ARACNE
28 maggio 2024
Francesca Chilò, 4AL
Non furono le mie origini a farmi grande. Fu la mia empietà. Nacqui a Ipepe, in Lidia, da una famiglia umile. L’unica cosa che io abbia mai saputo riguardo a mia madre è che morì quando ancora ero piccola. Mi crebbe mio padre, che di mestiere tingeva con la porpora la lana. Dalla più tenera età, la tessitura fece parte della mia vita. Imparai ben presto ad utilizzare l’unico telaio che avevo in casa, e durante tutta l’infanzia e l’adolescenza preferii tessere che relazionarmi con i miei coetanei. Passavo tutto il mio tempo a filare la lana, ruotare il fuso e ricamare instancabilmente. Quando lavoravo al telaio mi sentivo come investita di una missione importante, che mi portava oltre ai confini della mia persona, della mia casa, vicino al monte Olimpo, quasi all’altezza degli dei. Quasi, ho detto. Sapevo bene che nessuno poteva eguagliare gli dei, o almeno cercavo di convincermene. Ero consapevole dell’inclinazione delle divinità a punire severamente chiunque non prendesse seriamente il loro ruolo, ma una parte di me, quella che ci teneva a fare qualcosa di grande, sperava che non fosse un peccato poi così imperdonabile essere fieri del proprio talento.
Prima di mettersi male, le cose mi andarono in realtà fin troppo bene. Avevo mostrato i miei tessuti solo a mio padre, il quale era sempre stato troppo impegnato col suo lavoro per prestare attenzione a un mio semplice passatempo, e ad alcune donne di Ipepe che si erano complimentate con me.
Era un caldo giorno d’estate e mi ero messa a ricamare fuori casa, per approfittare il più possibile dei raggi del sole. Avevo appena terminato un arazzo quando, alzando gli occhi soddisfatta dal tessuto dopo aver estratto l’ago, vidi tre ragazze che mi fissavano. Non somigliavano né a me, né a nessun’altra ragazza della Lidia, anche se non avrei saputo dire cosa avessero di diverso. C’era qualcosa, nel modo in cui percepivo la loro presenza, a suggerirmi che non mi trovavo davanti a delle mortali.
“Salve” disse una di loro, la più alta, che si trovava al centro. La voce melodiosa con cui parlò fu la conferma dei miei sospetti. “Sei per caso Aracne di Ipepe?”
La guardai confusa. “Sì, sono io” risposi.
Le tre ragazze si guardarono, con un lampo di gioia negli occhi.
“L’abbiamo trovata!” esclamò quella a destra, battendo le mani.
“E quella che ha in mano dev’essere una delle sue famose tele!” fece quella a sinistra, indicando il mio arazzo.
“Perdonatemi” le interruppi. “Voi chi siete?”
“Giusto, che maleducate” intervenne quella al centro. “Non ci siamo presentate. Noi siamo le Ninfe del Pactolo.”
“Oh” feci, prima di alzarmi in piedi ed esibirmi in un sobrio inchino. “Benvenute.”
“Ti ringraziamo, Aracne di Ipepe” disse quella al centro. “Il tuo nome è giunto fino alle nostre orecchie, e siamo volute venire a conoscere di persona la donna che è in grado di tessere meravigliosamente come raccontano.”
Aggrottai la fronte. “Raccontano qualcosa… su di me?”
“Raccontano un sacco di cose su di te!” saltò su quella a destra. “La tua arte è famosa in tutta la Lidia… ma che dico! In tutta la Grecia!”
A quel punto dovetti abbozzare un sorriso compiaciuto. “Davvero?”
“Sì, Aracne. Allora, cosa aspetti a farci vedere una delle tue opere d’arte? Magari questa qui, che hai appena finito.” Indicò l’arazzo che, presa alla sprovvista dall’arrivo delle Ninfe, avevo lasciato steso sull’erba. Sentire qualcuno definire le mie tele ‘opere d’arte’ mi faceva uno strano effetto, ma mi piaceva. Mi piaceva veramente tanto.
“Certamente” risposi, sollevando l’arazzo per mostrarlo alle visitatrici.
Le Ninfe del Pactolo tornarono più e più volte, le invitai addirittura a casa mia, per mostrare loro tutte le mie opere precedenti. Che bella quella parola, opere. Io ero in grado di creare delle opere, che piacevano addirittura alle Ninfe!
Mio padre all’inizio non si pose molte domande sulla loro presenza così frequente in casa nostra, anche perché passava così tanto tempo al lavoro da non rendersi nemmeno effettivamente conto di quanto spesso venissero a trovarci. Presto, però, alle visite delle Ninfe del Pactolo si aggiunsero quelle di molti uomini e donne di Ipepe, e poi delle Ninfe del Timolo. Dopo qualche mese, i visitatori provenivano da tutta la Lidia. Tutti arrivavano per ammirare gli arazzi, e a molti di loro piaceva addirittura guardarmi mentre li realizzavo. Mentre lavoravo li sentivo lodare il mio talento, e la loro presenza non mi metteva per nulla in soggezione. Perché avrebbe dovuto? Io ero brava, io non commettevo errori, io ero più abile addirittura di Pallade Atena. Quest’ultimo è un pensiero che partorii una sera, da sola, e che mi guardai bene dall’esprimere ad alta voce - almeno all'inizio - davanti ai miei ammiratori. I più abbienti di loro mi offrivano ingenti somme di denaro per acquistare le tele e i più sfrontati chiedevano a mio padre la mia mano. Se io rifiutavo il primo tipo di proposta, mio padre rifiutava il secondo, sostenendo che, nonostante fossi in età da marito, io non fossi ancora pronta per sposarmi. Paradossalmente, il non concedere agli altri nulla di me - che si parlasse di arazzi o di matrimonio - rendeva la mia arte ancora più attraente ai loro occhi. Era qualcosa che non potevano catturare, di cui non si coglievano che pochi attimi.
