Titoli di coda
(di sabbia, neve e altre storie)
„ Si fa torto ai maestri restare allievi a vita” - (proverbio cinese)
„ Alcuni dicono che si é adulti quando si diventa genitori per la prima volta. Altri invece pensano che lo si diventi quando seppelliamo i nostri di genitori. Io non credo a nessuna delle due teorie. Io credo che si diventi adulto nel momento in cui s´impara a chiedere scusa” - (Luca d´Andrea – La sostanza del male)
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La neve, che dapprima aveva cominciato a scendere sotto forma di qualche sporadico fiocco, aveva preso ora a cadere copiosamente, mentre il vento come lame ghiacciate, mi trafiggeva le spalle, costringendomi a socchiudere gli occhi, e con la bocca serrata e la paglia stretta tra i denti cercavo di fumare via l´assurditá di quel momento.
Il mio compagno di viaggio, invece, sembrava invece a proprio agio in quell specie di inferno bianco: il fatto di trovarsi a duemila metri d´altezza, alle sei di sera e cercare di mettere le catene al suo Scania 111 non doveva averlo turbato piú di tanto, vista la tranquillitá dei suoi movimenti.
Che bella idea che ho avuto... ma chi me l´ha fatto fare?
Una risposta l´avevo, ma preferivo evitare di tirarla fuori, forse per paura di guardare troppo a lungo in faccia la realtá, che mi diceva che esiste sempre una linea sottile tra il pensare, il desiderare di essere e quello che poi a conti fatti si é.
Insomma, per dirla tutta era per passione che ero finito sullo stramaledetto passo del Tahir, rakim 2478, e adesso che mi ci trovavo finalmente faccia a faccia, mi sentivo un misto di soddisfatto ed intimorito.
Passione.... giá, la passione.
Specchio per le allodole, brava solo a gonfiarti la testa di stupide e pie illusioni, ma il contrasto netto e duro con la realtá, soprattutto QUESTA realtá, fatta di fango neve e colonne infinite mi ha portato nel giorno dei giorni della mia vita a capire che forse, a conti fatti, era meglio non averla, o quanto meno provare a contenerla, renderla piú possibile e meno gasata.
Un bestemmia dura, partita dal cuore, dalla rabbia, mi riporta coi piedi per terra.
Il mio socio aveva bisogno di aiuto.....
Per passione che sono finito cosi, solo per la fottuta passione.
Avevo ventun anni e la patente fresca appena conseguita in tasca, e nonostante la dura opposizione della mia famiglia (che niente aveva a che vedere con l´autotrasporto), riuscii con mille sforzi ad ottenere un posto di lavoro come autista.
Giá, ho fatto tutto per passione, nata per caso quando ero bambino, vedendo i camion che mi passavano davanti cosi grossi, cosi unici, simbolo di una libertá che sognavo e bramavo... posti diversi, vedere cittá e campagne, essere uomo. Essere libero.
A poco m´importava della scuola, di una possibile carriera tanto voluta dai miei genitori, piú per loro affermazione sociale che per mia volontá.
Avevo coltivato quel sogno per tutta la mia adolescenza, quasi come un amore impossibile, scappando in bicicletta verso le periferie e le dogana, restando imbambolato per ore a guardare con occhi affamati quei mezzi, quegli uomini che apparivano come eroi contemporanei per me... e le targhe, mio dio, le targhe.. piű da lontano provenivano e piű mi eccitavano.
Di sacrifici, vite spezzate, e sostanzialmente di tutto ció che essere un camionista comportava, me ne fregavo, o peggio ancora non volevo vederlo, perché avevo la passione!
Ma la passione a volta ti frega.
Se ne sta li buona buona, come un gatto che ti fa le fusa.
TI abbraccia come una mamma premurosa, un´amante bramosa,trasformandosi di colpo in una tigre pronta ad ucciderti.
Insomma, dopo tanti tentativi, ero finalmente diventato camionista.
Viaggiavo per lo piú nel nord Italia, trazionavo container, ero felice come non mai, ma non é che fosse tutto rosa e fiori eh?! c´erano giornate belle, altre meno, altre ancora buone solo da buttare direttamente nel cesso, ma in tutta onestá non ci facevo piú di tanto caso, perché io avevo la passione, ero come san Giorgio contro il drago, nessuno mi fermava...
Per dirla tutta, la vita di quei giorni di metá anni settanta, passati tra Rogoredo, Asti, Torino e Bergamo cominciava ad andarmi stretta.
