Closing Time......
Introduzione
.... ogni inizio parte dalla fine di un’altro inizio.
E’ sostanzialmente il senso delle cose, del loro percorso e della loro stessa esistenza.
Siamo nel 1985 ed il Medio Oriente e’ ormai tramontato.
Le instabilita’ politiche prima, e la guerra tra Iraq e Iran poi hanno fatto in modo che il sipario calasse sopra questa storia, quest’epoea irripetibile ed unica nel suo genere.
Bisognava quindi riadattarsi, raggiungere nuove mete e continuare il lavoro.
Molti dei veterani della Linea si convertirono quindi alla Russia (allora URSS), alle rotte Balcaniche e alla Grecia.
Altri ancora puntarono nettamente verso ovest, su Spagna e Portogallo, allora molto richiesti.
E quindi ecco che inizia un nuovo percorso, sicuramente diverso, sicuramente meno affascinante ma senz’altro avventuroso.
In questo racconto parliamo di una parte di mondo che oramai non c’e’ piu’, quell’Est Europa cosi tanto lontano e selvaggio ai quei tempi, cosi vicino e cambiato ai giorni nostri.
Il comunismo e’ caduto, con tutti gli annessi e connessi del caso.
La globalizzazione del camion e delle spedizioni e’ arrivata anche li.
Adesso tutto e’ monocromatico, se vogliamo, ma prima no, era bianco come la neve che cadeva e grigio come il cielo d’inverno che solo in est europa sa essere cosi.
Parliamo di mondi diversi, di volti e posti che hanno comunque resistito alla geografia del tempo e delle cose, entrando di diritto nella mitologia “on the road”.
Parliamo di camion e di camionismo senza distinzioni di provenienza o di marca, perche’ siamo tutti sulla stessa strada, perche’ a conti fatti non importa quanto sia potente il camion che stai guidando, quanto sia distante la tua meta o quanto valga il tuo carico. Conta solamente l’intensita’ che ci metti ad ogni metro percorso.
Parliamo sopratutto di uomini, di quel legame inossidabile che si crea tra uomo e camion e tra colleghi.
Di amicizie che vanno oltre lo spazio ed lo scorrere degli anni , di silenzi, di pacche sulle spalle e di discussioni eterne, sempre terminate con il fatidico “Cia’, fa su n’ caffe’”.
Dedicato ad Ernesto, a Tonino e a tutti i Veterani del Medio Oriente.
Seguiamo la richiesta del Penna Bianca, prepariamo la moka e che la storia inizi.
I CAMION
Se ci fossimo fermati di la’ ,quando ancora c’era la luce del giorno a guidarci, nello spiazzo di un benzinaio poco dopo Nagykanisza, sicuramente ci saremmo persi questo spettacolo.
Casa bassa, finestre piccole e tetto aguzzo, qualche tavolo di legno circondato da autisti che mangiano da una pentola di minestra in comune posata sul tavolo, bevendo acqua da una brocca dal vetro giallastro e palinka direttamente dalla bottiglia.
L’aria e’ pesante, calda, illuminata solo da qualche lampadina spenzolante e dal falo’ del caminetto che brucia gagliardo.
Un gatto spelacchiato vaga per i tavoli mendicando cibo; un ‘anziano dai folti baffi ed un paio di occhiali dalle lenti spesse lo prende in braccio con se e comincia a passargli dei pezzetti di lardo.
Una signora, quasi sicuramente la proprietaria, c’indica il posto dove sederci.
Poco dopo ci portano del Gulash, e la mia speranza di non averlo troppo piccante viene vanificata dopo la prima cucchiata, che mi manda in fiamme lo stomaco.
Per ovviare a questo problema, ad ogni boccata ci mangio sopra una fetta di pane, con il risultato che alla fine sono gonfio ed affamato.
Fuori il vento soffia, fiocchi di neve rimbalzano come coriandoli ghiacciati contro i vetri delle finestre, mentre da fuori il silenzio ovattato della nevicata e’ interrotto solo dal passaggio di qualche Raba o di una maleodorante Trabant.
“Ma dove cazzo e’ Budapest?” chiedo a Tonino, che seduto di fronte a me sembra invece gradire la zuppa “ non arriviamo mai”.
Lui, silezioso e duro come sempre, alza gli occhi su di me, ed in silenzio si volta, gettando lo sguardo oltre le mure, osservando quel panorama desolante che e’ la campagna ungherese in pieno dicembre.
