grande nudo, 1982
Uccelletto che si gratta, 1982-92
Adulatore, 1987-...
Ammicco, 1988-...
Afflitto, 1990-...
Esitazione, 1990-...
Capriola nascimento, 1995-...
Rieuse, 1995-...
Sûr, 1995-...
Volteggio, 1995-96-...
Sperduto, 1996-...
Curioso, 1997-...
Op là, 1997-...
This is not a fashion shoot
“Io — Noi”: dappertutto rovine... no, prima di tutto una considerazione marginale: d'accordo, sono inattuale, inutile ricordarmelo, che è per suo tramite che prendo la distanza necessaria per non essere imprigionati dal presente (Nietzsche, Considerazioni inattuali), esplorando con perseveranza l'inattuale, al fine di garantire la sopravvivenza culturale delle forme di umanità che la storia ha distrutto e, allo stesso tempo, assicurare la dignità, l'autonomia e il significato della nostra conoscenza.
Vorrei tuttavia ricordare che non abbiamo alcun bisogno di un'identità; anzi, che affermarne la necessità significa degradarsi, perché se la coscienza identitaria non avesse un carattere incantatorio, si saprebbe. Un passo falso, insomma, poiché la parola “identità” può essere riempita di molti contenuti — secondo l'uso che se ne vuol fare —, ma non di tutti i contenuti. Inoltre, sarebbe opportuno non dimenticare che per cercare le radici rimuovi la terra e danneggi l'albero. Io mi vedo piuttosto come un dilettante, altre volte come uno che passa, ma è inutile soffermarsi su questo punto. E per farla finita con l’identità, come non essere d’accordo con Philip Roth quando dice che l’identità inizia dove il pensiero si ferma? Tuttavia, l'inattualità rimanda a quella distanza necessaria che serve per non rimanere intrappolati nel proprio presente, e siccome rimanere intrappolati nel proprio presente non è un’esperienza entusiasmante, d'accordo: sono inattuale, dunque inadeguato.
Inattuale o dilettante o marginale, come ebbe a dire Jole de Sanna non tenendo conto di Yourcenar. Insomma, marginale o uno che passa che sia, vivo in uno stato di crisi permanente. Nonostante, anche se ansiogeno, è un'esperienza divertente, poiché immagini semplici ma efficaci appaiono improvvise e aprono a campi d'azione non limitati dai casi particolari: il fondamento dell'essere piuttosto che il succo d'arancia appena giù dal letto; un pallone preso a calci a fronte della rigenerazione generazionale prodotta dal ricorso ai bisogni fisiologici — la forza dei Greci. Ancora un passo, e facile a farsi — pressoché inevitabile —, e cado nella mitologia: remi in barca dunque, e rivediamo.
Alcuni spettatori parlano del completamento e dell'apertura dell'opera d'arte per far luce su ciò che accade quando l'oggetto viene consumato, perché l'opera d'arte è per un verso un oggetto la cui forma originale, così come l’ha concepita l'autore, può essere ritrovata attraverso la configurazione degli effetti che produce sull'intelligenza e la sensibilità dello spettatore — l'autore crea una forma finita in modo che venga percepita e compresa come voleva? L'alterità nell'arte è data dal confronto tra il corpo dell'opera e quello dell'osservatore, in altre parole l'opera è completata solo quando c'è uno sguardo che la mette in discussione —. D'altra parte, reagendo alla costellazione di stimoli, cercando di percepire e cogliere le loro relazioni, ogni spettatore esercita una sensibilità personale e la propria cultura: gusti, tendenze e pregiudizi che guidano la sua percezione. In sostanza, una forma è esteticamente valida proprio nella misura in cui può essere considerata e compresa da molteplici prospettive; manifesta un'ampia varietà di aspetti e risonanze senza mai cessare di essere se stessa — un cartello stradale può, al contrario, essere considerato solo sotto un aspetto; sottoporlo a un’interpretazione capricciosa significherebbe toglierlo alla sua definizione —. In questo senso, ogni opera, pur essendo chiusa nella sua perfezione, è aperta almeno fino à che può essere interpretata in modi diversi senza che la sua irriducibile singolarità venga alterata. Interpretare un'opera è darne una nuova — è l'essere dell'arte portato al suo parossismo —: Interpretare è scuotere il significato del mondo, ponendo una domanda alla quale, con un'ultima suspense, il primo si astiene dal rispondere. La risposta è data da ognuno di noi, portando la nostra storia, la nostra lingua, la nostra libertà; ma poiché la storia, la lingua e la libertà cambiano all'infinito, la risposta del mondo all'artista è infinita, ché non smettiamo mai di rispondere a ciò che è stato detto senza una risposta; affermato, poi messo in rivalità, poi sostituito: i significati passano, la domanda rimane. “Mais pour que le jeu s'accomplisse, dice Roland Barthes in Avant-propos à Sur Racine, il faut respecter certaines règles: il faut d'une part que l'œuvre soit vraiment une forme, qu'elle désigne vraiment un sens tremblé, et non un sens fermé". In questo senso, quindi, l'arte designerebbe certamente un oggetto incerto.