Stavo, ma ne accorsi solamente dopo, cominciando a volare troppo in alto, forse in quote non adatte alle mie ali, ma ero gasato all´idea di poter un giorno passare all´internazionale.
Sapete a cosa mi riferisco, no!?
Valicare il Brennero, il monte Bianco, andare oltre, la Francia, la Germania, vedere posti che fino ad allora per me erano solo nei libri di geografia o sulle cartine appese in ufficio...
Cominciai a chiedere, fare, disfare.. tutto purché mi dessero una possibilitá, una sola, di poter indossare anche io il vello d´oro, salire all´olimpo del trasporto internazionale e dire che si, anche io c´ero, anche io l´avevo fatto e ne andavo fiero!
Ma intanto mister TIR doveva tenere a bada la realtá, e quindi ricacciai gioco forza quei sogni in gola e continuai a fare la vita di sempre.
Poi, in un gelido mattino nel dicembre del 1979, tutto cambió.
„Conosci l´Iran? Ho bisogno di un altro autista che parta subito per Teharan”.
Ecco l´occasione, mi sono detto.
Ecco finalmente la possibilitá che il destino mi ha dato per mettermi alla prova e dimostrare a tutti quanto valgo.
Ovviamente il destino, o chi per lui, aveva evitato di farmi notare che in inverno, con la neve ed il ghiaccio che praticamente ti seguono da Sezana fino a Dogubayazit, sarebbe stato un tantino complicato, passione o meno.
Ma io ovviamente, entusiasta come non mai accettati a scatola chiusa.
L´idea poi di partire con un veterano di quelle rotte mi fece sentire ancora piú tranquillo e sicuro dell´ottimo risultato della vicenda.
Naturalmente, mi sbagliavo su alcuni calcoli.
Naturalmente, sarebbe stata non una sfida ma una ricerca di me stesso, quello vero.
Naturalmente, tutto andó come doveva andare.
Venni affiancato ad un ragazzo piú grande di me come etá, corpo snello, dinoccolato, capelli folti e paglia perennemente appicciata sul lato destro della bocca.
Senza troppo tergiversare (non mi dava l´idea di essere un tipo cerimonioso), mi diede alcune indicazioni del caso, di seguirlo sempre e che in caso di guai, vista la mia prima volta, dovevo avvertirlo subito e non prendere iniziative.
Accettai tenendo la bocca, una volta tanto, chiusa.
Sapevo di aver di fronte uno dei migliori autisti sulle rotte medio orientali, quindi potevo e dovevo solamente imparare.
Ora, non che io fossi uno stupido e lui il dio in terra, ma mi sentii come al cospetto di una persona che in qualche modo avrebbe rappresentato uno specchio nel quale mi ci dovevo guardare, prima o poi.
Verso un pomeriggio freddo, con un tramonto stupendo, cielo dalle tinte rosse, che mano a mano sfumavano nei tenui colori viola, arancione, blu scuro, quasi come se qualcuno avesse lanciato una prugna matura contro una lavagna, partimmo.
Direzione Fernetti, transito.
Io seguivo fedelmente, fumando di tanto in tanto e guastandomi il viaggio quasi come se fossi un turista.
I fari squarciavano la notte, illuminando il manto stradale crepato e scuro, tutto buio attorno, solo il verde delle luci del cruscotto ad illuminarmi il volto, la brace della sigaretta come una piccola stella cometa che vagava da un angolo all´altro della bocca.
Arrivammo in nottata al confine, accostandoci a lato della strada, mentre altri come noi attendevano con pazienza che la notte stellata sopra le cabine dei Fiat, dei Raba, dei Volvo finisse.
Presi sonno quasi subito, nonostante il caffé preso con il mio compagno di viaggio poco prima di sdraiarmi.
Alle 6 del mattino dopo, sotto un cielo color grigio acciaio, sbrigate le formalitá a Fernetti dalla mitica signora Maria, entrammo in Yugoslavia, Sezana, direzione sud, verso Belgrado.
Di colpo le strade cambiarono aspetto: strette, trafficate, buche ovunque..
ad ogni villaggio era un continuo rallenta-frena-riparti a causa di carretti a cavallo, galline, animali assortiti e persone che di colpo ti attraversavano la strada.
Il mio compagno di viaggio sembrava andare sicuro, mentro io qua e la accusavo i primi colpi del guidare „oltre Trieste”.
