, è diventato un ragazzo libero, pronto a ritrovare in quell’apparente solitudine la libertà interiore che ha riscoperto solo tramite il servizio.

“Solo chi ha superato le sue paure sarà veramente libero” Aristotele.

Michele Gallo, V D - Filosofia

Hegel – Signore-Servo

In tutte le compagnie di ragazzi tra i 12 e i 18 anni di età vi è e vi sarà sempre una differenza di importanza tra i componenti, non per cattiveria, ma perché è così che funziona la natura umana: c’è il più “forte” che si impone sul più “debole”; anche se non in tutte le compagnie vi è il più forte, in qualunque vi è colui che viene identificato come leader implicitamente: per esempio quando si devono prendere decisioni sul da farsi, è sempre lui a prenderle con l’accordo degli altri; questi ovviamente non si reputano inferiori, almeno non esplicitamente, ma hanno bisogno di una sorta di guida, di capogruppo a cui affidare le decisioni più importanti perché già sanno che saranno scelte giuste. È il caso di Andrea e Claudio, due ragazzi della mia scuola che tutti conoscono; Claudio è il leader, mentre Andrea il suo amico devoto; si conoscono sin da bambini, ma negli ultimi anni il loro rapporto si è consolidato. Andrea è sempre stato il ragazzino timido, preso di mira dai bulletti per via dei suoi occhiali e la sua corporatura esile, mentre Claudio è sempre stato ammirato da tutti per il suo carisma e il suo aspetto (interiore ed esteriore). Questo rapporto si è risolto in questa divisione di ruoli quando i due hanno litigato poiché volevano entrambi essere leader, ma Andrea è stato costretto a cedere per paura di perdere l’unico amico che gli rimaneva e di venir poi bullizzato dagli altri ragazzi più grandi; questo è identificato da Hegel con il primo dei 3 momenti del processo signore-servo: la paura. Paura della morte, per il filosofo; paura di rimanere solo, per Andrea. Inizialmente quindi Andrea si trova in una posizione sbagliata, perché si è lasciato “sottomettere” dal più forte, avendo paura; proprio come fa un servo con il proprio padrone, temendo per la propria vita invece di rischiare per elevare la propria posizione. Tuttavia questo processo è composto da altri 2 momenti: il servizio e il lavoro. Per quanto riguarda la prima, Hegel afferma che, servendo il proprio padrone, il servo impara ad autodisciplinarsi, dominando i propri desideri, dato che le cose non sono di sua proprietà, e quindi acquisendo anche grande dignità. Per Andrea questo avviene quando è “costretto” a compiere azioni indotte da Claudio, pur se controvoglia; ad esempio scavalcare il cancello della scuola per entrare di nascosto; rubare la merenda ai ragazzini del primo anno; bere o magari fumare per sembrare più “ribelle”; oppure semplicemente uscire a tarda notte per far compagnia all’amico che si sente solo. Tutte queste azioni, vengono compiute da Andrea per entrare nelle grazie di Claudio; grazie a queste, pur non accorgendosene, Andrea ha imparato tante cose che gli saranno molto utili in futuro: autodisciplinarsi per esempio, comprendendo magari i propri limiti. Infine, per quanto riguarda l’ultimo momento del processo hegeliano di servitù-signoria, abbiamo il lavoro: con esso, il servo diventa fondamentale per il padrone, il quale comincia a dipenderne non riuscendo più a farne a meno. Dunque la subordinazione iniziale si rovescia, i ruoli si invertono: il padrone diviene servo perché è strettamente legato al suo lavoro, mentre il servo diviene padrone perché con la sua attività finisce per rendersi indipendente. Per Andrea questo si manifesta quando alle numerose azioni superficiali si aggiungono quelle più importanti: ad esempio quando Claudio comincia ad obbligarlo a fargli i compiti per scuola, a portargli la merenda da casa o semplicemente passarlo a prendere per uscire; in questi casi si nota la dipendenza di Claudio da Andrea, che pur rimanendo agli occhi altrui l’amico devoto, in realtà è diventato il vero leader, che riesce a tener saldo il gruppo proprio come un chiodo tiene salvo l’architrave: pur non facendoci caso, senza di esso l’architrave non reggerebbe.