Come era prevedibile, però, dopo i primi tempi quella situazione smise di essere sostenibile anche per l’indole pacifica di mio padre.
“Aracne” mi chiamò una sera, mentre tessevo - da sola, come raramente capitava in quel periodo.
“Dimmi padre.”
“Ho bisogno che tu mi spieghi per quale motivo ricevi tutti questi ospiti.”
“Che devo dirti, padre? Non li invito io, sono loro che vengono a vedere me” dissi, forse più altezzosamente di quanto non mi sembrasse all’epoca.
“Ormai non riesco più a lavorare, non riesco più nemmeno a vivere a casa mia” replicò lui. “Se vuoi farti vedere mentre tessi, vai nella piazza cittadina. Altrimenti sarò costretto a metterti fuori casa accettando la proposta del prossimo uomo che verrà a chiedere la tua mano. Siamo intesi?”
Forse ero più brava anche di Pallade Atena, ma a mio padre avrei sempre dovuto obbedire. Le prime volte che mi recavo in piazza col telaio venivo accolta da una folla estasiata, e ogni giorno la massa di persone che si fermava a guardarmi tessere s’ingrandiva un po’ di più.
Mentre tessevo, la mia testa ripeteva quella frase facendomela udire all’infinito, come se mille voci la stessero pronunciando all’unisono. Sei più brava di Pallade Atena.
Quasi senza che me ne accorgessi, passarono gli anni. La mia fama si era diffusa per tutta la Grecia e, anche se io ancora non lo sapevo, aveva raggiunto anche la vetta dell’Olimpo. Continuavo a tessere in piazza ogni giorno, a sorridere alle lodi e a mostrare i miei arazzi a tutti, che si stupivano di come tanta abilità fosse possibile per una mortale.
“È allieva di Pallade Atena!” gridò un giorno qualcuno tra la folla, mentre tessevo.
A quel punto interruppi la filatura e, sotto gli occhi di tutti, mi alzai in piedi. “Non sono allieva di Pallade Atena, chiunque sia tu che hai parlato” dissi, sicura. “Fatela gareggiare con me: se vince, sarò alla sua mercé!”
La folla, nell’udire le mie parole, emise borbottii di stupore e disapprovazione. Forse avevano intuito cosa stava per succedere, ma io no. Ero accecata dalla mia superbia, che avevo affinato negli anni al pari dell’arte della tessitura.
Stavo per sedermi e riprendere tranquilla a filare, quando vidi un’anziana donna farsi strada a fatica tra la folla. “Ragazza, ascolta una vecchia che ha più esperienza di te” mi disse. “Nessuno ti vieta di aspirare ad essere la migliore tessitrice tra i mortali, ma inchinati a una dea, riconosci il suo potere. Implora il suo perdono e lei te lo concederà.”
Quella fu la mia ultima occasione di salvarmi. Non la colsi. Riesco ancora a vedere alcune facce tra la folla: gente che aveva capito cose che io, chiusa nella mia arroganza, non ero in grado di vedere.
“Parla così a tua nuora o a tua figlia, non a me” risposi sprezzante alla vecchia. “Non ho nessun bisogno dei tuoi moniti! E la dea, perché non viene qui?” Alzai gli occhi verso il cielo, per rivolgermi direttamente a lei, e non avvertii alcun brivido nel farlo. “Perché Atena non accetta la sfida?”
“Sì è mostrata” tuonò una voce tra la folla. Quando abbassai lo sguardo capii immediatamente a chi apparteneva, e rimasi pietrificata. Al posto della vecchia c’era Pallade Atena, che ergeva in tutto il suo potere in mezzo alla folla, prostratasi ai suoi piedi.
In quel momento cominciai ad avere paura. Non mi ero mai trovata faccia a faccia con una divinità dell’Olimpo, ma ormai il danno era fatto ed era tardi per inginocchiarsi. Speravo ancora, anche se flebilmente, di poter vincere, perché una parte di me era davvero convinta di essere più brava di Pallade Atena. Provai a ripetermelo come avevo fatto per tutti quegli anni. Sei più brava di Pallade Atena. La frase era la stessa, ma la voce si era indebolita e con essa il suo effetto.
“Accetto la sfida” annunciò Pallade.
Furono preparati due telai, uno per me e uno per la dea. Cominciammo a tessere. Non faticai a scegliere un soggetto: tutti gli inganni degli dei, tutte le azioni malvagie da loro commesse, tutti i loro torti nei confronti dei mortali. Ogni tanto mi fermavo e guardavo Atena, intenta a ricamare chissà che cosa. Poi distoglievo lo sguardo, convincendomi che sicuramente il mio arazzo sarebbe stato migliore, doveva esserlo per forza, e riprendevo a tessere.
Quando la gara finì ero soddisfatta della mia opera. La dea, però, sembrava esserlo altrettanto. Venne il momento di mostrare al pubblico - la stessa folla che poco prima acclamava soltanto me - quello che avevamo realizzato.
