Quando si parla di Medio Oriente, subito si pensa alle drammatiche vicende umane e politiche che quest’area geografica sta vivendo da più di vent’anni.
Siamo abituati a vedere le solite immagini proposte da giornali, televisioni, internet. Spettacoli purtroppo noti, e del tutto tristi, sconcertanti, se pensiamo che proprio in questa terra, migliaia e migliaia di anni fa, si sono sviluppate civiltà importantissime, dalle quali ne sono nate a loro volta altre.
Eppure, in un tempo non molto lontano, proprio queste lande sono state solcate da migliaia di uomini provenienti da mezza Europa, che con i loro camion hanno domato le piste desertiche, i passi più insidiosi, le tempeste di neve dell’Anatolia ed il caldo opprimente del deserto saudita.
E non per avventura o per spirito d’evasione dall’ordinario, no, semplicemente per lavoro.
Inconsapevolmente, hanno scritto le pagine più avventurose della storia dell’autotrasporto europeo, senza plausi, senza riconoscimenti, solo fatica, adrenalina e tanto, tanto sacrificio.
Sacrificio per la lontananza da casa, con assenze di settimane, mesi, perché ogni viaggio era roulette russa con il proprio destino, sapevi quando partivi ma mai quando (e se) tornavi.
QUAINI FRANCO , FOTO PUBBLICATA SULLA DOMENICA DEL CORRIERE
Sacrificio perché non era facile trasformare in propria casa la cabina del camion, all’epoca dei fatti non ancora studiate per queste tratte, se non negli ultimi anni, quando le case costruttrici realizzarono appositamente delle versioni “ Middle East”, con qualche comfort in più, frigo, condizionatori, piccole cucine.
Non a caso si parla di camionismo “estremo”, di uomini e mezzi portati allo stremo delle loro capacità, con sbalzi termici incredibili, dai meno venti, meno trenta, dei rigidi inverni turchi, ai più
Quaranta dei deserti della Giordania, del Qatar, degli Emirati Arabi.
E perché non parlare della neve, del ghiaccio e del fango che praticamente accompagnavano questi ragazzi da dopo Sezana, appena entrati in Yugoslavia, pioggia insistente e fitta, strade strette, tutte curve, buche. E le gallerie Bulgare? E la motta tremenda insidiosa, della
dogana di Kapikule?
Non si trattava di essere semplicemente conducenti.
Di portare il proprio camion da A a B e ricaricare da C per D.
No, si doveva essere autista, meccanico, ragioniere, diplomatico, avventuriero, manager di se stesso, e bandito, si anche quello.
Nazioni diverse, usi e costumi, situazioni politiche spesso precarie ed instabili.
Tutto questo in un solo viaggio.
Tutto questo nel nome dell’avventura, di questa chiamata della vita alla quale hanno risposto due generazioni di camionisti, segnati una volta e per tutte dal “mal d’oriente”, perché ti entrava nel sangue come una droga, come una necessità, come respirare o bere, l’adrenalina era una compagna di viaggio fissa, occupava la cabina, riempiendo ogni spazio libero, mentre i tergi cristalli spazzavano incessantemente la neve ed il ghiaccio che vengono giù da un cielo color acciaio.
Solo il rumore cadenzato del motore, l’attrito delle gomme sul manto bianco, le catene che sferragliano, mentre fissavi ipnotizzato i fari del mezzo che ti precede, guidato forse con mano insicura, magari un collega al primo viaggio, coi piedi perennemente sui freni, ed il rosso dei fari posteriori del rimorchio diventa l’unico contrasto con tutto quel bianco attorno,
Pensieri pesanti, mentre tutto attorno è ovatta e timore di non farcela.
Il Medio Oriente è come sempre padrone di tutto, anche della mente.
Salivi bilanciando potenza e fondo pericoloso, perché troppa velocità ti poteva ammazzare, ma troppa poca ti faceva piantare nel bel mezzo della strada, situazione forse ancora più pericolosa.