Pieno di rovine il panorama! Qual è il punto di vista sull'azione di chi comincia a pensare come un individuo piuttosto che stando dietro agli stereotipi e ai pregiudizi che di solito plasmano il suo ambiente? Mettere in discussione l'eterno ritorno dei miti e la tragica grazia dell'estinzione riguarda il sentimento di ansia suscitato dalla realtà e dalla nostra presenza nel mondo, e si apre a una nuova percezione delle cose; a un'energia rigenerativa del significato. Fare lo slalom su questo campo è un gioco divertente che a volte dà buoni risultati — a ogni generazione i propri, e sappiamo che non vi è accesso al mondo facile e neppure riscatto artistico. Un'altra cosa è rimanere aggrappati a pochi stereotipi e pregiudizi, a poche opinioni che funzionano come impiastri applicati sul corpo sociale per guarire le insoddisfazioni generate dalla realtà. Eliminare il legante che assicura la coesione degli impiastri non è difficile, se ci atteniamo all'immagine, relativa e mutevole, del visibile; se ci asteniamo dai falsi movimenti e dalle fughe verso tensioni senza possibili soluzioni come quelle veicolate dalle espressioni standard: “la morte infinita" (Rilke), "essere per la morte" (Heidegger), e altre amenità elaborate con residui di libertà romantica e dogmatismo autoritario.
Pieno di rovine il panorama, dunque; seguendo considerazioni in cui non si tratta certamente di informazioni nuove, né di pezzi "archeologici" eccentrici scoperti mentre si fruga in un cassetto, né di approssimazione al valore; né cattura del linguaggio attuale e gli equivoci che porta con sé — se un meccanismo funziona, non c'è bisogno di cercare come si attiva il movimento —; né ci sono nuovi dettagli da incastonare nella cronologia; il teatro dei burattini, come in Benjamin; e così via per ogni pezzo del puzzle. In breve, vecchie informazioni, congetture poco interessanti. Seguire i consigli di Machiavelli e parlare del clamore della storia o andare in farmacia e comprare tappi per le orecchie? Ovviamente, una vita è fatta di tasselli che vengono posti un dopo l'altro per dare un mosaico con regolazioni ai margini e sbavature, ma mai la conoscenza del disegno e dei dettagli significativi rivelerà la sostanza degli eventi: senza discriminazioni, del passato, del significato del mondo perduto? Alcune contraddizioni, ma solo apparenti, rimuovono il tessuto senza scuotere l'ironia di fondo — come con altri due grandi "ironisti", Beckett e Beethoven. Infine, contro i mostri la vita continua, anche perché avevamo già visto qualche mostro: Balzac ci ha dato Gobseck; alternando gioco e derisione, Bosch ha creato possibili corpi, infra-segni, lacune, impossibilità possibili composte in base alla possibilità di situazioni, segni, segnali — a rischio di farli diventare realtà. Per tornare alle autorità, come possiamo valutare le idee critiche? Ironia della sorte, ora sarebbero solo soggettività, immagini curiose che non contano? Se ti piace viaggiare, è meglio andare dove succede la storia.
Dalla finestra entra: “È arrivato l’arrotino”. Mi distraggo e mi ricordo, ma c’è un nodo: non ricordo dove né a che proposito, Gadda parla di ermeneutica a soluzioni multiple e nello sforzo di rinfrescarmi la memoria, ascolto lo sfrigolio della lingua. Cerco di capire, vi è un’analogia con lo sguardo che trasforma l’apparenza delle cose in rappresentazione? Vedo, è quello che vedo? Se esprimere, significa trasformare, dove l’apparenza si trasforma in espressione?