Un altro Natale fuori casa, tanto per cambiare.....
Eravamo nel mezzo di un viaggio, il primo di questa nuova avventura da infermo bianco che e’ stata la Russia e tutte le nazioni vicine ad essa, iniziato quasi 3 giorni prima da Udine.
Destinazione finale : Smolenks, URRS.
Il Medio Oriente, con la tutta la sua alchimia di avventura e panico, era inesorabilmente terminato.
La guerra tra Iran e Iraq prima (con la conseguente instabilita’ politica di tutta l’area circostante che ne consegue) e i costi oramai proibitivi poi, hanno portato alla fine dell’epopea, almeno per i trasportatori europei, della Linea.
L’erba avrebbe cominciato a crescere su quelle piste fino a poco tempo prima batture in ogni loro palmo dal peso dei nostri camion, la polvere si sarebbe finalmente posata a terra e le ansie di Gurbulak sarebbero svanite da li a non molto.
Bisognava quindi adattarsi e trovare nuove soluzioni.
Per quanto mi riguardava, avevo gestito abbastanza bene quell’anno, con la Grecia durante la stagione delle angurie ed il Portogallo subito dopo, da luglio in poi.
E adesso la Russia.
Va comunque detto che il mercato URSS non e’ che fosse un paradiso, soprattutto perche’ era dominio assoluto di Sovtransauto (d’altronde erano la compagnia di Stato), seguita subito dopo da Rondine e da Unitra.
I carichi erano per lo piu’ dei completi “chiavi in mano” da consegnare nei cantieri sparsi un po’ dovunque.
Entrarci non era dunque semplice, ma dopo estenuanti trattative riuscii finalmente a spuntare un contratto per due viaggi.
Ottenuti i permessi ditransito per Ungheria e Russia, si puo’ partire.
14 dicembre 1985, fa freddo, il cielo friulano sopra di noi e’ una lastra d’acciaio grigio che minaccia neve.
Carichiamo i rimorchi, e riusciamo ad arrivare a Fernetti per le pratiche doganali.
Cerca l’agenzia Valle, dai i documenti all’impiegato dietro il bancone e aspetta.
Da lontano si vedono i cantieri del nuovo autoporto, moderno ed ampio, cosi lontano dai tempi eroici della mitica casetta di legno con la signora Maria pronta ad accoglierti e a farti il transito.
Ricevuti indietro il tutto, facciamo finalmente il nostro ingresso in Yugoslavia, via Sezana.
Tutte strade statali, boschi di pini che le abbracciano e nevischio che comincia a cadere, transformandosi presto in neve.
Tonino con il suo Scania 142 mi segue, mentre lo precedo con il mio Ford 4432 Trascontinental.
Una buona macchina, alta, forse fin troppo innovativa (e quindi non capita appieno) ai tempi; avevo apportato alcune modifiche, tra cui l’isolamento della cabina (prima era un frigo d’inverno e un forno d’estate), l’aggiunta del Webasto con il doppio svio a V su entrambe i sedili, e memore del Medio Oriente avevo installato il riscaldatore nel serbatoio e nel filtro a bagno del gasolio. Insomma, da quel punto di vista, ero preparato.
Arriviamo a Postoijna che nevica, i tergicristalli lavorano senza sosta mentre tutto attorno a noi e’ silenzio e boschi, qualche camion in senso opposto, un Mercedes bulgaro, un Russo ed un paio di Volvo ungheresi.
Con il finestrino un po’ abbassato, cerco di captare il suono delle gomme sul manto bianco, ma con 20 tonnellate caricate bene le catene possono restare dove sono.
Tra una curva e l’altra, fermandoci solo per un caffe’ poco prima di Ljubliana, arriviamo a Trojane, e la neve comincia a fare sul serio.
Qualche mezzo intraversato, forse a causa della pigrizia del suo autista nel non voler mettere le catene, e gli alberi che sembrano curvarsi verso di noi mentre passiamo, ed ecco completato quello scarso panorama.
Si fa sera, ci fermiamo in un piazzale a mangiare qualcosa assieme in cabina, chiaccherando di tanto in tanto, fumando sigarette e cercando di dare un senso alle nostre esistenze.
L’alba mi prese nel momento in cui avevo finalmente preso sonno.
Nonostante la dormita (accompagnata dai famosi krapfen della pasticceria poco distante che hanno reso famosa la localita’ di Troijane), mi sento a pezzi, infreddolito.