Foto web
E poi la cima, un piccolo rettilineo, ecco la discesa, ancora peggio, ancora più rischiosa, incrociavi qualche camion in senso opposto, anche lui, non un semplice collega, ma un potenziale amico, aiuto, un essere umano accomunato a te da questa grande epopea. I camion che s’incrociavano lenti, sollevando entrambe nuvole di fango e neve, motori sbuffanti fumo nero, a causa della mancanza d’ossigeno in vetta, lo incroci, è un ungherese, lo capisci dai colori gialli verdi e
rossi con i quali il suo Volvo F89 è dipinto, nonostante la crosta marrone che lo ricopre, come segno delle intemperie del percorso. E poi si scende, dita serrate sul volante, guidando quasi in punta di piedi, trattenendo il respiro, denti stretti, avevi quasi paura di pensare, perché troppi pensieri ti distraevano, e le distrazioni, cosi come i deboli di reni, là non erano ammesse.
Buche, scossoni, rimorchio che scoda ad ogni giro di sterzo.
Chilometri che sono lunghi, eterni, e la paura che cresceva quando intravedevi un altro camion salire in senso opposto al tuo, perché quelle strade non erano studiate per quel traffico, per quei volumi. Nella maggior parte dei casi si percorrevano tratte con una sola corsia (non molto larga), magari priva d’asfalto, quindi ghiaia d’estate e neve d’inverno, con condizioni che peggioravano in prossimità delle montagne, con il traffico locale che si mischiava a quella marea meccanica che arrivava li da ogni dove.
Ecco cos’è stato il Medio Oriente, la Linea.
Uno stato d’animo, una condizione dell’essere che difficilmente ha trovato sue ripetizioni.
Ma com’è nato tutto questo?
Nel 1963, in seguito alla “rivoluzione bianca” l’Iran da il via ad un lungo quanto rapido processo di sviluppo economico e sociale, grazie al genio e all’estro dello Shah Mohammad Reza Pahlavi, che promuove il progresso del paese anche grazie all’espansione urbana e commerciale, portando quindi il paese verso una nuova era.
Il nuovo fenomeno si diffonde a macchia d’olio ai paesi confinanti, come Iraq, Emirati Arabi e Afghanistan, che forti della presenza sui loro territori di giacimenti petroliferi (nonché membri dell’OPEC, l’organizzazione mondiale dei produttori di petrolio), intuiscono che l’occidente, e l’Europa in particolare, hanno una forte dipendenza dall’oro nero e i suoi derivati, e facendo leva sul suo prezzo al barile incamerano in poco tempo i fondi per poter iniziare anche loro una nuova era.
Già, il petrolio. La fonte energetica più ambita.
IN QUESTA FOTO MICHELI TRASPORTI BERGAMO
Ma come portarlo fuori dai pozzi?
Uno dei primi compiti dei trasportatori europei è proprio quello di consegnare in questi paesi il materiale necessario per la realizzazione di oleodotti, strade, raffinerie, depositi per carburanti.
Si deve costruire da zero dovunque, il deserto cede i suoi spazi all’asfalto, spuntano un po’ dovunque nuovi insediamenti che ben presto si trasformano in città vere e proprie.
Poi ci sono le fabbriche e altri settori come l’agricoltura e quello manifatturiero da portare avanti, quindi i camion fecero rotta con i loro carichi di manufatti che una volta assemblati diventarono vero e propri siti produttivi, paesi e quartieri interi di città.
Il cemento, che fino ad allora era prerogativa dell’Egitto, arrivava a questo punto anche dall’ Italia e Francia, cosi come il ferro, materiale elettrico, attrezzature varie, e poi ancora macchine movimento terra, gru, parti di ricambio.
Tutto ciò che può essere trasportato da un camion viene automaticamente spedito.
La scelta del camion è stata fatta per due semplici motivi : il moderato costo operativo e d’esercizio e la rapidità con cui le merci ordinate arrivano a destino.
Le navi infatti, mezzo di trasporto privilegiato e per antonomasia il più rappresentativo delle lunghe distanze (pensiamo alle navi mercantili ed alle più moderne porta container), non riuscivano a soddisfare la sempre più crescente richiesta di spedizioni in export verso queste località.