Appena mi trovai davanti la tela di Atena, seppi di aver vinto: nessuno, né lei né Invidia, avrebbero potuto denigrare quell'opera. Compiaciuta per l'ennesimo trionfo, però, non avevo considerato che la dea avrebbe potuto non accettare la mia vittoria. Me ne resi conto non appena posai lo sguardo sul volto della mia avversaria. Non era solo contrariata, come spesso succede quando si perde - sensazione che, comunque, io potevo vantarmi di non conoscere. La sua ira era quasi abbagliante, e mi costringeva a stringere gli occhi se provavo a guardarla. A quel punto faticavo a distinguere le facce della gente tra la folla, ma riuscivo ancora a sentire le loro grida e il rumore dei loro passi mentre, in massa, scappavano dalla piazza che fino a poco prima era stata il tempio nel quale avevano rivolto a me le loro offerte. Mi girai verso il mio arazzo, alla ricerca di una conferma della mia vittoria, e lo vidi a terra, distrutto.
Mai, in vita mia, qualcosa mi fece più male. Da quando mi ero messa per la prima volta a lavorare al telaio, da bambina, mi ero approcciata al mondo come se ne fossi la padrona. Fu troppo tardi quando mi accorsi che quel titolo spettava agli dei. Desiderai non essermi spinta così oltre, aver ascoltato la vecchia che aveva cercato di avvertirmi, prima di passare ad annientarmi.
Una parte di me, però, non aveva alcun rimpianto se non quello di aver sfidato Atena. Tra i mortali ero stata grande, la più grande forse, perché avevo addirittura osato sfidare gli dei. Non riuscivo a fare a meno che inorgoglirmi per il fatto che una divinità non avesse disdegnano una competizione con me, anche se avevo finito per perdere.
Mi fu chiaro, in quel momento, che avevo perso. Continuavo a guardare con orrore la mia tela distrutta, come se il mio sguardo fosse capace di ridarle vita come le mie mani avevano fatto la prima volta. Allora decisi che non potevo sopportare quell’affronto.
Avevo già la testa nel cappio, pendevo sulla piazza che aveva visto il mio successo e il mio fallimento, che era stata l'apice della mia fama. La mia fama sarebbe rimasta grande, di questo ero certa. Morendo in quel modo sapevo di assicurarmi un posto tra i grandi miti del mondo, e già sentivo mille voci che la raccontavano: Aracne, la grande tessitrice, che da migliore tra i mortali ha tentato di conquistare anche il titolo di migliore tra gli Olimpi. Una leggenda, una semidea, alcuni avrebbero detto, ma poi altri avrebbero replicato che tutto quello che avevo fatto era stato grazie a doti umane: sarebbe stata questa la mia grandezza.
Quando stavo per abbandonarmi alla morte, sentii Pallade Atena parlare. “Ti concederò di vivere, ma restando appesa come sei adesso” esordì. “E la stessa maledizione sarà tramandata a tutta la tua discendenza.”
Subito dopo quelle parole sentii un dolore lancinante espandersi in tutto il corpo. La testa si rimpicciolì e tutto il mio corpo si strinse, fino a diventare minuscolo. Vidi tutti i miei capelli sparsi a terra, sopra la tela disintegrata Atena.
“Così continuerai a tessere” concluse la dea, prima di andarsene.
Questo faccio ancora. Io, i miei figli, e i figli dei miei figli. Tutti condannati alla tessitura, che però non è più un’arte, e non ci porta più nessun prestigio.
Per lo meno la mia storia si è diffusa. In Lidia e in Frigia non si parla d’altro. Ne hanno scritto i miei contemporanei, e ne parleranno i posteri, così come faranno con Pallade Atena. Alla fine sono riuscita a innalzarmi al suo livello.
Hai visto, dea? Alla fine ci sono riuscita.
28 marzo 2024
Francesca Chilò, 4AL
Non so perché, quando Zeus me lo chiese, io abbia accettato. Suppongo che sia perché non è facile dire di no al Re degli dei, ma avrei comunque dovuto pensarci meglio, pensare alle conseguenze. Non che avessi molta scelta: ci sarebbero state delle conseguenze comunque, a Zeus non piace sentirsi dire di no.
Quindi alla fine gli avevo risposto che sì, non c’era nessun problema, ci avrei pensato io a tenere occupata sua moglie mentre lui si godeva le sue avventure. Non sarà difficile, avevo pensato. Le storie sugli dèi e i mortali non mi avevano insegnato niente: ero così superba e stupida da credere che una ninfa potesse raggirare una dea e pretendere anche di passarla liscia. Arrivata da Era attaccai a parlare del più e del meno, perché parlare era una delle cose che mi venivano meglio, lo sapevo bene - e lo sapeva anche Zeus, per questo aveva scelto me per quel compito ingrato. All’inizio mi sembrò di starcela facendo, la conversazione procedeva senza che la mia interlocutrice desse alcun segno di sospetto; ma poi cominciò a rispondere a monosillabi, e alla fine a non rispondere più. Continuavo a parlare, come se avessi la certezza che, finché fosse uscita dalla mia bocca tremante qualche frase sconnessa, allora sarei stata protetta dall’ira divina.
Andai avanti finché Era non m’interruppe per domandarmi dove fosse Zeus. Le dissi che non lo sapevo, balbettai che non lo sapevo, perché avrei dovuto saperlo, cosa importava a me, Eco, di dove fosse Zeus? Non erano affari miei. Io mi facevo gli affari miei. Mi ero sempre fatta gli affari miei. Ero soltanto una ninfa, che avevo mai a che vedere con gli dei?
Saltò fuori che lei sapeva perfettamente dove fosse Zeus, e che aveva capito le mie intenzioni fin dall’inizio. “Ti ha mandata lui, non è vero?” fece.
Io aprii la bocca per rispondere, ma non uscì alcun suono. Per la prima volta in vita mia, dalle mie labbra non uscì alcun suono. “Sì” avrei voluto dire, perché ormai non avevo più niente da perdere, tanto valeva che Zeus si prendesse la parte di colpa che gli spettava. Aprii di nuovo la bocca, ci misi tutto il fiato che avevo, e l’unica cosa che si sentì fu un debole: “Vero”.