Scosto le tendine, non prima di aver acceso moka e una paglia tra le labbra, preparandomi mentalmente alla preparazione delle catene.
Sorpresa: nonostante la neve, gli spazzaneve hanno lavorato senza sosta durante la notta ed il risultato e’ una strada pulita e praticabile. Bene!
Sveglio Tonino, ci prepariamo e partiamo.
Passiamo Celje, Maribor, Murska Sobota, strade uguali, villaggi innevati, sembra che il cielo si stia aprendo per dare spazio ad un pallido sole, ma si tratta di un’illusione che dura veramente poco.
Tengo gli occhi puntati sulla strada, mai fatta prima, seguendo i cartelli che indicano Lenti/Letenye, confine yugoslavo/ungherese.
Ho la mente stranamente sgombra, guido meccanicamente lasciando al mio Freddy, il Ford, il compito di portarmi verso questa nuova meta che e’ la Russia, cosi tanto sentita nominare ma mai vista con i miei occhi.
Eppure di cartoline impresse nella memoria ne ho a migliaia, tutte archiviate nell’anima, pronte a saltare fuori nei momenti meno buoni, davanti ad un caffe’ con Tonino, l’amico di sempre, sempre li, nel mezzo, finche’ ne abbiamo, finche’ possiamo, tentando con i nostri discorsi di trasformare mille lire in duemila.
Confine, ci siamo finalmente.
Comincio ad intravedere qualcosa, adesso il paesaggio e’ piatto, nessun centro abitato, solo campi innevati interrotti da boschi di pini e quercie, la neve ha ricominciato a cadere, il fondo stradale si fa diverso, leggermente infossato.
Arriviamo in dogana, la bandiera ungherese sventola sopra un pennone piazzato a lato dell’edificio principale.
Due poliziotti di frontiera, avvolti nei cappotti di pelle , ci fissano mentre ci avviciniamo scalando le marce; parcheggiamo, scendiamo e silenziosamente entriamo per fare il transito, non prima di aver salutato i due con un cenno del capo.
La lingua e’ incomprensibile, un funzionario da dietro lo sportello, in giacca e cravatta verde, esamina i nostri documenti. Io quasi trattengo il fiato, perche’ sto per entrare in un paese che non conosco, con una lingue difficile e del tutto imprevedibile come ogni viaggio che ho fatto finora.
Strano ma vero, ce la caviamo celermente.
Usciamo , mi accendo una sigaretta mentre i due poliziotti si avvicinano e controllano i nostri camion.
Tutto fatto, passiamo la stanga ed entriamo in territorio magiaro.
Le differenze si notano subito.
Strade pessime, strette, tutte gobbe e buche, traffico poco ma lento, lentissimo, basta trovarti davanti al muso una Trabant o un IFA che vanno ai venti, trenta all’ora e sei fritto.
Le autostrade non ci sono ancora, solo una settantina di chilometri prima di Budapest, da Veszprem in poi.
Prima no, tutte normali.
Andiamo avanti lentamente, superiamo colonne di camion russi che si stanno dirigendo in senso oppossto.
Altra cosa strana, qua gli autisti non parlano molto tra di loro.
Stanno chiusi in cabina, fumando, leggendo o mangiando.
Aspettano con una calma quasi zen i loro documenti di transito o di esportazione senza far affiorare alcun sentimento.
Comincia a mancarmi il Medio Oriente, dove eravamo tutti solidali, Italiani, Rumeni, Francesi eravamo una squadra unica, senza distinzioni di razza o altro.
Tonino mi precede, lo seguo lasciando gli occhi vagare in questo bianco nulla che ci avvolge.
Dal rimorchio sollevo nuvole di neve e ghiaccio.
Un sasso sollevato da un Kamaz che incrocia il mio andare si schianta con un tonfo sordo appena sotto il parabrezza.
Comincia il sali e scendi prima del lago Balaton, nevica.
Passiamo Nagykanizsa, tiriamo dritto, la strada adesso e’ vuota, solo noi con il rumore dei nostri pensieri e dei motori sottostanti, che senza sosta girano come a ricordarci la nostra missione.
La neve cade incessantemente, la giornata sta volgendo al termine e tutto sembra bianco e cupo, come solo i paesaggi invernali dell’est europa sanno essere.
