La Piave di Hemingway

Hemingway's Piave Versione Inglese

di Bruno Marcuzzo

Tratto da: La grande guerra tra terra ed acqua. Storie e memorie nelle terre basse tra Livenza, Piave e Sile fino al mare. ISBN 978-88-89614-07-6

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Ogni uno ha almeno un posto che rappresenta un mutamento della vita.

La Piave, fu per Ernest Hemingway più di quanto lui abbia potuto dire[1] e noi si possa ora immaginare. Ernest vi arriva ragazzo.[2] Pensa alla guerra come ad una partita di football, dove i nemici sono la squadra fuori casa.[3] Indossa la divisa che si era fatta fare su misura e su cui sono appuntati i gradi da Sotto Tenente. Tutti i ragazzi dell’American Red Cross, erano come minimo Sotto Tenenti e nonostante l’età, per la truppa erano comunque ufficiali. Gli ufficiali restavano tra di loro, nella mensa o nei comandi. Erano uomini studiati, qualcuno parlava l’inglese. Erano sicuramente più maturi di Ernest. Anche i fanti, cui anni di combattimenti e miserie hanno scorticata l’anima, sembrano più vecchi. Con loro condivide il vino e le donne e tutte quelle esperienze che a casa sarebbero state inammissibili. L’ARC gli aveva affidato la conduzione di un posto di ristoro mettendogli a disposizione uomini, materiali e anche una bicicletta, con cui poteva muoversi senza render conto a nessuno. Un ragazzo proiettato in un mondo di grandi, tenuto in considerazione in quanto ufficiale e per di più americano. Cosa può chiedere di più, uno che si trova in quella porzione di vita in cui l’improvvisa libertà spalanca le porte di un mondo i cui limiti sembrano sparire? La serenità dell’incoscienza, l’autostima alle stelle, il mito dell’epica della lotta, resteranno in breve sepolti in una trincea sulla riva del fiume.

Non era la prima volta che Ernest andava a guardare le trincee austroungariche, nonostante la prima linea fosse vietata ai volontari dell’ARC. Quel posto, dove il fiume punta “a elle” verso Fossalta,[4] è famoso; poco prima dell’ultima battaglia il tenente ceco Stiny, era passato con gli italiani portando importanti notizie sull’attacco. Ora lì ci sono gli amici della Brigata Ancona; non faranno problemi. Lascia la bici appoggiata alle ultime case ai piedi dell’argine e sale la breve erta. Fa molto caldo e gli uomini dormono nelle buche scavate sul rovescio dell’argine. Di giorno possono dormire. Il buio invece rende più difficili le cose. Non basterebbero tutti gli occhi del mondo per vedere cosa combinano sull’altra riva. Al buio si vede solo la paura.

Sulla curva dietro l’argine c’è una grande ridotta coperta di terra, dove entra e si ferma a parlare con i soldati. É notte quando lascia il comando scavato ai piedi dell’argine. Raggiunta la trincea sulla sommità dell’argine, scende verso l’orlo del fiume, dentro il camminamento che passa davanti ad una casa, cui le cannonate hanno buttato via il tetto. L’odore dell’afa è sostituito dal tanfo della prima linea. Poco più in giù, il riflesso di un bengala muore sull’acqua ferma del fiume.

Nella postazione, una mitragliatrice con dei mitraglieri. Pochi uomini bastano a controllare le linee nemiche; non avrebbe senso sacrificare più uomini su posizioni così avanzate. E’ un buon posto perché da lì, si possono vedere i due bracci del fiume. Le trincee sono così vicine che ogni una, percepisce la vita dell’altra. Due parole, una sigaretta; troppo rumore. Gli austroungarici sull’altra sponda, sospettando un’azione, vogliono ricambiare la sorpresa agli italiani e fanno arrivare sul posto una bombarda.[5]

“Attraverso gli altri rumori udii un colpo di tosse, poi venne lo sciu-sciu-sciu, poi ci fu un lampo”. E’ un centro perfetto.

L’esplosione, bianca, divenne rossa e poi viola e lo spostamento d’aria lo portò con sé, mentre gli toglieva l’aria dai polmoni. Non ebbe il tempo di pensare, si sentì solo morire. Finì, semi sepolto da sacchetti di sabbia travi e altri detriti che continuarono a piovere anche in acqua; prima i più grossi, vicino alla sponda italiana e poi via via più piccoli fin sulla riva opposta. Nel buio, si rese conto che vicino a lui uno dei soldati restava scomposto, morto, un altro si lamentava. Lo shock dell’esplosione lo aveva anestetizzato,[6] non sentiva le molte schegge che si erano infilate nelle gambe. Nelle orecchie solo un ronzio di lamiere battute. Deve aver avuto il cuore che gli scoppiava nel petto mentre l’adrenalina gli scaldava le vene.