La tensione cominciava ad essere palpabile, mentre la neve caduta durante la notte si stava trasformando in una lastra di ghiaccio i cui effetti potevano essere devastanti.
Belgrado, via verso Nis.
Parlavamo poco, guidavamo meccanicamente, anche sedici o diciassette ore al giorno, sempre tesi sul volante, traffico dovunque, camion auto pullman animali che trainavano carretti che sembravano fatti di carta da quanto erano vecchi e logori, e poi ancora camion.
Una babele di nazioni, il vero Internazionale, era li riunita, vite diverse ma rese tutte simili tra loro grazie a quella nuova Eldorado, che convergevano verso la Bulgaria, verso la Turchia per poi disperdersi verso l´Iran, l´Iraq o la penisola Araba; alcuni di loro, soprattutto olandesi ed inglesi, andavano oltre, spingendo i musi dei loro pesanti destrieri d´acciaio verso il Pakistan, l´Afganistan, o lo Yemen.
Purtroppo, nonostante le mie buone intenzioni di fotografare piú camion possibile durante il tragitto, i rullini acquistati al volo prima di partire erano ancora nella borsa, cosi come la macchina fotografica ed il diario che mi ero ripromesso di aggiornare giorno per giorno, a futura memoria.
La realtá era che dopo una giornata „tipo” su quelle rotte, l´unica cosa che si voleva fare era mangiare e subito chiudere gli occhi, nutrendo il desiderio di risvegliarsi il giorno dopo al caldo, nel proprio letto, a casa e non vedere il sedile ed il cruscottto del tuo camion.
Ma ovviamente, avendo io la passione al mio fianco, pensavo di essere indenne da tutto questo, magari svegliandomi col sorriso ed esclamando „ Che bello, mi sono svegliato anche oggi nel mio fiammante 619 freddo come una ghiacciaia, e ovviamente devo anche sperare che si metta in moto subito. Ma se si guasta chi se ne frega? La passione mi aiuterá.
Va bene dai, magari adesso sto esagerando, non é che mi svegliassi proprio col sorriso a trentadue denti, soprattutto perché al mattino ero intrattabile giá di mio, pure se ero a casa, pure se ero da solo con davanti una giornata di sole e sesso.
Ma se devo dirla tutta, il povero Fiat che avevo, se comparato con lo Scania del mio socio o ai due Volvo FB89 parcheggiati accanto, mi faceva davvero passare la voglia di ridere.
Anche se io ancora non (volevo) vederlo, c´era un abisso di circa vent´anni tra noi e i colleghi europei, vuoi per il mercato diverso, vuoi per la testa.
Fatto sta che durante gli anni del Medio Oriente, duri ed unici per tutti, uomini e veicoli, non ne esistevano di adatti per quelle tratte.
Solamente negli ultimi anni della Linea le case produttrici pensarono a delle serie specifiche, ma agli albori, fine anni sessanta inizio anni settanta, i camion circolanti al di lá di Udine erano quelli che vedevo ed usavo tutti i giorni, quindi c´era come si suol dire poco da scialare.
Nis.Serbia, direzione Bulgaria.
Qua una sosta per caffé e sigaretta era quasi obbligata.
Io morivo dalla voglia di parlare col mio collega, e magari beccarmi qualche complimento, visto che ero arrivato fino a li ancora con le orecchie attaccate e senza particolari impedimenti tipici dei novellini, ma nulla scaturiva dalle sue corde vocali, se non discorsi generici su questo o quello.
La neve aveva finalmente mollato il tiro, ma strada e paesaggio avevano un che di lunare.
Il percorso di fronte a noi, scavato in parte nella roccia, era qualcosa che sarebbe stato meglio evitare, stretto, con tunnel dove raschiavi di continuo gli specchi retrovisori contro la parete rocciosa o contro chi incrociavi nel senso opposto.
„Stammi dietro, ma non attaccato al culo, mi raccomando, altrimento andiamo a fare il bagno la sotto. „ disse lui, indicando con il capo il torrente sottostante.
„Va bene” risposi io.
E ripartimmo.
Non lo nascondo: fu dura per me.
Ad ogni galleria (ovviamente priva di illuminazione) era necessaria la stretta collaborazione di tutti i santi del calendario, mentre col volante tentavo di stare sulla corsia ed evitare allo stesso tempo di ranzare le fiancate e di non fare qualche frontale.
L´unico vantaggio era dato dalla guida a destra, che in qualche modo mi consentiva di stare a filo della carreggiata.
Bulgaria, ci siamo finalmente.