Michele Gallo, V D - Storia

Arturo è un giovane chiamato alle armi, viene dal sud: in prima o in terza persona, racconta con gli occhi di questo personaggio di fantasia le vicende della prima guerra mondiale negli anni 1917-18. Descrivi le difficolta, la quotidianità, le angosce e le speranze di questo ragazzo

Cara madre,

sono Arturo Greco, vostro figlio secondogenito; scrivo questa lettera per rendervi partecipe degli ultimi anni che ha visto il nostro esercito battersi in guerra contro Austria e Germania al fianco della Triplice Intesa; in particolare voglio parlarvi in prima persona degli avvenimenti, le difficoltà e le speranze di chi, come me, ha prestato servizio; perché questo, dai media viene nascosto, in favore dell’elogio per la vittoria. Dopo i primi due anni di combattimento sul fronte, dal 1917 qualcosa cambiò: con la sconfitta di Caporetto, il nostro esercito sembrava in crisi, e si andava diffondendo il fenomeno del disfattismo, con la conseguente perdita di motivazioni da parte dei miei commilitoni. Non vi nascondo che anche io ci ho pensato molto: davvero ne valeva la pena? Non tanto per le perdite umane in guerra, perché quelle erano “normali”, bensì per le condizioni in cui vivevamo quotidianamente; spesso trascorrevamo settimane all’interno di fossati o trincee, aspettando una mossa del nemico, rimanendo tra i nostri rifiuti e spesso anche sopra cadaveri dei nostri compagni; e non solo: mancanza di igiene portava i topi a farci compagnia, a divorare i nostri approvvigionamenti o addirittura i resti di altri soldati; in più non rare erano le epidemie che ci colpivano come il colera o la malaria. Inoltre, se tutto ciò non era sufficiente, si aggiungevano le paure, l’ansia, gli attacchi di panico e l’angoscia, perché a volte preferiresti essere tu disteso a terra senza vita al posto del tuo amico. Inutile dire che si diffondevano anche attacchi di follia che portavano i soldati a disertare o nel peggiore dei casi al suicidio. Io posso ritenermi graziato, perché niente di tutto ciò mi ha portato via, ma non riesco ad esserne contento, perché lì ho lasciato i miei compagni, la mia seconda famiglia. Quando Cadorna si dovette dimettere, io e i restanti soldati ci sentivamo persi, abbandonati dall’unico “amico” che sapeva guidarci, ma con l’arrivo di Diaz riuscimmo a rinascere: egli attuò una disciplina meno rigida che ci alleggerì dalle inutili pressioni che l’ex comandante ci aveva posto sulle spalle e riuscimmo così a ribaltare la pessima situazione in cui ci trovavamo. Era come se la guerra fosse ricominciata da capo e lo spirito di nazione ribollisse nei nostri animi. Il 12 novembre bloccammo l’offensiva austriaca sul Piave, che ci diede di nuovo ciò che avevamo perso nei primi anni: la speranza; speranza di vincere la battaglia, di rimanere vivi e poter tornare a casa; speranza di rivedere i nostri figli, le nostre mogli e i nostri genitori; speranza di farlo con i nostri compagni e non da soli; speranza che fino ad allora sembrava persa in quelle trincee. Non tutti ovviamente ritrovarono il senno: non mancavano le fughe, le diserzioni, o l’autolesionismo per lasciare il campo di battaglia, ma chi rimaneva, lo faceva con i valori impressi in volto. Il 29 ottobre dell’anno successivo riuscimmo addirittura a sconfiggere l’esercito austriaco e posso orgogliosamente dire che ero presente, anche se con me vi erano dei ragazzini che non ce l’hanno fatta; nei giorni seguenti fu firmato l’armistizio che sanciva la nostra vittoria: era davvero finita. Sarò sempre grato a Nostro Signore per avermi concesso il rientro a casa, ma per adesso preferisco rimanere solo, almeno fin quando non mi passeranno dalla testa tutti gli orrori che ho visto con i miei occhi, tutti i caduti in guerra; perché i nostri governatori la elogiano in quanto vittoria, ma se fossero loro a sporcarsi le mani rischiando la vita, non li vedreste con sorriso stampato in volto. Avrete mie notizie nel giro di due mesi, non cercatemi. Vi voglio bene.