Inoltre, sino alla prima metà degli anni settanta i porti maggiormente interessati da queste tratte (come Aqaba in Giordania e Bandar Abbas in Iran), non erano in grado di gestire un simile flusso. Imbarcazioni ferme in rada per settimane, operazioni lente, e di conseguenza ritardi sulle consegne.
Di conseguenza, i paesi e le aziende decisero d’orientarsi sui camion, proprio per meri fattori economici e di servizio (cosi come sopra affermato).
E camion fu.
Sul finire degli anni sessanta, i primi viaggi Europa – Asia presero il via, con mete come Iran e Iraq in prima fila.
In questa prima fase però, pochi, pochissimi italiani.
Sia per motivi di mercato che di accessibilità dei permessi, dei visti delle ambasciate, legati e bloccati dall’italica burocrazia.
Per poter vedere un bilico italiano sfoggiare il bella vista la tabella TIR, varcando la dogana di Fernetti in direzione Asia dovremo aspettare i pieni anni settanta, quando le rotte mediorientali prenderanno il sopravvento, diventando una sorta di linea “regolare”.
SATIM DI BURAGO MOLGORA MI DA UNA FOTO DELLA DOMENICA DEL CORRIERE 1976
I camion sono gli stessi però ideati ed adibiti alle tratte nazionali ed europee, nelle loro versioni e modifiche, camion che fino al giorno prima venivano impiegati per la spola tra nord e sud della penisola, mentre adesso dai loro fari, dalle loro cabine vedono allargarsi i propri orizzonti, aprendosi ai panorami mozzafiato dell’Anatolia centrale
I viaggi hanno il sapore dei pionieri, da zingari del ventesimo secolo, si carica in Italia, ovunque, perché tante sono le spedizioni da inviare in oriente, si procede dritti alla volta di Fernetti, queste nostre colonne d’Ercole, prima vera porta tra est e ovest (all’epoca questo valico era costituito da una semplice casetta di legno, con all’interno un bancone e poco altro, da dove venivano fatti i transiti e le operazioni doganali quasi senza sosta).
Ottenuto il primo via, si entra in Yugoslavia, a Sezana, puntando dritti verso Belgrado.
Ci si rende subito conto della differenza.
Strade fatiscenti, villaggi, traffico pazzesco, animali che ti attraversano la strada ad ogni metro.Le famose Autoput, soprannominate anche “ Strade Killer” dove il rischio era veramente dietro ogni curva. Con la pioggia poi non ne parliamo.
Buche, fondi dissestati, centine dei rimorchi che traballano ad ogni scossone, tratti percorsi quasi a a passo d’uomo… con la neve e l’inverno poi non ne parliamo.
Si procede cosi fino a Belgrado, con la sua prima tappa quasi obbligata, presso l’Hotel Nazionale.
Dopo una notte di sonno si punta dritti verso Nis, e da li al confine con la Bulgaria.
Le autostrade e le tangenziale sono ancora la da venire, quindi si devono attraversare gioco forza le città, con in loro traffico caotico, i cartelli poco chiari e scritti in lingue incomprensibili.
A vegliare su tutto la Milicia, lo polizia, appostati e pronti a multe e mance.
Bulgaria, si respira sempre di più un aria diversa, qua i cartelli sono in cirillico anche, attraverso la città ed i suoi palazzi di cemento cosi cupi come il cielo che li sovrasta, povertà, cartelli inneggianti al regime e poco altro
AUTOPUT DOPO ZAGABRIA SALVATORE DI GENNARO DICEMBRE 1975 DESTINAZIONE TEHERAN
Fuori, nelle campagne tagliate dal nastro d’asfalto della nazionale, carretti a cavallo, gruppi di persone (manovali, braccianti, non si sa) che si spostano assieme a noi, sorpassarli è un dramma, perché il traffico non molla, gli autisti locali ti superano da tutte le parti, carretti di legno trainati da asini o cavalli, carichi di fieno, paglia, sacchi di iuta.
Si arriva a KapiKule, dogana bulgaro – turca.
Su questo posto ci vorrebbe un libro intero per descriverlo.