Palazzoni di cemento, cielo color piombo e gente cupa accompagnano il nostro sfilare per le strade a quattro corsie fuori Sofia. Cartelli stradali in Cirillico, ovunque manifesti inneggianti al partito comunista.
Qua bisogna fare attenzione ancora di piú, la polizia locale sta in agguato, pronta a spillare soldi extra con qualsiasi pretesto.
Ma é a Kapikule che tutto mi crolló addosso.
Parlare bene di questo posto, frontiera bulgaro-turca il cui nome, tradotto letteralmente, significa „Torri del cancello”, mi risultava molto difficile.
Nel 1976, anno in cui gli eventi che sto raccontando ebbero luogo, era poco piú di una discarica a cielo aperto, circondata da edifici bassi dove si dovevano espletare – con tempi degni del trascorrere di un´era geologica – le formalitá doganali.
Il fondo era fangoso, di asfalto o al limite di ghiaia manco a parlarne, terra dura d´inverno, coperta quasi sempre da neve, e fango e polvere d´estate.
Nessun parcheggio, nessun servizio, niente di niente.
Si arrivava li pregando tutti gli dei conosciuti, accodandosi ad altri malcapitati come te, come noi, in due colonne parallele senza possibilitá di sorpasso, circordati da delle fosse acquose piene di melma e rifiuti e altro di cui é meglio non parlarne.
Uno spasso, insomma.
Fatto sta che per caso, fui io il primo ad entrare, piazzandomi dietro ad un camion bulgaro che per metá era sprofondato nella palta formatasi.
Presentammo i nostri documenti, passaporti, Carnet TIR e tutte le altre scartoffie che avevamo con noi e aspettammo.
Ecco cosa si faceva sostanzialmente sulla Linea: aspettare.
Aspettavi alla frontiera di questo o quel paese.
Aspettavi allo scarico nei magazzini doganali.
Aspettavi perché eri guasto, nessuna possibilitá di uscirne da solo e quindi speravi che qualcuno prima o poi arrivasse in soccorso.
Aspettavi che tutto passasse.
Aspetta, aspetterai, ho aspettato e aspetteró.
Mentre ero li, accasciato sul volante con le braccia come cuscino, col film della mia vita che mi passava davanti al parabrezza incrostato, mentre mi consumavo lentamente come una candela, pensando a come sarebbe stato se avessi scelto altre strade, un´altra vita.
Mollai in cabina tutte quelle chimere, agguantai la macchina fotografica e cominciai a scattare foto random, cosi come veniva, anche se ovviamente il mio soggetto preferito erano i camion.
Un Mack iraniano, due Mercedes 1632 bulgari della Somat, ancora un Volvo, due Fiat di Belgrado, e ancora altri.
Poi, in un angolo un pó defilato del piazzale, scorgo con stupore due vecchi International turchi, e dato che la mia „fame” di camion era insaziabile, e dato che notoriamente la mia testa a volte prendeva vie diverse dal corpo,m incamminai verso quella direzione, ignorando del tutto un buca poco profonda ma abbastanza bastarda da farmi cadere e, come se non bastasse, mi procurai una distorsione alla caviglia sinistra (of course).
Bestemmiando, tornai mogio mogio in cabina.
Il mio socio, vedendomi, mi venne incontro, chiedendomi uno: „ dove cazzo ero finito?” , due: „ cosa avevo fatto alla gamba?” , tre: „ mai allontanarsi troppo dal camion, che non si sa mai cosa puó succedere!” e soprattutto : „ Sbagliatissimo e vietatissimo fare foto qua! Sei in un sito doganale con le guardie che sorvegliano. Se ti beccano ti sequestrano tutto e ti prendi pure un fracco di botte se non stai attento! Mai mai mai fare una cosa del genere qua dentro!!”
Beccai la sfuriata con le orecchie basse, ringraziando il cielo che non indagó oltre riguardo i motivi della mia scampagnata doganale.
A proposito di dogane, brutte notizie : c´erano dei problemi con i certificati di origine dei nostri carichi e dovevamo attendere almeno due giorni prima di poter ripartire.
Nonostante la grossa problematica legata alla lingua, fummo fortunati perché seduto perennemente nei locali degli uffici c´era il traduttore, un signore anziano di cui non ricordo il nome adesso.
Lui era sempre pronto ad aiutare tutti noi, credo che parlasse sette lingue diverse o forse di piú. Se ti vedeva in difficoltá allo sportello, ecco che ti compariva magicamente affianco, come uno spirito buono, e ti supportava come poteva.