Uno strano senso di tristezza comincia ad avvolgermi, mi sento come svegliato di colpo da un bel sogno, fatto di piste in mezzo al deserto, con la Pipe Line saudita al mio fianco, incrociando cammelli e tempeste di sabbia, seguendo l’orizzonte perdersi dentro una lingua d’asfalto troppo oleoso e poco stabile.
Tutto in contraddizione con quello che sto vedendo, villaggi spenti e coperti dal gelido abbraccio dell’inverno,
qualche luce dalle finestre, una timida insegna di una locanda che offre un piatto caldo e un goccio per ritemprarsi da questo limbo bianco che sembra non avere fine.
BalatonLelle, Balaton Fotbar, Balaton Fured, cominciano le indicazioni verso questo lago mezzo ghiacciato, che dalla nebbia emerge piano piano alla mia sinistra.
Nonostante la curiosita’ data dal luogo, non riesco a distrarmi, seguo Tonino senza alcuna esitazione, quasi ipnotizzato dai suoi fari di coda.
Ci fermiamo per fare un rabbocco di gasolio , e mentre la pompa lentamente gira e scarica litri nel serbatoio, ne approffitto per un caffe’ con il mio compagno di viaggio.
Ripartiamo, finalmente un cartello che indica l’autostrada.
La imbocchiamo, siamo a Veszprem, circa 70 km prima di Budapest.
Adesso il panorama sta lentamente cambiando, qualche capannone, illuminazioni, sembra quasi di attraversare un paese abitato.
La nostra corsia termina al culmine di una salita dove possiamo ammirare la citta’ di sera, arancione e nera come tutti i posti di notte, le colline in fondo sembrano tante lanterne che galleggiano sulla cresta di uno stagno immaginario.
Trovare l’ hotel Nazionale non e’ facile.
Chiediamo informazioni ad un passante, ma e’ come cercare un ago in un pagliaio.
Poco oltre una Lada della Polizia con il lampeggiante blu sembra poter venirci in aiuto, ma anche qua nessuno che parla francese tedesco turco.. solo questa maledettissima lingua.. il poliziotto continua a dire “ “balra balra, es egyenesen 4 km”.
Io e Tonino ci guardiamo e dopo qualche tentativo a vuoto e molto intuito arriviamo a destino.
Entriamo nel piazzale ghiacciato, parcheggiando accanto ad alcuni camion e tra cui due Fiat italiani.
A cena poi, ci uniamo ai nostri connazionali ed e’ un sollievo poter usare la nostra lingua almeno per un po’.
Arriva il cibo, ovviamente Gulash, ovviamente piccante, e che cazzo!
Mi devo accontentare di pane, formaggio e burro, di qualche cetriolo sottoaceto (che ho capito chiamarsi uborka) e caffe’, che quanto meno e’ accettabile.
Finiamo la serata cosi, parlando e parlando e parlando, fumando ed accompagnando il tutto con qualche goccio di grappa (rigorosamente italiana), e gettando lo sguardo oltre la finestra appannata, continuo a chiedermi per quale strano sorteggio del destino siamo qua, come quattro zingari, a parlare di tutto e niente, forse per ingannare il tempo, forse per nascondere un po’ la continua lontananza da casa, dalla famiglia, dagli amici, e forse anche da noi stessi.
La mattina seguente ripartiamo, non prima di aver raschiato il ghiaccio formatosi durante la notte sui parabrezza dei nostri camion. Mentre i motori si scaldano, accendo una sigaretta e mi consulto con Tonino circa il percorso di oggi: arrivare la confine con l’Ucraina, a Zahoni, fare il transito ed entrare via Chop.
La cartina stradale e’ aperta sopra il volante del mio Ford, io sono seduto al posto di guida mentre il mio amico e’ in piedi sui gradini, appollaiato come un falco su un ramo.
Mentre guardiamo la strada da percorrere, la neve ricomincia a cadere copiosamente.
Come se non bastasse, anche il vento ci mette la sua parte, con il risultato che in pochi minuti siamo di nuovo da capo con il parabrezza.
Insomma, una giornata di routine per noi.
Abbandoniamo lentamente il piazzale del Hotel, sbuffano nuvole di fumo bianco dai nostri scappamenti, con le centine che traballano e la neve che si alza al nostro passaggio.
Uscire da Budapest non e’ cosi facile come sembra, ma ce la caviamo con poco impiccio e tante bestemmie dietro ad un pullman Ikarus blu e grigio, che sferraglia davanti a noi alla stordente velocita’ di 15 km orari.