Era sorrise, ma fu un sorriso beffardo. Non era così che mi ero immaginata la collera divina. “Questa sarà la tua punizione, ninfa Eco. Non ingannerai mai più nessuno con la tua voce, perché le uniche parole che ti saranno concesse saranno le ultime che avrai sentito dire ad un altro, per l’eternità. È chiaro?”
Annuii, ma tenendo la bocca chiusa, perché sapevo che cosa sarebbe venuto fuori: sarebbe stato forse ironico per Era, ma altrettanto umiliante per me.
“Rispondimi. È chiaro?” ripeté la dea, infervorandosi.
“Chiaro” pronunciai, a malincuore e contro la mia volontà.
Per molto tempo, quella fu la mia ultima parola. Dopo la punizione decisi che non avrei più voluto incontrare nessuno, nemmeno le altre ninfe. Mi vergognavo enormemente di ciò che era successo, ma cercavo di consolarmi, di pensare che sarebbe anche potuta andare peggio. Potevo essere trasformata in un ragno, ad esempio, come era successo ad Aracne, e invece ero ancora Eco, solo priva della sua abilità principale. Nella mia testa, però, le idee correvano ancora veloci come un tempo avevano fatto i discorsi, e dopo i primi tempi imparai a farmi bastare quelle. Cominciai a vagare per i boschi, e trovai quasi conforto nella quiete alla quale ero costretta. Ogni tanto provavo a urlare, ma continuavo a sentire solo quella parola, chiaro, …aro…aro…
Nei boschi era più facile nascondersi, anche se ogni tanto si vedeva gente anche lì. Avevo imparato che alla gente non era possibile sfuggire, non del tutto. Prendete me: io ero ormai votata alla solitudine, non avevo mai più intrattenuto una conversazione con nessuno da quell’ultimo, sciagurato colloquio, e mai più l’avrei potuto fare. Nonostante questo, la presenza degli altri continuava a giocare un ruolo fondamentale nella mia - ora monotona - vita. Passavo la metà del mio tempo a sfuggirli, e l’altra metà a osservarli, incuriosita. Li sentivo parlare, ogni tanto riuscivo a distinguere quel che dicevano e altre no, e ogni volta provavo invidia e frustrazione. Ero io la colpevole del mio male ma, allo stesso tempo, che scelta avevo avuto?
Un giorno vidi da lontano un gruppo di giovani, come tanti ne avevo visti nel bosco. Stavolta fu diverso, perché tra loro uno in particolare risaltava per la sua bellezza. A un certo punto si allontanò. Sentivo gli altri che lo chiamavano: “Narciso! Narciso!”, doveva essere quello il suo nome. Narciso gli disse qualcosa che non ricordo, perché ero troppo presa a constatare quanto anche la sua voce fosse melodiosa. Per la prima volta da quando Era mi aveva privato della parola, desiderai che qualcuno mi vedesse. Immaginai di avere ancora la mia voce. Sarebbe stato così facile: sarei andata da Narciso e gli avrei semplicemente parlato.
Mentre questi pensieri mi agitavano pestai per errore un ramo, che si ruppe sotto al mio peso facendo rumore. Narciso, che si era fatto vicino, si girò di scatto. “Chi c’è?” chiese.
Mi appiattii dietro ad un albero. “C’è” risposi, sfruttando a pieno quel poco che mi era rimasto della parola perduta.
Narciso si guardò attorno, ma non riuscì a vedermi. “Perché mi fuggi?” domandò di nuovo al vento. Ora che ci penso, c’era arroganza nella sua voce, ma io ero talmente invaghita di lui da non riuscire ad accorgermene. “Incontriamoci!” esclamò poi.
Anni di prudenza in cui mi ero abilmente nascosta agli occhi di chiunque per non mostrare al mondo la mia maledizione furono improvvisamente annullati davanti a quell’invito. Ripetei con gioia la sua ultima parola, perché per la prima volta quello che Era mi costringeva a dire corrispondeva esattamente a quello che avrei detto io, se fossi stata ancora padrona della mia voce. Dopo tutto quel tempo passato a vivere da eremita, c’era finalmente qualcuno che avrei voluto davvero incontrare.
Uscii allo scoperto, sperando che fosse lui a dire qualcosa, visto che io non potevo farlo. Immaginavo che avrebbe capito, che avrebbe accettato la mia condizione, in quei pochi secondi arrivai perfino ad illudermi che la stessa Era, vedendo il tenero amore tra noi, s’impietosisse e annullasse la mia condanna. Tutte quelle speranza vane s’infransero, perché Narciso, invece che gettarsi tra le mie braccia come avevo sognato, si allontanò di scatto. “Vattene! Preferirei morire che unirmi a te!” esclamò, inorridito, e corse via.
Sentii il terreno aprirsi sotto ai miei piedi, e vidi il mio corpo precipitare. Fu solo la mia immaginazione, perché in realtà ero ancora in piedi, in mezzo al bosco, e Narciso non si vedeva più. “Unirmi a te” ripetei, ma lui era già lontano.
La cosa che avevo avuto più cara per la maggior parte della mia vita era la voce. Quando l’avevo persa, avevo trovato conforto nei vagabondaggi per il bosco e avevo scoperto l’inaspettato piacere della solitudine. Dopo aver incontrato Narciso, però, disprezzavo la solitudine con ancor più vigore di quando, allegra e sfacciata, impiegavo le mie giornate in chiacchiere con dei e mortali. Lo vedevo ancora davanti a me, bello nonostante l'espressione inorridita che il suo volto aveva assunto vedendomi. Chissà in quanti lo amavano, nella sua città o nel suo villaggio, da dovunque venisse. Avrei potuto aspettarmi che non avrebbe scelto una ninfa muta, tra tutte le opzioni che aveva. Avrei potuto aspettarmi tante cose, a partire dal giorno in cui ero andata da Era…
Basta alimentare questa ossessione. Devo finire di raccontare la storia. Il corso della mia vita è stato scandito soltanto dalle cose che ho perso. Sfrontata, poi muta, poi morta.