La cosa piú bella era che era di una generositá incredibile, tanto é vero che non chiedeva mai nulla in cambio; ma nonostante ció molti autisti gli regalavano qualcosa sempre. Chi sigari, chi abiti, cibo o altro ancora.
Come era bello l ´esperanto della solidarietá, dove veramente l´unico fattore positivo consisteva nel fatto che il cameratismo (regola ferrea) ti faceva svezzare e sentiere meglio dentro.
Furono due giorni non proprio piacevoli per me: da un lato la caviglia dolorante, di color melanzana e fasciata stretta per poter quanto meno camminare e, soprattutto, usare la frizione in maniera decente.
Dall´altro dovetti spiegare a me stesso che la passione, in quanto tale, non porta molto lontano.
Ecco come andó: la seconda sera stavamo allestendo la cambusa presso l´hotel Fiat, pasta al pomodoro e lattine di carne come secondo, il tutto annaffiato da acqua naturale e caffé quando, volenti o nolenti, cominciammo a parlare dei nostri affari e di come fossimi finiti li, nel buco del culo del mondo.
I contrasti erano netti, se vogliamo.
Lui finito quasi per obbligo a fare quella vita, io per libera scelta.
Nonostante avessimo uno spirito di sopravvivenza spiccato (piú lui che io comunque) , e nonostante sapessimo che era „solamente” il nostro lavoro, i punti di vista si spaccavano a metá perché ero io quello gasato dall idea di fare l internazionale, mentre lui magari avrebbe preferito altro dalla vita.
Certo, i tornaconti economici potevano anche starci, ma a che prezzo?
Famiglie andate letteralmente a puttane, per vie della mancanza del binomio padre/marito, esseziale per la durata dei rapporti; vita sociale zero, se non sempre e solo con altri colleghi, piovuti come te da ogni angolo dell´Europa e comunque non tutti avvezzi alle chiacchere da cassettone.
E poi noi stessi: nonostante le nostre etá quasi simili, cosa ne avremmo fatto delle nostre esistenze? sempre cosi? come due barboni chiusi un cabina scomoda come una lastra di marmo, ad aspettare che qualcuno a duemila chilometri e piú da casa mandasse un cenno via telex?
E i sogni nel cassetto, le nostre aspettative?
Non eravamo considerati da nessuno, meno di zero, eroi del silenzio eravamo, solidali solo tra noi e perennemente incazzati col restante universo.
Eppure, ma questo l´abbiamo capito solo anni dopo che l´epopea era finita, tanti dei nostri colleghi hanno pagato con la vita il percorrere quelle strade, quelle piste desertiche o quei passi di montagna.
Era una semplice equazione della vita per loro : io sto alla strada come l´avventura sta al Medio Oriente.
Per me era diverso: primo, ero al primo viaggio, qundi non potevo vantare chissá che spessore professionale.
Secondo, avevo comunque da tenere la cresta bassa perché i gasati venivano notoriamente inculati dalla legge non scritta della Linea.
E terzo: ma non era forse meglio guardarsi una volta tanto allo specchio?
Cosa mi aveva portato la passione di concreto?
Potevo dire di fare un lavoro che amavo? Puó darsi, ma di certo non come prima, tutto sommato quando le cose erano „ piú facili”.
Mi sentivo realizzato in ogni mia azione? Non sempre.
Rischiavo di essere ridicolo? A volte si, il rischio c´era.
E quindi?
Avrei dovuto semplicemente moderarmi, cominciare a guardare il mondo del camion, che comunque mi aveva dato e mi stava ancora dando la pagnotta, con occhi piú realistici, forse piú razionali.
In poche parole, dovevo crescere ed accettarmi per quello che ero.
Ma intanto mi chiusi in un silenzio tombale, tipico della mia tempra quando il barometro comincia a marcare il tempo , con il quale punii in maniera astratta il mio socio di avventura, tendo le labbra cucite per tutto il tratto Kapikule – Istanbul – Ankara.
Furono giorni duri per me, soprattutto a livello mentale.
La caviglia piano piano andava migliorando: adesso, tanto per rimanere nel campo dei colori delle verdure, era diventata color zucchina, verdolina, ma riuscivo a cambiare le marce e a muovermi benino.
Stetti barricato in cabina al Londra camping, muovendomi solo per andare il bagno o mangiare, ignorando tutto quello che mi ruotava attorno e pensando come uscire da quell ´imbuto cosi infantile nel quale mi ci ero cacciato.