Non avrebbe dovuto richiamare l’attenzione del nemico e soprattutto non doveva essere lì. Sarebbe potuto restare fermo, fingersi morto, aspettare che qualcuno arrivasse e invece, automaticamente, fece quello che gli avevano insegnato: raccogliere i feriti. All’epoca, l’altezza media dei soldati italiani era di un metro e sessanta, mentre lui sfiorava il metro e novanta. Caricò il soldatino sulle larghe spalle e cercò la trincea sotto l’argine. Gli austroungarici, contenti per il centro, lanciarono un razzo illuminante per vedere cosa stava succedendo. Il petardo scoppiò in alto, illuminando la trincea e i ruderi della casa sulla riva del fiume. Come in un flash giallo l’immagine rimase negli occhi di Ernest, diventando la sintesi delle percezioni del momento. L’immagine di quella casa sulla riva del fiume, resterà nei suoi incubi, la rappresentazione dell’angoscia. Di là dal fiume, cominciarono a inseguirlo con il fuoco di una mitragliatrice e lo presero una prima volta alla coscia sinistra e al piede destro. Rialzatosi, percorse una cinquantina di metri cercando di arrivare all’argine. Camminava malamente, sentiva i piedi dentro gli stivali come fossero immersi nell’acqua calda e c’era il risucchio. Il ferito sopra di lui sanguinava e il sangue denso gli colava giù per il collo. Fu investito da una seconda raffica che lo colpì al ginocchio destro e lo fece ruzzolare col ferito dentro la trincea sull’argine, dove svenne. In un primo momento fu dato per spacciato. Gli ufficiali erano preoccupati, non solo per lui, ma anche per il casino che si sarebbe scatenato. Avrebbero dovuto rispondere per molte cose. Intanto gli italiani messi in allerta dallo scoppio, pensando a un attacco, avevano cominciato a tirare con l’artiglieria oltre il fiume e dall’altra parte la risposta non si fece attendere. La notte dell’8 luglio 1918, avrebbe potuto essere tranquilla.

L’esperienza distrugge il mito della guerra giusta, combattuta con la forza e la purezza degli ideali. Si rende conto che tanti italiani non volevano la guerra. Coglie i segni della sfiducia nei confronti di governi e comandi distanti dal popolo, che vogliono la vittoria anche a fronte indicibili sacrifici dei soldati, mentre li insulta con la propaganda. Scriverà ai genitori: “Dev’esser stato per la perdita dell’immortalità ... be’, in un certo senso è una grossa perdita.”[7]

L’immortalità cui si riferisce è anche quella degli ideali giovanili, miti di giustizia e verità, non uccisi dall’esplosione, quanto, dal tradimento perpetuato dai grandi interessi, che prevaricano la volontà della gente, approfittandosene. Non ha avuto paura di morire, cosa che ritenne da allora semplice, ma di morire per pagare il conto di qualcun altro senza volerlo. Su quella riva muore il giovane illuso e da lì se ne va un uomo che non riesce più a credere che ci sia qualcosa per cui valga la pena di lottare.

É il disimpegno della “Generazione perduta”, il periodo vissuto a Parigi caratterizzato da un individualismo rassegnato che però svanirà a mano a mano che in Spagna si accumula la tensione che porterà alla guerra civile. Ernest ritorna all’ideologia pura, sceglie di schierarsi con la volontà dell’autodeterminazione, un valore assoluto che non può disattendere. Difende l’idea della Repubblica perché è l’unica forma di governo democratico che ritiene possibile. La guerra di Spagna gli insegnerà che nessuna lotta per quanto giusta rimane senza macchie; le guerre non si possono combattere senza sporcarsi; qualcuno, da un lato o dall’altro, si sentirà autorizzato a giustificare violenze e a prendere in giro la verità con la propaganda, perpetuando il tradimento alla verità, alla giustizia, rubando al sacrificio la dignità della purezza. Per gli anni che verranno lui e la sua penna combatteranno restando sempre con gli occhi aperti, fissi sui veri desideri della gente, denunciando le manovre dei sistemi d’interessi; saranno irriducibili nella lotta che ritengono l’unico indice della dignità di un uomo che anche nella certezza di perdere, non può tradirsi.

Tornò in Italia ancora una volta per stendere il libro “di là dal fiume”, dove il vecchio soldato vomita ricordi confusi. Nei silenzi del mattino, di fronte a paesaggi lagunari di una bellezza struggente, ritrova l’amore per questa terra che ora può conoscere in pace. Tornò sulla riva di quel fiume un’ultima volta, non come fanno i reduci che cercano la gioventù perduta, ma per chiudere i conti con la paura di essersi sacrificato senza aver capito e scelto. Sulla riva del fiume ogni traccia delle trincee era scomparsa e l’aria accarezzava l’erba sulla schiena dell’argine. Ernest rivide la casa in riva al fiume, testimone di tutti gli eventi che ancora resisteva pur diroccata e tuttora esiste ricostruita. Di fronte a quella casa, cercò il cratere dell’esplosione, quindi, mollò le brache di velluto a coste color nocciola[8] e con la delicatezza di un vecchio fante[9], si accinse a un’evacuazione cerimoniale. Non essendovi riuscito, scavò una buchetta nella terra e vi seppellì una banconota da mille lire, l’importo corrispondente al valore della pensione che aveva preso e richiusa la buca, pestò la terra, come si usa quando si è seminato. La semina era cominciata nel 1918, con la sepoltura delle illusioni giovanili, un sacrificio fatto da incosciente, l’offerta volontaria ad un ideale tradito. Se non fosse tornato a giustificare l’atto sarebbe rimasto un sacrificio inutile. L’uomo maturo, che aveva dato forma ai suoi ideali, non poteva lasciare quel sacrificio senza giustificarlo e torna per legare i suoi percorsi. Nella buca mette dei soldi. Non voleva che il suo sacrificio fosse pagato. Non lo aveva mai fatto per soldi. Li lascia volentieri a questa terra che ha bisogno ancora di sostentamento.