Francesca Mainolfi, V D - Storia

Gianni, Giovanni, Giacomo e Giorgio sono rispettivamente un occidentalista, uno slavofilo, un menscevico e un bolscevico: Immagina una discussione tra questi quattro personaggi di fantasia relativamente al profilo politico, economico e sociale da dare alla Russia ancora zarista.

“Buongiorno a tutti, amici” esordii entrando nella piccola stanzetta dove mi sarei dovuto incontrare con alcuni vecchi compagni di avventure.

“Gianni, finalmente sei arrivato” rispose Giacomo, senza staccare gli occhi dagli invitati, l’espressione leggermente irritata sui loro volti mi faceva presumere che fossi arrivato nel bel mezzo di un discorso concitato; quando Giacomo aggiunse “sei arrivato giusto in tempo per dirci la tua” ne ebbi la conferma.

Mi avvicinai al tavolo nel silenzio e , come da routine, poggiai il cappotto sullo schienale della sedia e presi posto di fianco agli altri due, Giovanni e Giorgio, che, tanto evidentemente ancora infastiditi del discorso iniziato in mia assenza, avevano dimenticato le buone maniere.

“Ditemi pure, di cosa si tratta” dissi sicuro di me, nonostante la tensione fosse palpabile.

Per qualche secondo non ricevetti alcuna risposta, poi finalmente, dopo un sonoro sbuffo, Giorgio prese a parlare “Stavamo discutendo su un argomento molto in voga in questi giorni, caro Gianni. E a dir la verità sono molto curioso, e credo non solo io, di sapere quale sia il tuo pensiero in merito”

“Inutile girarci intorno” continuai leggermente irritato, sistemandomi meglio sulla sedia

Un sorriso furbo si formò sulle labbra di Giovanni , prima di aggiungere “Si parlava delle sorti della Russia”

L’audacia con cui mi era stata posta quella domanda mi lasciò leggermente spiazzato, ma non lo diedi a vedere. “Dall’aria tirata che si respira, ne deduco che nessuno la pensi come l’altro qui in mezzo”

“No, evidentemente. L’unica cosa su cui siamo arrivati a metterci d’accordo è il fatto che ormai il regime zarista non sia più capace di controllare la situazione e che presto lo Zar si troverà costretto ad abdicare. Quello che ci chiedevamo è appunto cosa sarebbe più giusto fare nel momento in cui questo avverrà”

“E cosa sarebbe più giusto succeda a detta vostra?” aggiunsi, studiando un po’ la situazione.

“Suvvia Gianni, conosci bene la mia situazione. Sai bene da dove vengo e sai bene come la penso, è chiaro che mi schieri a fianco degli slavofili” proferì Giovanni, scatenando delle risatine da parte degli altri due ospiti.

La cosa fece sorridere anche me, ma cercai di nascondere il mio divertimento per non risultare saccente. Gli slavofili erano coloro che aspiravano a seguire una “via nazionale” allo sviluppo, sviluppo che sarebbe dovuto partire non dalla borghesia, come nei paesi capitalisti, ma dai contadini. Inoltre seguivano come scopo finale l’abbattimento dello Stato e la conseguente creazione di comunità agricole. Pensare anche solo ai loro strambi obbiettivi non faceva che divertirmi ancora di più.

“Quindi ti definisci un populista, dico bene?” dissi, cercando di limitare l’ilarità nella mia voce.

“Non vedo cosa ci trovi di divertente. Sono fiero di definirmi un populista. E’ il popolo che fa la nazione, non il contrario. La stabilità e le tradizioni del mondo contadino solo la perfetta fonte di ispirazione per puntare a un futuro prosperoso, per evitare di ricadere negli errori del sistema capitalista. Pensateci! Abbiamo la possibilità di fruttare il nostro ritardo, trasformandolo in vantaggio, traendo profitto dagli errori degli altri paesi ed evitando le miserie dei paesi capitalisti.” La sua foga aumentava ad ogni parola.