Ignoravo, stranamente, i camion. Li guardavo sfilarmi davanti ma non mi soffermavo piú di tanto su di loro.
Davo loro quasi la colpa del mio „fallimento”.. Mister TIR stava inesorabilmente cadendo.
Comunque, se pensavo che le strade bulgare fossero brutte, quella che stavano percorrendo adesso le faceva apparire belle al confronto.
Dopo Ankara, il famoso „dopo Ankara”, direzione est, verso Erzerum, e poi confine con l´Iran, era finalmente cominciato.
Faceva freddo, temperatura sotto lo zero, ghiaccio dovunque.
Paesaggio spettrale, nessuna forma di vita per chilometri e chilometri.
Quando incrociavamo qualche camion europeo nel senso opposto, subito gli battevamo i fari, cosi felici di incontrare finalmete qualcuno.
Davanti a noi pochi mezzi stranieri, qualche bulgaro con dei vecchi Berliet, due francesi su dei Daf, un rumeno che guidava un Roman.
Abbondavano invece i locali, gli Apachi, motricette a due o tre assi stracariche all´invero simile, con in cabina tre quattro elementi che erano tutto un programma, stipati come sardine.
Ti sorpassavano noncuranti di chi proveniva in senso opposto, ti tagliavano la strada, dei prepotenti nel vero senso della parola.
Purtroppo, grazie a queste imperizie gli incidenti, e le immancabili vittime, erano all´ordine del giorno. Troppe persone innocenti se ne sono andate a causa di quegli stronzi del volante. Troppe.
Peggio di loro peró c´erano i pullman, spina dorsale del trasporto persone turco.
Paragonabili piú a dei missili terra aria, visto che a volte ti piombavano alle spalle a velocitá incredibili, considerando le strade ed il clima invernale turco, sempre attaccati ai clacson, trombe.
Cercavamo di agevolarli nel sorpasso, loro ti stringevano, poi superavano e ti frenavano quasi davanti al muso.
Nelle fasi concitate di queste giornaliere situatuazioni, scorgevamo persone sedure, in piedi, pacchi, borse, galline, qualsiasi cosa potesse starci loro la caricavano.
Kamikaze, ecco cos´erano.
Il gelo non voleva saperne di mollare la sua morsa.
Dato le condizioni, non spegnevamo quasi mai i nostri motori, per evitare il rischio di far gelare il gasolio e, altra cosa molto importante, potevamo mantenere una temperatura accettabile all´interno della cabina.
Mano a mano che procedevo, stavo finalmente capendo che tutto sommato era meglio che le cose fossero andate cosi.
Aprire gli occhi mi avrebbe sicuramente aiutato a non commettere ulteriori cazzate.
La sera calava lentamente le sue dita nere su di noi, mentre attraversavamo villaggi le cui case erano per lo piú costruite di fango, sassi e paglia.
Ci stavamo avvicinando sempre di piú al famigerato passo del Tahir.
La presenza dei pochi camion nel senso opposto al nostro faceva presagire brutte sorprese in quota.
Ci concedemmo alcune ore di sonno nei pressi di uno spiazzo ghiacciato, accanto ad una baracca e due pompe della BP.
Di dormire proprio non ne avevo voglia.
Stesi le gambe sul volante e provai giusto a chiudere gli occhi, ma avevo incubi, sudavo nonostante la temperatura era di molto sotto lo zero.
Il mal di testa stava montando lentamente, e di riflesso appoggiai la testa al finestrino ghiacciato.
Dopo quattro ore cosi, decisi che era troppo per me.
Mi sollevai, scostai le tendine, aspettai che il compressore dell´aria sfiatasse e cominciai la giornata.
Preparai il caffé per entrambe, mi accesi una sigaretta e nell´attesa cominciai il solito giro di controllo del rimorchio.
Il cielo sopra di noi era color cenere, con sprazzi di nuvole nere come la pece.
Meno quindici.
Come se non bastasse, il vento aveva ripreso a soffiare senza sosta, sollevando la neve, che volteggiava attorno a noi come tetri coriandoli invernali.
La carrozzeria oramai era invisibile, a causa del denso strato di fango, ghiaccio e neve che avevo raccolto durante il viaggio.. povero il mio Bartoletti.
Stavo quasi per andare a dare il buongiorno al milanese accanto, quando incredulo abbassai le braccia, sconfortato, arreso.