Ci lasciamo la citta’ alla spalle, puntando verso est, verso questa nuova meta.
Fuori il paesaggio e’ bianco e gelido, attraversiamo villaggi poveri, fatti di case basse e poche forme di vita umana che arrancano nella neve proprio come noi.
Qualche carretto a cavallo, un paio di IFA (sempre i soliti lenti) e camion russi che incrociamo in senso opposto.
Andiamo a rilento, a causa della strada sconnessa e a schiena d’asino, ad ogni transito attraverso i paesi e’ una roulette russa su cosa ci fermera’ di nuovo, un camion intraversato, una lastra di ghiaccio, delle mucche oppure un bel blocco in mezzo al nulla.
Inutile dire che ho i nervi tesi, le indicazioni che ci vengono dai cartelli sono poche, seguiamo la massa di camion e uomini che sta puntando come noi verso est.
La mattinata passa cosi, tra una pausa caffe’ in mezzo al gelo e pensieri che mi rimbalzano nella testa come tanti birilli, seguendo Tonino, compagno di mille avventure, seguendo il mio istinto e quello che mi tira fuori.
Mangiamo a Nyiregihaza, attraversare questa citta’ e’ un impresa, ma ce la sfanghiamo egregiamente anche stavolta.
Zahoni, confine, ci siamo finalmente.
Ci accodiamo ad alcuni HungaroCamion che ci precedono, e quando e’ il nostro turno e’ oramai scesa la sera. Ha smesso di nevicare, il vento e’ cessato e per tutta risposta la nebbia sta avanzando prepotentemente davanti a noi, stendendo il suo manto ovattato sopra tutto cio’ che incontra sul suo cammino.
Le poche luci arancioni presenti sono gli unici riferimenti che abbiamo, i camion sono in moto e sembrano, visti da lontano, tanti piccoli lumi isolati e sperduti in questo nulla.
Anche qua nessuno socializza durante l’attesa, tutti per i fatti loro, nessuno ti saluta, ti offre una paglia, nulla.
Onestamente non ne conosco i motivi, ma vedendo anche i volti delle persone si capisce che l’allegria, specie in questo periodo dell’anno, non e’ di casa.
Il Natale sta arrivando, si accendono le luci degli abeti, si preparano doni e l’attesa incalza le anime e le riscalda, ma forse non per questa parte di mondo.
Tutto rimandato per noi e per loro, perennemente sospesi tra una dogana e l’altra, con in mezzo mille chilometri di strada ed altrettanti pensieri e parole che servono solo ad aumentare l’orgoglio e l’incazzatura, facendoci cadere in una perenne contraddizione con noi stessi.
Con l’anima a pezzi, e con gli occhi pieni, siamo solo degli stupidi equilibristi sempre in bilico sul filo troppo sottile della vita.
A braccia tese e mento alto, con in bocca un cucchiaio.
Sul cucchiaio una piuma.
Sulla piuma il peso delle nostre anime.
Entriamo nell’ufficio della dogana.
Una fila di autisti come noi con in mano la valigia dei i documenti attende pazientemente il proprio turno per ricevere un timbro o un lascia passare.
Ecco un’altra costante dell’Internazionale: l’attesa.
Quell’attesa fatta di bestemmie sottovoce, di carte, di controlli e di abusi spesso troppo pesanti da parte dei doganieri, che ci trattano come gli ultimi degli ultimi, sottraendoci quel poco che abbiamo in cabina solamente per il gusto di eserciatare su qualcuno il loro misero e vuoto potere.
Abbiamo tutti quanti la stessa espressione dipinta sulla faccia, scontenta , fiacca, misurando ogni sillaba od ogni sospiro, dove basta un nulla per farti bloccare o creare altri impicci.
Ci avviciniamo allo sportello.
I guai arrivano da soli, come sempre.
La lingua e’ ancora peggio, non capiamo cosa ci stia dicendo il funzionario davanti a noi.
E’ giovane, avra’ trent’anni al massimo, occhi piccoli e brillanti incorniciati in un muso da topo,con la divisa troppo grande che lo rende buffo alla vista.
Prende i documenti, ci indica una casella con dei numeri, alzando la voce.
Ci guardiamo tra di noi. Nulla.
Lui alza ancora di piu’ la voce.
Niente.
Sfregando pollice ed indice, ci indica che dobbiamo pagare una qualche tassa, che ovviamente non conosciamo ma che saldiamo senza troppi complimenti.