“Ora va bene, pensò[10].” Merda, denaro e sangue; guarda come cresce l’erba ... C’è dentro di tutto. Dove c’è fertilità, denaro, sangue e ferro, c’è una patria. Era appena finita la seconda Guerra Mondiale e c’erano grandi aspettative per il futuro. Con quella cerimonia, recupera il giovane incosciente, lo riconosce quale seminatore giustificando il suo sacrificio come parte della lotta per la nascita di una nuova nazione e gli ridà la dignità del sangue versato dai puri.

Prima di andarsene concluse la sua visita al vecchio fronte con un altro rito. Stava dritto, tra le canne della riva. Alzò gli occhi e guardò di là del fiume, dove un tempo erano le linee nemiche e sputò. “Fu un lungo sputo e lo fece con intenzione. Non ho potuto sputare quella notte e neanche dopo, per un pezzo. Ma ora sputo bene.”[11] Anche l’incapacità di sputare ha la sua giustificazione. Da ragazzo aveva scoperto che, se si è spaventati, la bocca si secca e non si riesce a sputare. Durante la guerra di Spagna, tra i suoi compagni scrittori combattenti, era in uso la prova dello sputo. “All’epoca non ce ne fu uno che non riuscisse a scherzare nell’imminente presenza della morte e a sputare subito dopo, per dimostrare che aveva scherzato per davvero.”[12] Non scherzavano per spacconeria. Secondo Hemingway gli uomini veramente coraggiosi sono di solito molto allegri. Il fatto che ora riesca a sputare bene, li, dove la paura lo aveva stregato, è la dimostrazione che finalmente aveva elaborato l’idea di come, per una giusta causa, si possa morire senza rimpianti e soprattutto che quel suo vecchio sacrificio che non aveva “voluto” ora si dimostrava parte di quelli con cui aveva contribuito alla libertà e alle sue conseguenze politiche.

A Fossalta, sulla riva di quel fiume dove era morto il giovane incosciente, era tornato un altro uomo e il fiume vide come non avesse mai smesso di combattere con la sua incapacità di giustificare le umane paure. Questo ritorno conclude un altro ciclo. Quello che sputa ora non è il giovane Ernest, ma nemmeno l’Hemingway maturo combattente; dalla Piave se ne va un altro uomo, è un vecchio che non scriverà più di soldati e guerre perché “ha fatto una pace separata”, una pace dove il destino accoglie coraggio e paure, senza fare differenze. Scriverà allora di un vecchio che pesca in un mare che conosce, un mare capace di contenere il bene (il pesce) e il male (gli squali), sfidando sé stesso e il destino. Il mare è il Dio paziente che non fa domande e lascia che chi vuole se la giochi secondo natura.

Proprio nella consapevolezza e nella volontà di essere parte del gioco, sta la pace del vecchio, che ora è coerente con il suo ruolo

[1] ) “Quella zona aveva molta importanza per lui, più di quanto egli potesse o volesse dire a chiunque.” HE. Di là del fiume tra gli alberi.

[2] ) Il 21 luglio del 1918 compirà 19 anni.

[3] ) HE. Lettere

[4] ) HE. Di là del fiume tra gli alberi

[5] ) Questo tipo di armi, definite organicamente artiglieria da trincea, furono i precursori dei moderni mortai. Il colpo di partenza era generalmente più sordo che non quello delle comuni artiglierie, tanto da poter essere ricondotto ad un colpo di tosse. Ernest descrisse la bomba come un fusto da 5 galloni (20 lt) per cui possiamo pensare fosse una bomba Böler corta del calibro di 225 mm. Le bombe lanciate non procedevano, stabilizzate in volo come i proietti d’artiglieria, sicché, secondo la rivoluzione del corpo, il diverso attrito dell’aria, produceva suoni diversi.

[6] ) L’energia di un’esplosione si esprime in vibrazioni di frequenze diverse. Così come il forte suono può rendere sordi, le vibrazioni sono capaci di annichilire le terminazioni nervose

[7] ) HE. Lettere

[8] ) Giampiero Malaspina scrive sul «Piccolo» di Trieste nel novembre 1976.

[9] ) Chi stà in prima linea non esce dalla trincea per fare i bisogni con il rischio di essere colpito, la fa sul posto e poi con la pala la butta fuori. La delicatezza dei compagni stava nel non farci caso.

[10] ) HE. Di la dal fiume tra gli alberi

[11] ) HE. Di la dal fiume tra gli alberi

[12] ) HE. Prefazione per “The Great Crusade” di Gustav Regler 1940