Giacomo si schiarì la voce, facendoci capire che era arrivato il suo turno di parlare: “Giovanni caro, il tuo è un discorso molto sentito e dette così le cose che dice sembrano quasi sensate, ma spero concorderai con me nel dire che alcune cose sono vere e proprie idiozie” bevve un sorso d’acqua, un po’ per riprendere fiato un po’ per cercare di calmarsi e non trasformare quella discussione in un banale e infruttuoso litigio violento, poi continuò : “ Per quanto mi trovi d’accordo nel dire che sia arrivato finalmente il momento di distaccarsi dal sistema capitalista, è da stupidi non valutare positivamente lo sviluppo tecnico, produttivo e sociale indotto da quest’ultimo. Di conseguenza non bisogna idealizzare così tanto il mondo contadino. Se il cambiamento deve avvenire, deve partire dal proletariato e dalla borghesia. Ma soprattutto, il cambiamento deve partire dalla rivoluzione. Una rivoluzione borghese democratico-liberale! Ed è proprio la coscienza rivoluzionaria che va inculcata, e non quello che i populisti considerano, erroneamente, il vero mezzo di lotta: il terrorismo. Solo al pensiero di essere nella stanza con un uomo pro al terrorismo rabbrividisco”

“Piano con le parole Giacomo, non essere così duro. Inoltre, non vedo perché fare tanto il presuntuoso. Qui abbiamo tutti idee differenti e nessuno ha detto che le tue siano le migliori, anche se condividiamo alcuni pensieri. E per quanto entrambi ci definiamo socialisti, sappiamo bene di essere di due correnti contrapposte, ufficialmente” continuò Giorgio.

Nel 1898 i socialisti russi avevano fondato il Partito Operaio Socialdemocratico Russo, che qualche anno dopo, nel 1903, si era rigidamente diviso in bolscevichi, capeggiati da Lenin, e menscevichi, capeggiati da Martov. La sostanziale differenza tra menscevichi e bolscevichi si trovava sulla linea politica da seguire e sul tipo di organizzazione del partito.

“E’ già la terza volta che lo dico: Non andremo da nessuna parte se non accettiamo un'alleanza con la borghesia!” rispose Giacomo frustrato, animandosi.

Da queste sue parole potei dedurre facilmente a quale dei due gruppi socialisti apparteneva Giacomo, ovvero quello dei menscevichi. Infatti, secondo i menscevichi bisognava dare vita ad un partito di massa sul modello di quello socialdemocratico tedesco; inoltre essi sostenevano la necessità di realizzare riforme sociali e politiche, accettando l’alleanza con la borghesia. I bolscevichi, al contrario, volevano dare vita ad un partito formato da esperti della politica. Secondo la loro guida, Lenin, questo partito avrebbe dovuto guidare gli operai e i lavoratori all’abolizione della proprietà privata e alla collettivizzazione dei mezzi.

“Inutile scaldarsi così tanto, ne abbiamo già parlato. Quello che mi preme più sapere è…tu” disse Giovanni, rivolgendosi a me. “Tu, Gianni, con chi ti schieri? Bolscevichi, menscevichi, o populisti? A meno che…”

“Mi dispiace informarvi signori, ma per quanto consideri assolutamente nobili i vostri ideali, non mi trovo d’accordo con nessuno di voi. Ve lo dirò con calma, ed è qui che concluderemo la nostra discussione, rispettando ognuno l’idea dell’altro, per quanto sbagliate possiamo crederle. La via migliore che la Russia ha da seguire è quella europea. Avevate perfettamente ragione a dire che il capitalismo va valutato positivamente, perché è così che va valutato. Di conseguenza, a detta mia, compagni, la cosa più corretta da fare è introdurre in Russia sia l’economia capitalistica, sia la democrazia.”

Inizialmente l’espressione sui loro volti era dura, d’altronde ero quello con il pensiero più lontano dai loro, ma, resisi conto che quella discussione non avrebbe portato da nessuna parte, si rilassarono.