Timbri, firme varie e possiamo uscire.
Mettiamo in moto, ci avviciniamo alla stanga.
Tonino mi precede, si ferma e spegne il motore.
Due soldati lo fanno scendere e salgono in cabina, controllano tutto.
Lui, piantato come un solido platano, osserva a braccia conserte l’operazione a poca distanza.
Sembra a posto.
Alzano lo sbarra e lo fanno proseguire.
Tocca a me.
Stessa procedura, scendo io, salgono loro e qui cominciano i casini........
E. : “Lo avevo capito subito, dal ghigno della guardia.
Sale in cabina, mentre il suo compare ispeziona sotto il paraurti il Ford, alla ricerca di chissa’ quale oggetto misterioso.
Quello sopra, intanto, rovista nel cassettone, sulla branda, sui sedili.
Se ne scende poco dopo soddisfatto con il suo bottino, ovvero la mia cioccolata, un paio di scatolette di carne e una bottiglia di grappa.
E no, cazzo!
Mi pianto davanti a lui e gli dico che sono cose mie e che non puo’ prendersele cosi, tanto per.
Lui, di tutta risposta, si scansa ed entra nel gabbiotto, non prima di avermi preso tutti i documenti.
Con fare marziale, indica lo spiazzo da dove ero partito poco prima e mi dice “parking parking”.
T.: “ Avevo capito che qualcosa non andava. Ero appena passato oltre la stanga, dove quello stronzo di guardia voleva a tutti i costi farmi la cambusa. Meno male che avevo il cibo nel cassettone del rimorchio e non gli e’ venuto in mente di guardare li.
Ma adesso che c’e’?
Vedo l’Ernest fermo che sta parlottando con la guardia, e mi sembrano agitati.
Gli avevo detto di stare zitto....
E. : “ adesso qualcuno mi deve spiegare perche’ non posso passare il varco. E’ per questo che mi hanno messo in castigo? Per due barrette di fondente e un pezzo di salame? Pazzesco, ridicolo.
Mi accendo una sigaretta, chiuso in cabina e rabbioso come un puma.
L’idea di partire in quarta e di sfondare la sbarra mi passa per una frazione di secondo per la testa, ma non mi pare una soluzione saggia.
Spero solo che non sorgano altri problemi, perche’ ne ho le palle piene.
Mi manca il sole, mi manca il deserto.
La nebbia sta diventando sempre piu’ fitta, fatico a vedere a trenta metri.
E va bene, aspettiamo, e vediamo che cosa accadra’.
T.:” Niente, non si puo’ fare niente. L’hanno fatto andare indietro, e ades se fem?”.
In realta’ l’attesa e’ durata solo qualche ora, passata tra sigarette caffe’ e tanta rabbia in corpo da mandare giu’ col boccone dell’orgoglio.
Ad un certo punto, non so che ora fosse, credo fossero le undici di sera, arriva un soldato e mi da le carte che mi avevano tolto.
Il cibo invece no, probabilmente in quello stesso momento qualcono stava mangiando e bevendo alla mia salute.
Passo la stanga, quella famosa, percorsi venti metri trovo Tonino ed il suo Scania parcheggiati.
Mi piazzo davanti a lui, scendo e lo raggiungo.
Lui, dalla cabina, mi guarda in silenzio, e senza dirmi nulla mi dice “ ‘ndem avanti.”
La nebbia e’ fitta, preferirei fermarmi qua per la notte, ma lui non ne vuole sapere.
Di intavolare una discussione non mi va proprio, percui mi caccio una paglia tra le labbra e parto.
Ovviamente sono davanti.
Ovviamente non si vede nulla.
Sto viaggiando ad una velocita’ media di 15 chilometri orari, la testa semicongelata perennemente fuori dal finestrino, con la paura di prendere la direzione sbagliata e di finire contro un’altro camion o, peggio ancora, fuori strada.
Non una luce che mi venga in aiuto, non un segnale, un qualcosa.
Bianco e grigio, e basta.
Mi sembra di guidare avvolto in una densa palla di cotone sporco, il parabrezza e’ uno schifo, sono costretto a fermarmi un paio di volte a pulirlo.
Il tempo sgocciola, sempra infinito.
Dopo una cura, comincio ad intravedere qualcosa.
Dapprima sembra un lampione, ma mano a mano che avanzo noto che si tratta di un piazzale.
Siamo arrivati a Mukacevo, ed e’ un parcheggio della Sovtransauto.