C´era una gomma a terra.
Gomma interna, per giunta,
Ma basta! Basta basta basta!
Chi cazzo me lo aveva fatto fare, chi?
Avevo manco trent´anni e stavo rischiando tutto per cosa? Per i camion? solo per loro????
Fanculo, passione che non serve a molto.
Fanculo a me stesso, che mi ero gasato per un qualcosa al di sopra delle mie possibilitá.
Ecco, adesso stavo ansimando.
Occhi rigati di lacrime.
Ma dovevo essere uomo, dimostrare che i duri, o aspiranti tali come me, superano tutto con stoicitá e orgoglio.
Non frignano, cambiano la gomma fumando un paccheto intero di Camel.
Tirai un pugno alla sponda, col solo risultato di essermi sbucciato le nocche.
Ritrassi la mano con una smorfia di dolore.
Poi tornai in cabina, presi i ferri e cominciai a cambiare il copertone.
Probabilmente domani il cielo sarebbe stato piú chiaro anche per me.
Dopo la mia ginnastica mattutina, facemmo colazione e partimmo.
Il freddo continuava ad avvolgerci, non ci dava tregua, era una lotta senza quartiere tra lui e noi, ma una lotta persa in partenza.
Arrivó l´ora delle catene.
Cominciammo a tirarle giú, e piú che dare una mano cercavo di essere meno d´intralcio possibile, visto che non le avevo mai montate.
Sacramentando l´anima, ci impiegammo quasi due ore a concludere il lavoro, mentre una sottile neve cominciava a scendere.
Attorno a noi era solo bianco e grigio, nessun altro colore ammesso.
Salivamo piano, a causa del tempo e del fondo sconnesso.
Sempre meno camion nel senso opposto: fino ad Erzerum ne avremo incontrati un dieci, venti, non di piú. DI norma, diceva il mio socio, erano a frotte.
Voleva dire solo una cosa: Tahir.
Lassú erano cazzi amari, quindi era meglio stare in campana e vedere cosa fare.
Di alternative, a ben vedere, non ne avevamo.
Aspettare non era il nostro forte, perché comunque sia non eravamo in villeggiatura e dovevamo portare a termine il lavoro.
Andare avanti? Certo, mica eravamo dei piangina.
Ma come?
Arrivammo quasi ai piedi del Tahir, stava facendo buio un´altra volta, e non ce la sentimmo di continuare.
Alba, tetra, pungente, livida.
Il sole era come una lampadina nascosta da diversi strati di garza.
Freddo, vento che scuoteva i teloni e che faceva batteri i denti nonostante avessimo dormito completamente vestiti e con i motori accesi.
Attualmente oscillavamo tra i meno quindici ed i meno venti gradi, ma stando alle informazioni che avevamo captato la sera prima, parlottando con alcuni colleghi rumeni, la situazione sarebbe precipitata durante il giorno, perció era meglio muoversi.
Ero nervoso, teso come una corda di violino.
La prova che mi attendeva non era esattamente delle migliori, considerando che avrei dovuto giocarmi la pelle ad ogni palmo di pista percorso, ma il dado era tratto, quindi o cosi o cosi.
Anni dopo, sentendo i commenti dei meno esperti del mestieri, avvertii come un senso d´invidia per il fatto che io l´avevo attraversato e loro no.
Cazzo, se avessi potuto tornare indietro solo per un pó, avrei dato loro volentieri le chiavi del camion..... voi che siete capaci andate e fate, che io preferisco stare sempre un passo indietro.
Comunque si, partimmo, con i teloni che ad ogni buca si scrollavano di dosso quel manto bianco di ghiacchio e neve che si era formato durante la marcia.
Il motore girava bene, anche se preso la mancanza di ossigeno (dovuta alla quota), cominció a darmi qualche noia.
Piú di una volta dovetti fermarmi e ripartire, con un gran fracasso di catene e fuori giri (si fa per dire, vista la potenza non fantastica dei miei 13000 cc sotto il culo, motore generoso ma troppo troppo poco per quel passo maledetto).
Ad ogni curva incontravi i segni del pegno pagato da altri colleghi al Tahir: pezzi di carrozzeria, neve che recava i segni del rovesciamento di qualche rimorchio, sbandate.
Purtroppo, le vittime erano quasi all´ordine del giorno... E´questo che non riuscivo a capire: stavamo facendo un qualcosa che nessuno prima d´ora aveva fatto, l´intercontinentale (non solo internazionale), perché la Turchia era Asia e l´Iran la Persia dei libri di scuola, ma nonostante questo ponte virtuale che creavamo tra oriente ed occidente, nessuno si ricordava di noi.