“Un occidentalista, un menscevico, un bolscevico e un populista sono seduti a questo tavolo. Sembra l’inizio di una storiella divertente. Chissà che strada seguirà la Russia” disse Giorgio, con un sorriso sghembo sulle labbra.

“Solo il tempo potrà dircelo a questo punto” conclusi, sistemandomi meglio sulla sedia, un po’ più rilassato.

Pietro Marra, V D - Storia

Arturo è un giovane chiamato alle armi, viene dal sud: in prima o in terza persona, racconta con gli occhi di questo personaggio di fantasia le vicende della prima guerra mondiale negli anni 1917-18. Descrivi le difficoltà, la quotidianità, le angosce e le speranze di questo ragazzo

Arturo era un giovane ragazzo campano di ventitré anni, in seguito al patto di Londra e alla vittoria degli interventisti fu chiamato a lottare per la propria Patria, al fianco dell’Intesa, e quindi costretto a lasciare la propria famiglia, il proprio paese e a vivere in prima persona, sul fronte, le vicende che vanno dal 1915 alla conclusione del conflitto. Nonostante fosse un fervente socialista, che quindi aderiva ai principi della Seconda Internazionale e cioè alla concezione della guerra come uno scontro tra interessi capitalistici, Arturo non si tirò indietro e imbracciando le armi si ritrovò a combattere una guerra di tipo posizionale. Logorati fisicamente e nell’animo, Arturo e gli altri soldati erano continuamente esposti al pericolo della morte durante le lunghe ore di inerzia tra un combattimento e l’altro, non si moriva solo a causa di cecchini nemici, granate o mitragliatrici, ben presto le pessime condizioni igieniche favorirono il diffondersi di malattie tra cui colera e dissenteria. Non solo, la presenza della morte divenne per Arturo il problema maggiore: sapeva che il trauma di vedere e essere in contatto costantemente con spoglie mutilate o cadaveri non seppelliti gli sarebbe rimasto dentro per sempre e si chiedeva continuamente se valesse ancora la pena combattere o se fosse stato meglio morire. Disobbedire o disertare non era ovviamente un’opzione dal momento in cui significava solo ricoprire la propria famiglia di vergogna. Fortunatamente la prospettiva di una lunga guerra fu interrotta dall’entrata in guerra degli USA, causata dai tedeschi, ormai piegati dal blocco navale inglese. Nel 1917 la rivoluzione di ottobre portò la Russia a ritirarsi dal conflitto mondiale, cosa che ebbe gravi conseguenze in Italia. L’Austria, infatti, poté spostare le proprie truppe sul fronte italiano portando a una delle più tristemente celebri sconfitte italiane a Caporetto. Le truppe italiane si ritirarono e fu costituita una nuova linea difensiva sul Piave. È proprio qui che Arturo e i suoi compagni riuscirono a fermare l’avanzata austriaca, impedendone il passaggio con una tenace ed eroica resistenza. La risoluzione della guerra era vicina, la Germania e l’Austria avvertivano sempre di più il blocco economico dell’Intesa, che fu determinante ai fini del conflitto. La Triplice Alleanza fu costretta alla resa e l’armistizio del 3 novembre a Villa Giusti siglò la vittoria italiana. Ci furono più di 600000 vittime italiane ma Arturo sopravvisse; i traumi e l’esperienza della guerra e della morte se li porterà dietro tutta la vita ma la volontà di raccontare e fornire testimonianza gli permisero di continuare a vivere e a sperare.

Vittorio Mignuolo, V D - Storia

Lettera di Arturo, soldato al fronte, alla famiglia.