Probabilmente un girone infernale mancante alla Divina Commedia, dove le attese si misuravano in giorni se non in settimane. Dove il fango regna sovrano.
Servizi zero.
Ci si arriva da una strada normale circondata da una poca e scarna vegetazione dal colore indefinito, e si attende. Ecco un’altra peculiarità di queste tratte. Attesa. Per ore, per giorni, per settimane (ci furono diversi casi anche di mesi).
Stai li a fissare le sponde posteriori del camion che ti precedere, mangiando in cabina e guadagnando metri giorno dopo giorno.
Snervante. Impossibile da pensare. Ma essenziale per il proseguo del viaggio.
Si arriva finalmente al piazzale, dove ogni due corsie c’è una pozza di melma maleodorante, come se fosse una fogna a cielo aperto.
Transito effettuato e guadando questo mare di palta, rischiando ovviamente di rimanere impantanati, si viene imbottigliati verso il cancello d’uscita, verso la Turchia.
Istanbul.
Ponte tra occidente e oriente.
Città magica dalle mille luci e dai mille sapori.
LONDRA CAMPING ISTANBUL FOTO WEB
Due simboli: il ponte su Bosforo ed il Londra Camping.
Il primo, simbolo per eccellenza del passaggio da una parte all’altra del mondo, transitarlo rappresenta un traguardo molto importante nel viaggio. Si ha finalmente la sensazione di essere entrati in un'altra dimensione, un altro mondo, ecco.
Il secondo invece è un hotel con annessa officina e altri servizi, un luogo che è entrato nella leggenda del Medio Oriente, dove la tappa era obbligata, sia per riposarsi che per telefonare a casa.
Il piazzale sempre colmo di camion provenienti da mezza europa.
Un transito, una bandierina sulla cartina stradale. No, qualcosa di molto, molto più intimo.
L’essere al Londra Camping, seduti ai suoi tavoli, attraversando il parcheggio polveroso o venendo immortalati dai fotografi presenti (che ti rilasciavano a
DETTI LEONARDO ( IL BIMBO )
pagamento lo scatto con una cartolina recante il nome del locale), era come vivere un avventura all’interno dell’avventura.
Una babele di lingue e di vite, radunate ed accomunate dallo spirito di fratellanza e di follia che il percorrere queste strade richiedeva.
E poi via, transito sul ponte (del Bosforo, per l’appunto), direzione Ankara.
Ci si deve misurare con il traffico senza regole, con gli autisti del pullman locali (veri e propri kamikaze della strada, pronti a sorpassarti da ogni angolo e a folle velocità), e poi con gli Apachi, i camionisti locali che con i loro Tonka ( autocarri a due o tre assi carichi all’inverosimile), erano di missili terra/terra, pericolosi, arroganti, pronti a speronarti pur di non cedere il passo.
Durante i sorpassi acceleravano per non farti proseguire, per poi inchiodare di colpo, stringendoti in carreggiata, suonando incessantemente il clacson, quel clacson fastidioso che ancora oggi ti rimbomba nelle orecchie, e tu sei li, rimpiangendo di non avere cento occhi, perché sei perennemente in altalena tra retrovisori, parabrezza e volante, perché oltre a loro hai magai un carretto davanti, o un gregge di capre o anche un collega che si trova per la prima volta qua e va a passo d’uomo, con i piedi sempre sul freno.
Si va avanti cosi per chilometri e chilometri, con i nervi a fior di pelle.
Per non parlare del clima, d’inverno soprattutto.
Con la neve che cade copiosa ed è un continuo togli/metti le catene semplice, quelle doppie, praticamente su tutti gli assi.
E avanti cosi, fino ad Ankara, per poi dividersi: o verso sud, puntando verso Adana, e quindi la Siria, Giordania, il golfo Persico o gli Emirati Arabi oppure sempre dritti, verso Iran e Iraq, e poi ancora, verso Pakistan, Afghanistan.
Un magnifico incontro con l’avventura.
Un mondo a parte, a sé, cosi come i protagonisti ed i luoghi che lo compongono.
Ma chi sono veramente questi uomini? Questi “Baroudeur”, questi Balordi, come dicono i francesi?