No, non dovevo dirlo in questo punto. Dovevo arrivarci dopo. Era non mi ha insegnato nulla, continuo a non capire quando sarebbe il caso di tacere. Ma tanto ci eravate arrivati.
“Unirmi a te” ripetei, ma lui era già lontano. Il bosco era vuoto, più di quanto non lo fosse mai stato, anche se in lontananza si sentivano ancora le risate dei ragazzi che avevo accompagnato Narciso. Non volevo restare lì in mezzo, non volevo che loro mi vedessero - sarebbe stato ancora più umiliante. Trascinai il mio corpo, che da giovane e forte si era fatto tutto ad un tratto stanco, spossato come se avesse cento vite sulle spalle. Entrai in una caverna vicina, dove mi accasciai. Nemmeno il freddo della roccia su cui mi sdraiai fu in grado di riscuotermi da quel torpore. Cominciai a piangere, piansi finché le lacrime non scavarono le mie guance, e poi la pietra. Non so quanti giorni passai nella caverna, stesa sempre nella stessa posizione, a piangere e sussurrare incessantemente le ultime parole di Narciso, l’unica cosa che mi aveva lasciato.
Trascorse il tempo, e la mia disperazione non si alleviò, anzi: si fece sempre più insopportabile, fino ad indebolirmi il corpo e annebbiarmi la mente. Nei miei pensieri si susseguivano sconnessi i ricordi che avevo accumulato e che ora, davanti a Narciso, perdevano tutta la loro importanza. Mi consumai ogni istante di più, finché non divenne troppo da sopportare e allora venne il momento di recidere il filo che mi legava ancora a quella flebile esistenza.
Al mondo non lasciai che la mia voce: un paradosso, se ci penso, ma Era aveva voluto punirmi per l’eternità e la morte non avrebbe certo intaccato quel proposito. Continuo a ripetere le ultime parole che sento, come volle lei.
Mi è giunta voce che a Narciso sia toccato un destino simile al mio: morto, ucciso dall’amore impossibile per un altro che, curiosamente, porta il suo stesso nome.
28 febbraio 2024
Francesca Chilò, 4AL
Mio padre, Dedalo, era l’inventore più brillante della Grecia. Non lo dico io, lo diceva Minosse, il re della nostra isola, alla corte del quale mio padre lavorava. Circolavano storie incredibili sul suo conto, alle quali io stesso faticavo a credere. Si diceva addirittura che avesse costruito un animale di legno per permettere alla nostra regina di unirsi a un toro sacro donato da Poseidone. Ogni volta che gli avevo fatto domande riguardo a questo avvenimento si era voltato dall’altra parte, dicendo che il suo lavoro non mi riguardava. Era un uomo schivo, mio padre, ma credo mi amasse sopra ogni cosa.
La storia del toro, che aveva del fantastico e mi faceva ridere solo al pensiero, si era in realtà rivelata assolutamente plausibile quando la regina aveva dato alla luce un essere abominevole, a metà tra l’uomo e l’animale. Stando a quanto avevo sentito raccontare, la creatura aveva il corpo umano e la testa di un toro, e già dai primi istanti di vita si era mostrata feroce e assetata di sangue. La regina aveva scelto per lui un nome, come aveva fatto con tutti gli altri suoi figli: l’aveva chiamato Asterio, stella. Sull’amore materno ebbe la meglio la preoccupazione generale per la nascita di quell’essere anomalo, e il giovane principe divenne conosciuto da tutti come Minotauro, in riferimento alle sue sembianze mostruose.
Quando nacque il Minotauro ero ancora un bambino. Ricordo che, un giorno, chiesi angosciato a mio padre se il destino di Asterio sarebbe stato la morte. Mi rispose di no, che a Minosse avere un mostro a Creta sarebbe tornato molto utile per tenere lontani i nemici. Non capii subito bene che cosa intendesse, ma cominciai a vederlo sempre meno. Stava sempre con Minosse, o chiuso nella sua officina a lavorare, o a supervisionare un cantiere da poco aperto, al quale nessuno aveva il permesso di avvicinarsi. Alla fine, la sua più grande impresa si compì: aveva progettato un immenso labirinto, una prigione per il mostro, dalla quale sarebbe stato impossibile scappare.
Poco dopo la costruzione del labirinto, Minosse cominciò a riscuotere i tributi: ogni anno, Atene avrebbe dovuto inviare a Creta quattordici dei suoi giovani, sette maschi e sette femmine, che sarebbero stati sacrificati tra le fauci del Minotauro.
Erano già morti ventotto tributi ateniesi, e nel frattempo da bambino mi ero fatto ragazzo.
“Quest’anno posso andare a vedere i tributi?” chiesi a mio padre un giorno. “Ti prego, ormai sono cresciuto” insistetti, vedendo che lui mi ignorava. Mio padre faceva sempre così quando era contrariato: non mi diceva di no, mi ignorava e basta, come a sottolineare quanto la mia richiesta fosse assurda e per nulla degna di nota, o forse soltanto perché non aveva il cuore di impormi un rifiuto.
Ma io, proprio perché ero cresciuto, non ero più disposto ad accettare le sue imposizioni. “Almeno rispondimi!” esclamai, forse un po’ troppo arrogante.