Suonando le trombe, faccio manovra e mi trovo senza accorgermene sopra al marciapiede.
Tonino mi imita, col risultato che ci siamo allineati per la sosta.
Cosi come sono, sfatto, con gli occhi rossi e stanchi per lo sforzo appena sostenuto, mi butto in branda.
Di mangiare se ne parlera’ domani.
Alba, fredda vivida e pungente.
Nonostante il webasto acceso, sono intirizzito dal freddo che mi avvolge.
Tiro le tende, i vetri sono totalmente ghiacciati.
Metto in moto il Ford, che dopo un po’ di capricci mattutini comincia a girare al minimo.
Caffe’, mi serve subito!
Dopo averlo ingerito, comincio a ragionare piu’ lucidamente.
Comincio a raschiare i vetri e gli specchi retrovisori.
Accanto a me, vedo Tonino seduto in cabina che si sta facendo la barba.
Faccio per parlargli e mi accorgo che ha i cassettoni del rimorchio aperti.
“ Ma sei sceso?!” gli chiedo sporgendomi dal lato del passeggero.
E lui : “ assolutamente no”.
Capiamo al volo, scendiamo tutti e due.
Durante la notte, qualcuno a pensato bene di aprire i cassettoni di entrambe i semirimorchi (i miei erano vuoti) e cosi si sono concentrati su quelli del mio amico.
Il problema e’ che lui li ci teneva la cambusa, pasta, conserve, lattine di tonno e carne.. tutto quanto sparito.
Incazzati ed infreddoliti, andiamo dal guardiamo, gli indichiamo gli sportelli aperti.
Lui, come se niente fosse, apre le braccia e ci fa capire che non si puo’ fare nulla.
Alziamo la voce, urliamo, ma e’ come se parlassimo al muro.
Sconsolati, ce ne andiamo dal quel posto triste e freddo, con la temperatura che oscilla attorno ai -25 centigradi.
Carpazi, eccoci finalmente, nessun cambiamento particolare qua, tutto bianco, strada pessima.
Stranamente, i camion, perlopiu’ russi, che incontriamo, ci salutano battendo i fari... ma come? Fino a ieri manco ci filavamo e adesso siamo compagni? Stranezze d’oltre cortina.
Guido meccanicamente, senza alcuna emozione in volto o in testa.
Il motore sta girando bene, anche se a breve avro’ bisogno di fare gasolio.
Riusciamo ad arrivare a Lvov, punto subito un benzinaio gestito da una donna corpolenta e dai capelli ricci, fisico da lottatrice.
Per esperienze sentite, sapevamo che si riusciva a fare gasolio pagando in cosmetici femminili al posto dei rubli.
Ci provo. Accosto alla pompa, mi avvicino alla signora e le faccio capire che devo rifornirmi, mostrandole le scatole che avevo sapientemente imboscato sotto il giaccone prima di scendere dalla cabina.
Lei, con fare furtivo, le afferra al volo e mi indica 3 con le dita della mano.
Capisco al volo, posso fare 300 litri, meglio di niente, visto che al momento del mio arrivo ne avevo a malapena per fare 100 km.
Si avvicina il Penna Bianca, osservano l’operazione e maturando dentro di se un’incazzatura data dal furto della notte precedente.
Se ne sta a distanza da me, tutto sulle sue, e io tra uno sguardo e l’altro alla pompa lo tengo d’occhio, sapendo che prima o poi gli argini si sarebbero rotti e avremmo litigato di sicuro.
Finiva sempre cosi.
Ci trovamavamo in mezzo ai casini e anziche’ uscirne litigavamo tra noi come cane e gatto.
Poi, di colpo, arrivava la soluzione, ci guardavamo e preparavamo il caffe’, sfanculando tutto il resto.
Finito il rifornimento, accostiamo in un piazzale antistante, parcheggiando tra un paio di copertoni abbandonati e una gru arrugginita che aveva visto tempi migliori.
Metto su un paio di lattine di trippa.
Tonino sale, gli porgo il piatto.
Lui, senza guardarmi, sussurra “ non ho fame”. E mette su il broncio.
“ Va bene” rispondo io.
Abbasso il finestrino, afferro la pentola e butto tutto fuori, rovesciando il cibo caldo sulla neve, dando cosi forma ad una specie di glassa rossa e untuosa sulla superficie ghiacciata.
Fissandomi con aria interrogativa, dice “ Ma che cazzo fai?”