E poiché questa pagina si muove come un tralcio di vigna, oppure come i fusti della zucca — balsamo dei guai, secondo Plinio — pelosi e pentangolari : spiove, sui rami spogli dell'acacia gocce scintillano, un raggio di sole scivola binari del tram; passeri schiamazzano attorno ai grani gettati da un pensionato — seminatore di sopravvivenza —. Niente di esistenziale in tutto ciò, o forse sì, ma nascosto, irrilevante, perduto in un limbo, sempre alla periferia di qualche cosa: una foglia, l'ala di una farfalla — William Blake, in The Marriage of Heaven and Hell: If the doors of perception were cleansed every thing would appear to man as it is, Infinite. For man has closed himself up, till he sees all things thro' narrow chinks of his cavern.
Non vi è alcun bisogno di una grande immaginazione, né di un senso acuto dell’osservazione; basta vivere, impregnarsi di quel che realmente accade, e avere fiducia nei propri sogni. Certo, pieni di strepito e di furore, che è quel che accade quando non si domina la violenza del mondo perché la tua generazione ha mancato la scommessa su quel che sarebbe diventato il todo liberatore ed è ricaduta nel nada storico, nell’insignificanza; ed eccoci a subire l’aggressione mono e mito maniaca di chi non tiene conto dei fatti — c’è di buono che siamo capaci di compassione.
Ma perché il reale è così mal arrangiato? Vediamo. Mi guardo intorno e vedo un puro disordine generato dall’ordine imposto dalle abitudini e dalle convenzioni: separazioni, sradicamenti, traumi, forme alienate che falliscono; e quale che sia la strategia, alcun ordine alternativo appare: viaggiatori lontani dalla cultura-fondo, aggrappati alla cultura-segno — accumulazioni arcaiche di un capitale che non vale più un soldo; fuga nella tradizione greco-romana perché la greco-ebraica non ha dato i risultati sperati… oppure il contrario, quando non full immersion in culture lontane che hanno dato, a ben guardare, i medesimi risultati… se non peggio, poco importa.
A questo punto, quale aspetto dovrebbe presentare il risultato augurato o sperato? L’occultazione del disordine in varianti aleatorie o in strutture predeterminate? È così difficile accettare che non abbiamo alcun bisogno di una piramide rappresentativa, né della feticizzazione (seppure astratta) per vivere con l’idea che niente sarà mai veramente giocato? Apparentemente sì, eppure tutti viviamo la totalità — eventi individuali e collettivi —, ed è da lì che sorge la trasformazione dell’apparenza delle cose in rappresentazione; inutile tentare di sottrarsi: saranno sempre qui a ricordarlo.
Questi sono i fatti, e già bambini lo avevamo intuito:
"Diabolico, in agguato
— leccandosi i baffi —
Tom
aspettava che la trappola scattasse.
Jerry eluse l’astuzia,
e piovvero guai
a iosa sulla testa di Tom."
A questo punto due possibilità. La prima. Congetture, non Certezze: forse così. Altrimenti l’adesione passiva a forme che non capisco, perché la coerenza dell’insieme è data a priori e non è necessario cercare: meno rifletti più le tue certezze sono preservate. È a scapito della tua affermazione soggettiva? Ti lasci sfuggire gli elementi di una soluzione tua per adattarti a un’autorità collettiva che ti dà da sognare un’unità ideale? Poco importa. Non sperimenti niente, è l’autorità collettiva che sperimenta per tuo tramite, e niente può uscire da questa sperimentazione perché, ormai abbandonate alla sterilità, le forze produttive dell’autorità sono staccate dalle forze produttive soggettive — poiché l’autorità non può permettersi d’accettare il rischio dell’evoluzione imprevedibile. C’è di che vivere dei momenti di angoscia, dunque non fa per me — era comunque opportuno menzionarlo.
Insomma, Congetture, non Certezze.
Lo scompiglio è associato al disordine. Ma che cosa è il disordine? È sentir volare le mosche o non sentir volare una mosca? È strangolare la gente fra due infiniti? È la simmetria o l’asimmetria? Niente è dato per certo: mi viene in mente uno scarabocchio, ed è l’inizio dell’ebbrezza. Da qui la questione del bricolage come la propongono Lévi-Strauss e Cage: ai fini della rappresentazione tutto ciò che è sulla scena può essere utile — un uso abbastanza originale della percezione del mondo. È vero che Wittgenstein lo esprime meglio quando dice del sogno che certe cose sono lì solo perché non sarebbe coerente se non ci fossero; e anche quando parla di un gioco linguistico analogo a un frammento di un altro — uno spazio proiettato in segmenti limitati di un altro spazio; ma rimaniamo alla proposta di Lévi-Strauss (senza i meccanismi azzoppati dello strutturalismo).