Niente.
Nessuno.
E pensare che eravamo – anche se ero solo al primo viaggio, mi ero automaticamente inserito tra i veterani – dei pionieri, facevamo un qualcosa che nessuno aveva fatto prima.
Ma intanto, una buca semi nascosta mi fece sbattere la testa contro il tetto della cabina, sbandai leggermente, sollevai un cumolo di neve e mi rimisi dritto, con i peli dritti come antenne per lo spavento.
Ad ogni tornante era una roulette russa con chi sopraggiungeva in senso opposto: se era un collega diciamo europeo, ci si aiutava a suon di gesti e parole in esperanto stradale. Se era un Apachi, potevo solo chiudere gli occhi e pregare.
Brutto da dire, ma considerando il girone infernale che il Tahir era, credo fermamente che Dio avesse sin da allora altro fare che buttare un occhio laggiú.
Arrivammo in cima.
Lo spettacolo era drammatico: due bilici olandesi erano finiti dritti nel mezzo di un sorpasso tra un Tonka ed un pullman turco.
Fu un massacro. Feriti, sangue sulla neve, gente che urlava, altri che cercavano di uscire dai finestrini: ovunque pezzi di carrozzeria, parti meccaniche, scatole, valige..
I due colleghi erano vivi, ma necessitavano con urgenza di cure mediche.
Li portammo nella mia cabina, cercando di prestare loro i primi soccorsi.
Il piú vecchi dei due, sulla cinquantina, alto, massiccio, barba rossiccia e occhi accesi nonostante la botta sulla fronte che sanguinava copiosamente, in un inglese stentato mi disse „ Merry Christmas.. Buon Natale”...
Natale! Oggi era il giorno di Natale!.
MI bloccai, come se fossi stato colpito all´improvviso da un pugno.
Per i forzati del volante come noi, come loro, il Natale non era altro che un altro giorno sul calendario, magari un pranzo tutti assieme in cabina o da qualche parte nel deserto.
Ma niente alberi illuminati.
Niente scambio di doni o panettoni.
Nessuna emozione insomma.
Non so perché, ma scoppiai a piangere.
Piangevo perché avevo capito che la passione mi aveva fottuto allegramente la mia vita; piangevo perché non era possibile che il giorno di Natale ero bloccato sul passo del Tahir, intento ad aiutare un collega olandese; piangevo per il bambino che ero stato e che non avrei potuto piú essere.
Piangevo e ridevo, come in una sorta di stress post avventura.
Ero diventato nevrastenico di colpo.
Per riportarmi in riga, m´imposi due gollate di whisky.
La polizia, dopo diverse ore arrivó.
Mentre guardavo quegli strani esempi d´uomini d´ordine, per niente corretti e molto prepotenti, tentare di sistemare quel gran casino, notavo come la colonna dietro di me andava piano piano allungandosi.
Come una specie di stella cometa d´acciaio, stavamo cominciando a colorare di giallo ed arancione le terribili curve del Tahir, del passo maledetto.
Eravamo in cerchio, io, il mio socio ed altri due autisti, fumavamo mentre la sera calava.
Ogni tanto, mentre i fari dei camion proiettavano le nostre ombre lontano, sul mando bianco candido che ci circondava, gettavamo uno sguardo in alto, osservando qualche timida stella farsi spazio tra le nuvole, e magari cercando di beccare la nostra, di stella.
Quella festa, in fondo, non era altro che speranza.
E forse noi piú di tutti ne avevamo bisogno.
Speravamo di arrivare a sera ancora vivi.
Speravamo di tornare a casa.
Giuravamo a noi stessi di smettere per sempre con quella giostra da zingari del ventesimo secolo, mentendo spudoratamente.
Speravamo in vite migliori, ma in fondo, veramente in fondo ad nostra azione, sapevamo che non c´era altro di meglio da fare che mettere fine a quelle inutili girandole emotive e mettere su una bella moka di caffé.
Mentre bevevo il mio dalla tazza metallica, gusto forte, duro, senza zucchero, avevo capito che forse, in fondo, non c´era niente da capire.
Tutto iniziava e tutto finiva in quei pochi attimi, in quei pochi respiri che esalavo, mentre con occhi diversi, forse migliori, forse peggiori, aspettavo che arrivassero i nuovi battiti del mio cuore.