Tra fuoco e acqua

Il racconto austro ungarico della battaglia del Basso Piave 15 giugno - 6 luglio 1918

Per cent’anni ci siamo raccontati come ci difendemmo, senza sapere come ci attaccarono. I documenti e le testimonianze ritrovate narrano uomini e storie sorprendenti; mesi di preparazione nelle retrovie, traditori che passarono il fiume per rivelare l’attacco, generali che manovrarono con audacia e altri che chiesero di non entrare in combattimento; soldati che lottarono con tenacia, immersi in quelle paludi lagunari dove scompariranno. La battaglia del giugno nel basso Piave fu progettata e combattuta come una guerra nuova, moderna; tecnica, strategia e tattica impiegate saranno più affini al secondo conflitto mondiale che non al primo. Il Piave sarà per tutti un fronte completamente nuovo. La stessa natura anfibia del territorio

identificherà lo scontro. Robert Vaucher, inviato de “L’Illustration” scriverà di questo campo di battaglia, dove le trincee d’Europa si stemperavano nell’acqua: “La guerra in questa regione che forma l’estrema destra delle linee alleate, ha un carattere tutto particolare. Occorre, per avanzare, vincere l’acqua ed il fuoco.”

Presentazione: L’altra faccia di Giano di Marino Perissinotto

Il Piave.

Accanto a quel fiume ci sono nato; sulle sue rive ho giocato da bimbo e pagaiato da grande.

Sui campi che gli stanno d’attorno ho camminato d’autunno, cercando fra i solchi appena arati i piccoli resti, allora ancora numerosi, del grande scontro. Schegge di proietti, sfere di shrapnel, bossoli e cartucce di fucile, lamiere indecifrabili, che riemergevano ad ogni rigirar di terra delle arature.

Da bambino sapevo come aprire le munizioni, lasciare per terra una striscia di cordite, ed accenderla per godermi il fuoco brillante ed il fumo bianco che ne uscivano. Giocavo col passato, ed era naturale, per me nato lungo il Piave.

Mi sentivo (e mi sento) parte di una cosa grande ascoltando le note di E. A Mario, e niente di strano al vedere nell’ora del tramonto qualche sagoma incerta di soldato fra i boschetti delle golene. Scherzi di emozioni, naturali dalle mie parti.

Era l’ora del tramonto, e passavo la striscia d’asfalto tra Malga Mure e Malga Archeson, sul Grappa. Zona di pascoli, di prati, di qualche albero stento. Verde uguale di pascoli spezzato da muri a secco. La strada corre bassa, sovrastata dalle irregolarità del terreno.

Uscii dall’ombra, e la luce di taglio rivelò sotto l’uniforme manto d’erba quello che era stato: crateri di granate, linee sinuose di camminamenti, qualche foro oscuro di ricoveri. La Grande Guerra, per forza di luce, ritornava ad essere dopo quasi un secolo coi suoi segni potenti.

Roccia e terra raccontavano con voce forte delle battaglie grandi nei segni rimasti, smussati ma non cancellati da natura o uomini.

Percorsi la dorsale orientale del Massiccio, sulla vecchia mulattiera militare.

Monte Pallon, Monte Pertica, Monte Tomba, Monfenera. E sempre a riaffiorarmi a fianco la storia, le trincee, i fantasmi di chi vi visse e morì.

Giunsi alla pianura, e la voce di memoria ammutolì.

Stavo scendendo la Piave, stavo scendendo la fronte dell’ultimo anno di guerra nella pianura, e vedevo solo colture, vigneti, capannoni, qualche paese.

La battaglia grande per il fiume qui era stata cancellata in fretta.

Avevo una mia terra delle emozioni, ma non potevo dare loro il supporto dei fatti e delle testimonianze.

Cercai di ricostruirli, questi fatti. L’attenzione era posta non all’intero conflitto, od anche al solo ultimo anno di guerra; volevo capire bene cosa era successo nel mio Basso Piave. Trovai descrizioni a volte frettolose, oppure dedicate a singoli luoghi, eventi, uomini. Quasi sempre, viste dalla parte italiana. Quasi sempre con la retorica degli anni remoti in cui si scrissero.

Mi rimase irrisolto il desiderio di capire e conoscere a fondo, nei luoghi e nei fatti, quel momento drammatico della mia terra.

Ancora un salto indietro, all’adolescenza.

C’erano, allora, e molto diffusi, i fumetti di guerra. Collana Eroica, Supereroica, Guerra d’Eroi, Attack, erano fra i titoli in edicola. A realizzarli era soprattutto un editore inglese, Fleetway, e, con infinite varianti, britannici erano gli eroi protagonisti, mentre il nemico era sempre il cattivo tedesco, presentato come massa anonima condannata a pronunciare qualche Donnerwetter! ed a morire sotto il tiro infallibile del buono.

Nelle ricostruzioni storiche della Grande Guerra sul Basso Piave, trovai la stessa situazione. I protagonisti italiani erano ben descritti, dal Duca d’Aosta al generale Ceccherini con la sua pipa Gorgogliosa, e fino ai decorati al valore. Degli austro ungarici, emergevano nomi di reparti militari e di comandanti di grandi unità, senza che si desse loro volto e storia.