Cara famiglia,

Sono, come ormai da mesi a questa parte, in trincea e il tempo sembra non passare mai. Qui siamo esposti al freddo e alle intemperie inoltre non vi è la possibilità di dare degna sepoltura a coloro che son caduti in battaglia perciò condividiamo i nostri spazi con i loro corpi. Le condizioni igieniche sono pietose tanto che alcuni soldati si sono ammalati, altri sono feriti e non possono ricevere adeguate cure mediche mentre altri sono letteralmente impazziti. L’ equipaggiamento che ci è dato in dotazione è insufficiente basti pensare che alcuni di noi sono arrivati al fronte senza avere l’elmetto in più il cibo scarseggia ed è mangiato anche dai topi. Ricordo con nostalgia quando, appena compiuti 18 anni, ero gioioso e fiero di poter servire il mio paese inoltre gioii anche quando dopo il 26 agosto del 1915 l’Italia prendeva parte a questa guerra con il Trattato di Londra. Ero sicuro di poter avere un posto importante nella società proprio grazie a questa guerra. Io, come tanti altri miei coetanei, speravamo di accrescere il prestigio internazionale della nostra patria attraverso la conquista di territori come Trento, Trieste o la Dalmazia. Oggi nonostante la paura di esser assalito dai nemici, ogni tanto mi capita di pensare a voi che sarete sicuramente in pena per me. Anche voi, a modo vostro state combattendo questa guerra, basti pensare che anche ben di prima necessità come il pane, o più in generale gli alimenti, hanno raggiunto dei prezzi notevolmente maggiori rispetto al periodo prebellico e bisogna affidarsi a persone di fiducia per procurarli. Son sicuro che voi, come tutti gli italiani, sappiate che il vostro sforzo è finalizzato alla vittoria di questa guerra e son sicuro che gioirete quando sentirete per radio o guarderete un manifesto che narra le nostre gesta qui al fronte. Da quando ho lasciato la mia terra e son venuto qui al fronte sono successe tante cose ad esempio nel giugno del 1916 gli austriaci conquistarono Asiago ma, anche grazie all’ aiuto delle truppe russe che si battevano valorosamente, siamo riusciti a organizzare una difensiva sull’Isonzo e infine ad agosto siam riusciti a conquistare Gorizia. Da allora le cose son molto cambiate, prima di tutto molti soldati hanno perso la vita nella battaglia di Caporetto nell’ ottobre del 1917 però inoltre anche gli USA sono a nostro fianco in guerra, in quanto la guerra sottomarina condotta da Inghilterra e Germania danneggiava anche l’economia degli USA; infine la Russia se n’è tirata indietro a causa di problemi interni. Quest’estate le truppe anglo-francesi hanno avuto la meglio nelle battaglie della Marna e di Amiens inoltre vari stati, come la Iugoslavia o l’Ungheria, si son dichiarati indipendenti dall’ Austria. Ci giungono notizie riguardanti le truppe austriache le quali sono ormai stremate. Oggi, 27 novembre del 1918, ci prepariamo alla battaglia sperando in una vittoria e in una resa da parte dell’esercito austriaco. Spero di tornare al più presto a casa vittorioso, sano e salvo consapevole di aver compiuto il mio dovere di italiano e di aver contribuito alla gloria della nostra grande nazione.

Il vostro Arturo

Antonio Russo, V D - Filosofia

Immagina un uomo o una donna che per vari motivi non creda più a niente. Sulla base delle figure dello Scetticismo e della Coscienza infelice racconta in prima o in terza persona, la storia di questo personaggio che dallo Scetticismo perviene alla Fede; illustra i caratteri della Fede utilizzando le categorie hegeliane della 1) devozione,2) del fare e dell'operare, 3) della mortificazione di sé.


Davide era un uomo che viveva da solo, a cui la vita non aveva riservato tante gioie. Le speranze che aveva avuto erano state spazzate via dagli eventi della vita. Di conseguenza, ogni giorno che passava diventava sempre piú pessimista riguardo la visione della realtà, fino ad arrivare ad un'assoluta negazione dell'alterità.

Si era creato un suo pensiero, un pensiero scettico nei confronti del vero e del reale. Iniziò a considerare in maniera diversa il mondo esterno. Nelle poche conversazioni che aveva nel corso della giornata cercava di esprimere il proprio punto di vista, cosa per lui era da ritenersi vero.

Questa contraddizione tra l'affermazione della verità e dichiarare che non c'é niente di vero indirizzò la sua coscienza scettica verso la cosiddetta "coscienza infelice".

Dalla sua negazione alla vita e alla realtà che rappresenta il finito, nacque un'aspirazione verso una verità trascendentale propria di Dio, che rappresenta l'infinito. Un'infinità in cui è situata la verità che risulta inaccessibile, generando infelicità nella coscienza.