Finalmente, mio padre mi guardò. Aveva lo sguardo affranto, e in effetti mi ero chiesto spesso se non si sentisse in colpa per l’uso che era stato fatto della sua invenzione. Mi domandavo se lo avesse saputo, nel momento in cui aveva costruito il labirinto, se sentisse sulle mani il sangue di quei ventotto ateniesi, e di tutti quelli che ancora sarebbero morti. Poi mi ricordavo che non dovevo incolpare mio padre, dovevo incolpare Minosse, solo che Minosse era il mio re e quindi non potevo incolpare nemmeno lui. Alla fine, mi ritrovavo solo con un senso di impotenza che non sapevo dove incanalare. Era il motivo per cui cercavo di evitare il più possibile certi pensieri.
“Hai saputo?” mi chiese.
Lo squadrai. “Saputo cosa?”
Fu costretto a mettermi al corrente della verità. “Il principe di Atene è sbarcato con i tributi.”
Cercai di decifrare la sua espressione, senza successo. “Vuole chiedere la mano della principessa Arianna?” ipotizzai ingenuamente, senza capire dove mio padre volesse andare a parare.
“No, la principessa Arianna è già promessa.”
“Allora cosa vuol dire? Ci sarà una guerra?”
“Beh, può darsi. Icaro, il principe di Atene è qui come tributo.”
Sgranai gli occhi. “Come tributo?”
“È stata una sua libera decisione. Forse vuole fare l’eroe, ma non ha idea di cosa lo aspetta” mi spiegò.
Restai in silenzio un attimo, poi chiesi: “Come si chiama il principe?”
“Si chiama Teseo.”
Per i giorni successivi evitai di chiedere a mio padre il permesso di vedere i tributi. Di giorno non facevo nulla, e di notte mi abbandonavo a sonni agitati. Immaginavo i tributi che arrivavano a Creta, con il terrore nel volto, consapevoli di andare incontro alla morte. Li immaginavo nel labirinto, divorati dal mostro, e vedevo soccombere davanti a me anche quel Teseo. Non riuscivo a capire se lo ritenessi molto coraggioso o solo molto stupido.
“Il re cosa pensa di questa storia di Teseo?” chiesi a mio padre, che col passare del tempo si era fatto sempre più taciturno.
“L’ha onorato per il suo coraggio.”
“Davvero?”
“Sì, ma è tutta una montatura. Minosse ha paura che possa creare problemi, anche se gli ho ripetuto più volte che è una paura infondata. Domani all'alba i tributi saranno portati nel labirinto, e nessuno di loro riuscirà ad uscirne, neanche Teseo. L’unica persona che ne sarebbe capace ce l’hai davanti, se non consideriamo la presenza del mostro.”
Appena mio padre finì di parlare, qualcuno bussò alla porta. Lui si alzò dal tavolo dove stavamo mangiando senza fare una piega, e andò ad aprire. Rimase sulla soglia un attimo, ma non riuscii a vedere con chi stesse parlando, poi si chiuse la chiuse alle spalle. Dopo pochi minuti rientrò.
“Chi è venuto a disturbarti a quest’ora?” domandai.
“Gente del palazzo” rispose, vago.
Finimmo il pasto in silenzio.
L’indomani a tutta Creta fu data la notizia. I tributi erano salvi e lontani da Cnosso, il Minotauro morto dentro al labirinto, Teseo e la principessa Arianna scomparsi. Minosse era su tutte le furie.
“Avevi detto che Teseo non sarebbe mai riuscito a uscire dal labirinto” osservai, parlando con mio padre.
Lui scosse la testa. “Avevo detto che non ci sarebbe riuscito da solo.”
“L’hai aiutato tu?”
“No” rispose, categorico. “Saranno stati gli dèi.”
“O la principessa Arianna” aggiunsi, anche se dubitavo che Arianna conoscesse i segreti del labirinto. “Ma credi che Minosse darà la colpa a te?” Avevo passato tutta l’infanzia ad essere fiero dell’ingegno di mio padre e ora temevo che la sua più grande creazione gli si ritorcesse contro.
“Minosse non ha tempo da perdere con me, ora sta pensando a sua figlia che è fuggita con Teseo. Tu però devi mantenere un profilo basso, più basso che mai, hai capito?” me lo disse in modo fermo, ma sempre con quel tono paterno e amorevole con cui mi parlava fin da quando ero bambino. Era preoccupato, ma non voleva far preoccupare anche me.
Io annuii. Ripensai alla sera prima, quando avevamo ricevuto quella visita inaspettata durante la cena, a come mio padre si era rifiutato di dirmi di chi si trattasse. Non riuscivo a credergli fino in fondo, quando mi diceva che non c’entrava niente.
Nonostante avessi seguito alla lettera le sue indicazioni per tutti i giorni seguenti, una sera le guardie di Minosse sfondarono la nostra porta. Dovevano imprigionarci, per ordine del re.
“Sta’ calmo” mi sussurrò mio padre, e io mi sforzai di non opporre resistenza mentre mi prendevano e mi trascinavano con loro. Sapevo dove si trovavano le prigioni a Creta, per cui rimasi stupito quando mi accorsi che non era il luogo in cui le guardie ci stavano portando: era verso il labirinto. Ci sbatterono lì e ci chiusero dentro, sbarrando ogni uscita.
Temetti che sarei morto di fame, di freddo e di stenti, e mi sembrava quasi di sentire vicino a me il fetore emanato dal corpo del Minotauro in decomposizione. Ecco, questa sarà la mia fine, pensavo. Anzi, la mia sarà anche peggiore, perché forse il colpo di Teseo era stato ben assestato e la povera bestia non aveva sofferto più di tanto, io invece avrei patito tutto il possibile. Passai dal considerare quel Teseo che non avevo mai visto una specie di eroe ad odiarlo, perché era tutta colpa sua se io e mio padre avremmo finito i nostri giorni dentro il labirinto. Non che ce ne restassero molti, vista la nostra situazione.