Quel che penso dell'arte non ha senso né valore. È vero che senso e valore sono parole che portano contenuti discutibili, soprattutto in un'epoca che preferisce il contenente quando non il mezzo di trasporto… la bella macchina, insomma… E da qui, dove vado? Qual è la norma? Nessuna importanza: verrà trasgredita. Se la norma verrà trasgredita, restano le istanze: ma dove sono le istanze? Niente all’orizzonte. Non resta dunque che aggregare segni cambiandone lo spirito: un processo di trasformazione come avviene nella crisalide (e non parlo di metanoia in senso junghiano). Insomma, il senso della forma com’era in principio, ossia, pochi segni ben organizzati che rimandano irrealmente a quel che realmente accade quando si è nel mondo — la limitatezza e la molteplicità dello spirito (“Ti guardo correre”). Fuori da qui, i miseri canovacci ideologici prodotti da epoche inchiodate a sistemi storici arbitrari, continuamente rimessi sul tavolo in maniera drammatica per salvare frammenti di vita sintetica che non hanno più nemmeno il valore della zufolata di un fringuello.
Che cos’è la cosa di cui si parla? Che cos’è, o piuttosto che cosa non è? Chimere. L’arte è una chimera: figure sitibonde di senso fra le rovine della storia che come rettili, di tanto in tanto escono dal loro buco e delle volte taroccano il paesaggio, ed ecco apparire i disinganni estetici, i guazzabugli formali, le varianti comiche. Sono naturalmente io che ho visto e analizzato male la situazione: ho sbagliato, sbaglio sempre, ma qual è la natura dell'errore? È ancora possibile nascondersi dietro il mitico “Chiamatemi Ismaele” per giustificare un disastro? Insomma, ciascuno ha la sua Balena Fantasma? Sì, una Balena Fantasma che si prende gioco di te e dei tuoi calcoli: lancia uno sguardo che ti dice che hai sbagliato, però non ti dice dove. A questo punto puoi andare avanti come in una catena, un anello dopo l'altro, ma è una noia; allora avanzi a salti, seguendo immagini che prendono il colore della giornata, che domani saranno diverse o non saranno affatto.
Mi ricordo. L'Occidente svanisce nella superficie strepitosa del Pacifico; la tua Balena Fantasma crea un oceano sul foglio sul quale hai appuntato l'ultimo ricordo che hai del suo sguardo. Una vista panoramica mozzafiato delle possibilità che ti sono date di agire ti si spalanca davanti agli occhi e tu non sei rapido come de Kooning, non vali neppure il pugile duchampiano; anzi, sei patologicamente lento, allora fermi il gioco e nell'impossibilità di ricordare altro che l’immagine fugace di te che guardi una figura nello specchio, aspetti il prossimo sguardo della tua Balena Fantasma. Accade addirittura che un’immagine tu riesca a portarla in porto: il tempo di un istante ho visto così.
L’esercizio non è particolarmente esuberante, lo ammetto, vi è evidentemente molto Ariosto: il funzionamento inutile di noi nascosti dietro le nostre illusioni; la prevalenza della fortuna e del caso sulla nostra capacità di controllare il destino, perché la follia, la vanità, le illusioni abitano la Terra e la ragione è sulla Luna…
Non ho più voglia di perdermi in questo gioco. Il temporale non ha mantenuto le sue promesse: se n’è andato lasciandomi in dono una brutta emicrania, e questo m’impedisce l’azione. Mi limiterò a dire che certe cose — e questa è una di quelle — finiscono sulla carta non solo perché la gente non dialoga più come dovrebbe; ma anche perché non si legge più a alta voce e comunque la si volti, la lingua è cosa orale, si scrive per pigrizia, e così tante stupidaggini passano e arrivano in pubblico senza che nessuno se ne inquieti.
Nel ruolo di Kane, Welles muore in un maniero non finito, e questo apre a nuovi percorsi verso e contro quel che realmente accade : è la presentazione del problema che interessa, non le soluzioni. È vero, avrei potuto cominciare da rosebud (Citizen Kane), piuttosto che dal titolo di una foto di Boccioni, ma ormai è andata così — e “questa frase a chi l’ho rubata?”.
Torino — Visp — Torino — Brig
gennaio 2014 — febbraio 2018