Nelle pagine che seguono, e nel lavoro di Bruno, ho trovato risposta alle mie domande. La battaglia del Solstizio, lo scontro che pose la parola fine alla millenaria storia dell’Impero d’Asburgo, è raccontata per come avvenne nel Basso Piave.

Raccontata con una minuziosa ricerca di fonti primarie, e narrata nella sua evoluzione dalla genesi tra le mappe ed i tavoli dei quartieri generali, alla preparazione fra cantieri e laboratori militari, al suo accadere con i tanti eventi, voluti dagli uomini o decisi dal caso, che la segnarono.

Ogni capitolo e paragrafo risponde in modo chiaro ai cinque quesiti del buon giornalismo: chi, come, dove, quando, perché, portati nella ricerca storica.

Non anticipo al lettore la scoperta di queste informazioni, la sensazione di essere come accanto agli uomini che ne furono protagonisti, la visione del tutto nuova degli stessi luoghi d’attorno, che ho provato sin dalla prima lettura di questo lavoro.

Un uomo, un soldato, è quello che alla fine si innalza sugli eventi: il comandante del XXIII Corpo d’Armata austro ungarico, generale Maximilian Csicserics von Bacsány. In quattro mesi riuscì a concepire e predisporre una operazione d’assalto fluviale combattendo con la resilienza dei superiori, la scarsità dei mezzi, le cattive condizioni fisiche dei soldati stremati dalla malnutrizione.

Quello che accadde sul Piave, davanti a Musile, nella nebbia e nel fumo e nei vapori dei gas tossici, alle 7.30 del 15 giugno 1918, fu un capolavoro d’arte militare bene eseguita. Come poi proseguì l’offensiva nulla può togliere a questo.

I fatti dicono che l’Austria Ungheria perse la guerra già nel 1914, quando le battaglie sul fronte orientale devastarono e resero sterili quelle pianure da cui l’Impero traeva le sue risorse alimentari.

I suoi vertici militari e politici combatterono con la coscienza sempre più chiara che la sconfitta militare avrebbe portato alla scomparsa dell’Impero, tanto quale entità politica e geografica, quanto come principio di uno stato super nationes.

Mentre i segni della disgregazione, all’epoca della Battaglia del Solstizio, erano oramai certi e grandi, i soldati al fonte combatterono fino all’ultimo minuto, con coraggio e caparbietà.

Mi pare che quegli uomini, cercando di non essere succubi della storia, abbiano provato specialmente nell’ultima offensiva del giugno 1918 a cambiare il corso degli eventi, in una sorta di ultima carica che offrisse loro dignità ed onore nel finire.

La minuziosa ricostruzione che qui è offerta dell’ultimo assalto imperiale riesce quindi a dare volto a quello che nella storiografia italiana è semplicemente, e troppo spesso, il nemico. Il volto ben delineato dei principali attori, e quello più lontano degli altri protagonisti.

La trama è nota, e il racconto inizia in modo ovattato, negli uffici degli alti comandi. Poi, la scena si amplia, ed al lettore si offre il caleidoscopio di preparativi, di espedienti, di tenacia messi in campo per preparare la battaglia dai soldati dell’Impero.

Una introduzione necessariamente precisa all’erompere dell’azione, e nelle storie di reparti ed uomini si è condotti a quei giorni, a luoghi molto diversi da quelli che sono adesso, alla frenesia, ai dubbi, alle crudeltà del combattimento.

Gli eventi si susseguono, come i colpi di scena di un enorme thriller, e si sviluppa il dramma di diecine di migliaia di uomini. Anche l’ultima scena ha un che di filmico. Soldati italiani che passato l’ultimo terreno conteso, superano le trincee ingombre di morti e di tutte le scorie e le ferite della guerra, e si affacciano alla purità del fiume.

L’opera si chiude con una assieme di dati e testimonianze che incorniciano quanto è accaduto.

Sino ad ora, la narrazione austro ungarica della Battaglia del Solstizio era affidata quasi esclusivamente alla relazione ufficiale Österreich-Ungarns Letzter Krieg, 1914-1918, compilata negli anni trenta del secolo scorso, e spesso sin troppo succinta nei fatti.

Degli eventi si è avuta una visione molto “italiana”, spesso intinta nella retorica degli anni in cui la gran parte del narrare fu stesa. Ecco adesso offrirsi l’altro racconto, quello austro ungarico, con abbondanza di dati e scarna retorica.

Di quei giorni hanno scritto in molti, nel passato.

Forse il modo più onesto e crudo per ricordare gli uomini che combatterono le battaglie ricostruite in queste pagine l’ha trovato Ernest Hemingway, che di quegli eventi fu parte, nel suo racconto A Natural History of the Dead, del 1933.

“ ed in primo luogo il periodo successivo all’offensiva austriaca in Italia del giugno 1918, come uno in cui fu presente il maggior numero di morti, essendoci stata una ritirata e quindi un’avanzata per recuperare il terreno perduto, tanto che dopo la battaglia le posizione erano le stesse, eccetto che per la presenza dei morti.”

La battaglia del Solstizio alla fine ha uno, anzi due volti, quelli degli avversari contrapposti.

I due volti di Giano, il dio dell’inizio, il dio della fine.