PASSO DEL KIZILDAG ERNESTO PRIMO A DESTRA AL CENTRO BETTOLI E UN SUO AUTISTA
In questo lungo ed immaginario viaggio verso queste rotte, scivoliamo all’interno della cultura e dei fatti di quest’epopea, di questa Eldorado da mille e una notte.
Zingari del Deserto
Per l’avventura che sono finito qui, per cos’altro sennò?!
Beh, anche per i soldi.
Quelli piacciono sempre a tutti.
Cosa dice?! Che avventura è se un lavoro?
Lasci perdere, lei non può capire.
E poi cosa vuole?! E’ lei che mi ha fatto questa domanda, quindi non si lamenti delle risposte che le do!
Stia a sentire.
Noi siamo zingari, zingari di questo millennio.
Di frontiera in frontiera, di strada in strada, di casello in casello.
Viviamo in mezzo ad altri zingari, tali e quali a me.
Ognuno nella sua scatola di metallo e plastica.
Lei ci vede di notte e di giorno sempre sulla stessa striscia d’asfalto, e non come un aiuto all’economia o come lavoratori.
no, come degli ostacoli.
E mi dica che non è cosi che m’arrabbio e la pianto qui, Lei e la sua curiosità.
Ho voglia di andare a casa, di farmi una doccia, di dormire e anche di fare qualcos’altro.
Ma nella classifica di chi è più libero, io sono più avanti di altri.
Altri come Lei, per intenderci.
No, non mi fraintenda: non le sto mancando di rispetto, dannazione!
Le sto solo dicendo che per me, per noi, è diverso.
Abbiamo scelto una libertà fatta di catene, di attese insostenibili, giorni e giorni passati davanti a questa o quella frontiera.
La solitudine delle attraversate nelle pianure nell’Anatolia o più giù, nel deserto saudita, tra preghiere che sembrano bestemmie e mani bianche da quanto sono strette al volante.
Caldo da scoppiare e freddo da farti cadere le dita se non stai attento.
Tutto assieme, tutto in un viaggio.
E non una volta ogni tanto.
Di norma almeno una volta al mese se si può.
E’ un senso di angoscia e libertà mischiate assieme.
Difficile da spiegare, meno da vivere.
Non siamo eroi, lo facciamo per scelta.
A nostro modo ci sentiamo dei duri, quando domiamo il Tahir o sopravviviamo alle autostrade yugoslave e alle mille insidie del “dopo Ankara”.
Però quando torniamo a casa non ci sono folle plaudenti.
Né parate in nostro onore o anche un semplice “grazie”.
Nulla.
Solo un camion ridotto uno schifo dentro e fuori, un mucchio di vestiti da lavare e un nuovo carico in attesa di essere piazzato sul rimorchio, che poi qualche cosa succederà.
I più fortunati di noi passano un paio di giorni a casa, giusto per parlare un po’ con i figli, magari accompagnarli un giorno a scuola, dare un colpo alla moglie a letto alla sera.
Scusi non ho capito?
Cosè un baroudeur?
Giusta domanda.
Si tratta dell’autista del medio oriente, detto anche “Lignard” , un uomo che non è solo conducente di un mezzo pesante, ma anche avventuriero, balordo, meccanico, zingaro, ragioniere, diplomatico, manager di se stesso e molto altro ancora.
Perché ride?
Cosa crede, che tutti ne siano capaci?
Guardi, le lascio le chiavi del mio Scania 111 e vediamo cosa sa fare.
S’accomodi .
Non vorrei però che il suo completino all’ultimo grido si sgualcisse, quindi lasci stare.
Mi sembra una brava persona, ma forse non per fare questo mestiere.
Pensi alla carta ed al suo ufficio, che a guidare lo faccio io!
Io un solitario, un burbero?
Si, è vero.
E non mi faccia perdere il filo del discorso!
Allora, le parlavo di noi camionisti che facciamo il Medio Oriente e sul fatto di essere un duro o meno.