E io : “ Andiamo avanti cosi fino a domani, oppure vuoi capire che e’ stato un incidente e che finche’ io ho cibo per tutti e due non ti devi preoccupare? Se non mangi tu non mangio io!”.
Quinta parte
La giornata passa cosi, silenziosa e ancora carica di tensione.
Un’altro giorno scorre lentamente dal parabrezza, sentendomi straniero in ogni metro che percorro, incontrando facce che per un solo istante diventano conoscenze, per poi risvanire di nuovo nella coda dei miei specchi retrovisori.
I villaggi che attraverso sono come il mio umore: tristi.
Natale e’ dietro l’angolo, e anche se e’ da un paio di giorni che non consulto la mia agenda, mi basta poco per ricordare che anche per quest’anno passo la mano, sostituendo il cenone della vigilia con un paio di scatolette di carne e le tavolate con parenti ed amici che diventano piazzali di dogane ovatta ghiacciata attorno.
E’ cosi che andiamo avanti, di dogana in dogana, di chilometro in chilometro, arrocandoci in una spirale senza fine di odio ed amore per questo mestiere che si sente e non si fa, dove la famiglia e’ un ricordo lontano e qualche foto appesa in cabina, pensando sempre che ogni viaggio sia l’ultimo.
Come una droga dalla quale smettere, l’internazionale di questi anni e’ cosi : intenso.
Tornare a casa con il proposito di piantare li tutto, dedicarsi forse per sempre ad una vita normale.... tutto vano, tutto inutile. Passa poco e ricominciamo a trottare e forse piu’ di prima.
Strane persone che siamo....
Cala l’ennesima sera, per oggi basta coi pensieri.
Oramai di proseguire non se ne parla, troppo stanchi anche noi.
Ceniamo in cabina, stavolta anche Tonino mangia, anche se silenzioso come sempre.
In questi anni abbiamo tessuto un legame inossidabile al tempo e alle distanze,e nonostante le discussioni (almeno una per giorno), siamo sempre uniti, amici, di quelli veri.
E’ cosi dovrebbe essere tra tutti gli uomini: poche parole e una forte intesa.
Oh amico mio, quante parole abbiamo intrappolate dentro di noi.
Se solo potessimo trovare la voglia e la forza di dirle forse potremmo cambiare, forse qualcosa finalmente si potrebbe muovere anche per noi.
Ma diciamo la verita’, siamo cosi perche’ lo abbiamo scelto tanti anni prima, senza margine d’errore, convinti come lo siamo tutt’ora che per noi, la vita, o e’ cosi o semplicemente non e’.
Verso le due, mi sveglio di colpo e capisco che qualche cosa non va.
In cabina ci saranno dieci gradi sotto zero.
Sta gelando il gasolio!
A occhio e croce siamo sui meno trenta.
Provo a mettere il moto il Ford.
Niente.
Riprovo.
Niente.
Terzo tentativo.
I pistoni partono uno alla volta, ma alla fine riesco a dargli il ritmo ed il motore comincia a girare al minimo.
Il webasto invece no, devo far saltare la guarnizione di gomma che si e’ seccata per il gelo se voglio farlo lavorare.
Sveglio Tonino, salta giu’ dalla branda.
Purtroppo per lui pero’ il gasolio e’ gelato.
Non possiamo fare nulla, troppo buio e freddo per tentare una messa in moto.
Aspettiamo l’alba da me, bevendo caffe’ e scambiando di tanto in tanto qualche frase, giusto per rompere quel silenzio cadenzato solo dal rumore dei pistoni che la sotto stanno lavorando per noi.
Ad un certo punto, saranno state le sei o le sette del mattino, scendo per sgranchire le gambe.
Nel silenzio che regna attorno a noi, da dietro una curva scorgo due fari che sopraggiungono.
Mano a mano che si avvicina, riconosco un Volvo F12 che si avvicina.
E’ italiano!
Il buon Erminio Pomati, di Como!
Pensa te, a migliaia di chilometri da casa, con un camion in panne e con la prospettiva allettante del natale fuori dal mondo, ecco che arriva un’amico, un collega che ti puo’ aiutare!
Si ferma, altro caffe, sigarette, parliamo.
Aiutiamo Tonino ed in un paio d’ore riusciamo a mettere in moto il suo 142 e a riprendere il viaggio, arrivando a destino circa due giorni dopo.
IL TONINO IN RUSSIA