Ebbe modo di riflettere e decise di avvicinarsi alla dottrina cristiana.

All'interno di sé era dunque religioso, una sorta di devozione non ancora elevata al concetto; si trovava avvolto da una vaghezza.

Andando avanti rinunciò ad un contatto di qualsiasi modalità con Dio, attuando un comportamento di tensione bramosa.

Era un periodo particolare della sua vita e decise di dedicarsi al lavoro, con umiltà, da cui cercava di trarre appagamento. Trovò un lavoro a cui dedicarsi totalmente, a cui riservare gran parte delle sue energie e in cui mettersi a disposizione.

Ringraziava Dio per tutto, anche per il frutto del suo lavoro. Percepiva le proprie forze e capacità come dono di Dio, affinché le utilizzasse in maniera proficua e dignitosa. Si potrebbe parlare di un'umiliazione, dato che nei suoi pensieri anche il suo agire era un'opera divina.

Quindi questo percorso portò Davide ad una totale mortificazione di sé, come se il suo corpo finito fosse nullo. Una completa negazione dell'io a favore di Dio.

Antonio Russo, V D - Storia

Giovanni è un giovane interventista: in prima o in terza persona, racconta con gli occhi di questo personaggio di fantasia, lo scontro tra neutralisti e interventisti che precedette la prima guerra mondiale. Sappi descrivere i valori e gli ideali del giovane , collocandolo politicamente e distinguendo le sue posizioni da quelle degli altri interventisti e da quelle dei neutralisti.


Nel periodo precedente l'ingresso in guerra da parte dell'Italia, il Paese era diviso in due schieramenti: interventisti e neutralisti.

Giovanni era un giovane interventista, schierato quindi insieme a nazionalisti e irredentisti e con i quali condivideva il pensiero di dover agire per mostrare la forza della nazione.

Lui era un giovane e in quel periodo particolare si appelló alla guerra come strumento per sovvertire la situazione economica e politica, a dimostrazione dell'incoscienza dovuta all'età.

Guardava con ammirazione agli obiettivi di liberare Trento e Trieste dal dominio austriaco, pensando fosse ció a poter far crescere il prestigio internazionale dell'Italia.

Contrapposti a chi la pensava come lui c'erano i neutralisti. Giovanni Giolitti era uno dei favorevoli alla pace e per ottenere le terre irredente propose di offrire la propria neutralità all'Austria. Quest'ultima decise di posticipare questo tipo di decisioni al termine del conflitto.

Anche Cattolici e Socialisti non volevano la guerra rispettivamente per una condanna generale alla violenza e per proteggere i proletari, dato che il conflitto perseguiva interessi capitalistici.

Giovanni era circondato da voltafaccia come Benito Mussolini, protagonista appunto di un rovesciamento di fronte(era stato un importante dirigente del Partito Socialista) pur di intervenire.

Giovanni era avvolto da dubbi asfissianti e adrenalina allo stesso tempo; prese fiducia grazie all'appoggio del re circa l'intervento in guerra.

Inconsapevole, questa era la sua condizione mentre il ministro degli Esteri Sonnino sottoscrisse a nome del governo il patto di Londra. Questo trattato era segreto, fu stipulato ignorando del tutto la volontà neutralista della maggioranza del Parlamento e prevedeva l'ingresso nel conflitto a fianco della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) in cambio di compensi territoriali maggiori rispetto a quelli prefissati.

Giovanni, insieme ai suoi coetanei, non risucí peró ad intuire appieno i veri obiettivi di certe persone, era voglioso di cambiamento, pronto a combattere con le armi al fianco dei violenti, piú violenti di lui.

Il 3 maggio l'Italia uscí dalla Triplice Alleanza (con Germania e Austria) e in cinque giorni di maggio venivano incoraggiate tumultuose manifestazioni di piazza: furono chiamate "radiose giornate". Ebbero lo scopo di creare l'atmosfera e il 24 maggio 1915, con la dichiarazione di guerra all'Austria-Ungheria, l'Italia entró a far parte del conflitto.