Ho visto dei duri, o aspiranti tali, di quelli che incontravi da ragazzo nei corridoi di scuola e ti spostavi per cedere loro il passo altrimenti una spallata non te la levava nessuno… se li ricorda Lei?! Io si… beh, stia a sentire: quegli stessi duri li ho visti poco dopo Zako piangere con le braccia appoggiate al rimorchio davanti all’ennesima gomma scoppiata!
Capisce?
Qui non si tratta di andare da un capo all’altro, caricare e consegnare.
Dopo la Slovenia tutto cambia, non è più come in Europa.
Usi e costumi, religioni, situazioni politiche precarie: provi lei, con la sua cravatta e la sua giacca firmata ad adattarsi al momento alle tradizioni e alle leggi di dieci nazioni in circa una mezza giornata!
Avrebbe lei la pazienza e la buona dose di palle per mettere le catene più e più volte sul camion (rimorchio incluso) per fare magari un tratto di soli 20 km?
O perché qualche paese decide di chiudere la frontiera di colpo.
Mica ti manda un messaggio e ti chiede gentilmente quando pensi di andartene.
No, basta qui si chiude, e chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori… arrangiatevi voi che sono solo fatti vostri!
Sei dentro il paese?. Bene, ci resti.
Fuori dal varco doganale? Stai in coda come gli altri cento e più che hai davanti a te.
In un piazzale in cui fare i tuoi bisogni, mangiando scatolette e aspettando.
Il resto nisba, freddo caldo pioggia neve vento tempesta…
Li chiamano inconvenienti del mestiere.
Ancora ride? Mi prende in giro, mi scusi?!
Venga, le faccio vedere un paio di cose.
Questi sono tutti i documenti che devo portarmi durante un viaggio verso il Medio Oriente.
Esatto, ho la borsa proprio come lei!
E sapesse quanto m’intralcia.
Provi lei a stare in piedi, magari al freddo, delle ore davanti un maledettissimo sportello doganale, la nazione la scelga Lei, mentre nessuno ti si fila neanche di striscio e stai li a fare la pianta in vaso con la borsa tra le gambe o in mano, che forse è meglio.
Anche perché questa benedetta valigia te la devi tenere stretta tra le zampe, perché ne va davvero della tua vita.
Se disgraziatamente manca qualcosa o la perdi rimani dove sei, né da una parte né dall’altra.
Quindi faccia lei i conti.
Ed è già successo lo sa?
Colleghi fermi anche per settimane perché manca una foto del mezzo o un certificato o quello che vuole…
Foto? Esatto, fa parte del Carnet TIR.
No, TIR non è un tipo di camion, che cosa dice????
Voi gente comune non capirete mai nulla se non quello che sentite in televisione.
TIR vuole dire Transport International Routiers. E’ un accordo, in sostanza, un lascia passare.
Provi Lei se ci riesce ad attraversare una frontiera senza carnet Tir.
Ecco perché vengono esposte sui mezzi le famose targhe blu con la scritta bianca in stampatello.
Cosi come le foto, capisce?
Secondo me no?!
E non faccia quell’espressione, che secondo me vuole solo perdere tempo.
Non sono un eroe, lo faccio perché mi va.
Ho la passione, elemento non richiesto ma indispensabile.
Sono sporco, incazzato e stanco.
Ma vado avanti lo stesso, è una droga, mi creda.
E’ una sensazione inspiegabile quando ingrano le marce ed il motore mi culla e mi porta avanti.
E la pianti di fissarmi come se fossi una creatura aliena!
Si, sono un essere umano, proprio come lei.
Respiro, tossisco, vedo, amo,odio, rido…
Sono saltato su questo cavallo meccanico un po’ per obbligo e un po’ per destino e mi ci sono trovato.
DE PACE DOMENICO ( MIMMO IL TARANTINO ) ALLA SUA MEMORIA
Venga, sediamoci e prendiamo un caffè, che oggi mi sento espansivo e mi va di raccontarle qualche storia.
Racconti della strada.
Di vite da strada.
Che hanno fatto del viaggio, dell’andare, la propria esistenza.
Perché, a conti fatti, è sempre la volta buona che decido di fermarmi.
Invece è sempre la volta buona che decido di ripartire.
FOTO GIANNI ZAMBLERA