Ci misi poco a capire che nel cervello di mio padre gli ingranaggi avevano ricominciato a girare, e la cosa riaccese in me un debole barlume di speranza. Camminava per il labirinto raccogliendo piume e ammassando fango, mi diceva di aspettarlo in un punto e faceva sempre ritorno, perché conosceva quegli intrecci come le sue tasche. Di giorno raccoglieva e di notte, mentre io dormivo, lavorava - non avevo il coraggio di chiedergli a che cosa.
Alla fine furono pronte. Due paia d’ali, uno per me e uno per mio padre, che ci avrebbero portato al di là del labirinto, al di là del mare, via da Creta, di nuovo verso la libertà. Decidemmo di partire all’alba, quando ancora sull'isola la vita non era incominciata, ma c’era già abbastanza luce per riuscire ad orientarsi.
“Non preoccuparti delle sentinelle, se tutto va bene ci scambieranno per degli uccelli e si terranno le frecce nella faretra” disse mio padre, quando già avevamo entrambi le ali addosso. “Mi raccomando, non volare troppo vicino al mare, altrimenti le ali si bagneranno” mi ammonì. “E nemmeno troppo vicino al sole, altrimenti il suo calore scioglierà la cera e precipiterai nell’acqua. Hai capito?”
Annuii, desideroso di concludere in fretta il momento delle raccomandazioni e passare finalmente all'azione. Non vedevo l’ora di partire, andarmene, vedere il mondo. Speravo di cominciare una seconda parte della mia vita, migliore di quella passata a Creta.
Volammo per due giorni e due notti. Con indosso le ali mi sentivo potente, invincibile, libero, come mai ero stato in vita mia. L’unica cosa che mi tratteneva erano i consigli di mio padre, che continuava a urlarmi di stare più in basso, più in basso, più in basso, ma il cielo era così bello e io volevo vederlo tutto, volevo vedere il sole. A un certo punto fui così lontano che le urla di mio padre nemmeno si sentivano più, ero arrivato in alto e avevo intenzione di continuare a salire. In effetti continuai, finché non avvertii il bruciore della cera sciolta sulla schiena. Fu troppo tardi quando mi ricordai dell’ultima raccomandazione di mio padre: non volare troppo vicino al sole. Le ali si staccarono e mi sentii improvvisamente nudo, cominciai a precipitare. L’ultima cosa che sentii fu il grido disperato di mio padre, che urlava il mio nome. Deve aver cercato di afferrarmi al volo, ma invano, perché quando mi scontrai con l’acqua caddi così in profondità che non riuscii più a risalire. Dal punto più alto del cielo piombai sul fondo degli abissi.
Il mare prese possesso di me, e non mi restituì mai più a mio padre. Mi domando che cosa ne sia stato di lui.
La notte le accarezzava la pelle violacea, la baciava con le labbra violente e viscide.
I suoi respiri di alcool e fumo le facevano venire i brividi, professava al suo orecchio un amore blasfemo e fraudolento.
Lasciava il suo corpo fragile e spoglio, sfinito sotto le lenzuola, si alzava borbottando parole di svalutazione.
All’alba le rimaneva accanto, guardandola con sguardi disprezzanti e poco dopo cominciava:
la prendeva per i capelli, la percuoteva, le urlava risentimento e affondava le unghie nella carne.
“Sei grassa, sei un maiale.” La graffiava con la lingua biforca.
Tentava di coprirsi il capo, di chiudersi come un riccio. Sentiva le lacrime scendere lungo il viso ferito.
Non opponeva più resistenza, lasciava che lui la colpisse, che la distruggesse, che l’accartocciasse e la strappasse come un foglio di carta.
Sentiva la pelle bruciare e vedeva nel nero delle palpebre il volto di suo figlio.
Il sole saliva sempre più alto nel cielo e lei respirava sempre più affannosamente, il petto le pesava. Lui le sbraitava all’orecchio l’indicibile. Singhiozzava.
“Fiata un’altra volta e te ne do il doppio. Mi hai rovinato la vita.” Concluse lui con un appellativo spregevole. Lei aveva imparato a soffocare le sofferenze, aveva imparato a morire silenziosamente.
Lui continuava a picchiare, fino a far soffocare anche lei.
Tirava il suo ultimo respiro e in sottofondo la radio suonava: “Rose Rosse per te, ho comprato stasera e il tuo cuore lo sa, cosa voglio da te. D’amore non si muore e non mi so spiegare perché muoio per te..”
Si svegliò completamente intorpidita, avvertendo uno strano formicolio sulle braccia. Non era solita infastidirsi durante il sonno, anzi, usualmente tendeva a svegliarsi solo nel momento in cui l'allarme a volume altissimo le imponeva di abbandonare il suo più grande amore, Morfeo, ed avvicinarsi alla vita reale. Agata tentò di scrollarsi di dosso quella sensazione, ma non ci riuscì in alcun modo. Avvertiva una netta differenza rispetto al momento in cui era andata a dormire, la sera prima. Si perse nella sua mente per qualche attimo, cercando di ricostruire con la maggior precisione possibile tutto l'accaduto delle ore immediatamente antecedenti alla dormita così bruscamente interrotta. Rifletté in particolar modo su cosa potesse causare una sensazione simile, che era ciò che più la turbava. Un risveglio improvviso senza di essa non sarebbe stato affatto significativo. Riepilogò brevemente il pasto effettuato la sera, alle sette e mezza precise, come al solito. Aveva ingerito, seppur di mala voglia, un filetto di branzino e delle patate lesse. Odiava il pesce e sua madre lo sapeva, ma si ostinava a prepararglielo, sostenendo che fosse importante. Agata aveva provato ad obiettare che a ventidue anni non fosse corretto che sua madre continuasse a decidere arbitrariamente cosa lei dovesse mangiare o meno, ma la risposta era sempre stata la frase che sin da piccola si era sentita dire: "Finché vivi sotto il mio tetto, le regole le faccio io.". E così si era rassegnata a mangiare quel pesciolino molliccio, abbondando con il limone per sentire il sapore dell'animale il meno possibile. Non era stato piacevole, ma non era la prima volta che un evento simile si verificava, per cui la sensazione non poteva essere causata da quello. Più i minuti scorrevano, più il disagio da fisico diveniva emotivo: un grande senso di vuoto le prese il petto e la ragazza cominciò a respirare affannosamente, ma senza fare troppo rumore, per non spaventare sua sorella, che dormiva nel letto accanto a lei. Proprio con Rachele aveva passato le ore successive alla cena, in un modo che entrambe amavano: facendo il karaoke. A nulla erano servite le proteste dapprima dei genitori, poi dei vicini, poiché quando le due si mettevano a cantare non c'era nulla che potesse fermarle. Un sentimento dolcissimo prese per pochi attimi il posto della sensazione fastidiosa: sua sorella le faceva sempre questo effetto. Le due avevano dieci anni di differenza, ma erano amiche per la pelle. Rachele era stata adottata ed era kenyota, perciò aveva una carnagione molto scura. Il suo nome sarebbe originariamente dovuto essere Rachel, ma l'incapacità dei loro genitori di pronunciarlo Reicel li aveva convinti ad italianizzarlo. I suoi occhi erano grandi e scuri, le sue ciglia estremamente lunghe ed il suo sguardo conquistava istantaneamente chiunque lo incrociasse. Portava i capelli raccolti in corte treccine che si staccavano dalla sua testolina solo per pochi centimetri di lunghezza. La sua corporatura era esile e delicata, ma decisamente armoniosa grazie alle prime forme da donnina che iniziavano a fare capolino. Agata poteva considerarsi diametralmente opposta a sua sorella, per lo meno dal lato fisico: era una ragazza molto alta con i capelli lunghi e lisci, di un colore indefinito, a metà tra il castano ed il biondo. I suoi occhi, pur essendo anch'essi scuri, erano sottili e taglienti. Non tendeva ad essere esile, bensì la sua muscolatura era ben marcata e le conferiva un aspetto austero, ma indipendente. Per sua sorella era vero il contrario: chiunque la vedesse, ed Agata in particolare, era immediatamente colpito da uno spiccato senso di protezione nei suoi confronti.
La bambina era come un piccolo tesoro per sua sorella, un prezioso segreto da tenere protetto, affinché la cattiveria del mondo non potesse scalfirlo. Non era semplice agire sempre in questo senso, soprattutto ora che la preadolescenza cominciava a far nascere in Rachele i primi desideri di autonomia. Agata, però, aveva paura. Temeva che la realtà esterna alla loro piccola bolla di sapone fosse eccessivamente aspra per la piccola e che il suo caratterino, determinato ma fragile, non avrebbe retto.
La ragazza allungò una mano per fare una carezza alla ragazzina, ma le sue dita incontrarono solo il materasso. Brancolò con la mano nel buio, per cercare di capire da che parte del letto fosse finita sua sorella, ma non riuscì a trovarla. Con l'altra mano raggiunse celermente l'interruttore dell'abat-jour che si trovava sul suo comodino e la accese. Quando la stanza fu illuminata, il cuore di Agata le arrivò sino in gola per poi sprofondare giù.
Il letto era vuoto e perfettamente riordinato. Di sua sorella non vi era traccia.
Le ore successive furono per la ragazza solo un confuso turbinio di momenti di lucidità, in mezzo ad ampi vuoti in cui non si sentiva affatto cosciente di ciò che faceva o che la circondava. La sensazione che aveva nel petto le invase l'intero organismo, avvolgendo la sua mente in una sorta di patina opaca, che non le permetteva di percepire l'universo attorno a sé in maniera efficace. Non ricordava, ad esempio, di aver urlato per chiamare i propri genitori, come questi sostenevano, né di aver aperto tutte le finestre ed aver chiamato da ognuna di esse la piccola scomparsa. Ciò che invece le era rimasto impresso era stato il bicchiere di acqua che l'avevano forzata a bere e che lei per poco, dal tremolio, non aveva rovesciato. Poi, ricordava le sirene della polizia e gli agenti nel suo salotto. Le avevano chiesto cose di ogni genere, ma lei aveva sempre risposto a monosillabi, proprio perché il suo cervello era momentaneamente incapace di elaborare qualsiasi tipo di proposizione complessa. Infine, i poliziotti avevano dichiarato che avrebbero immediatamente iniziato le ricerche e di stare tranquilli, perché il letto ordinato faceva pensare ad una fuga da pre-adolescente ribelle, che si sarebbe probabilmente conclusa nel giro di qualche ora.
Agata stava in attesa che quel momento arrivasse. Non riusciva a capire cosa potesse essere accaduto: lei stessa aveva rimboccato le coperte alla piccola la sera precedente, per poi osservarla mentre lentamente si addormentava. Nessuno era entrato in casa, quindi nessuno poteva averla rapita. Tanto meno poteva essere uscita dalla finestra, poiché la ragazza l'aveva trovata chiusa quella mattina. Pertanto, l'unica ipotesi che pareva plausibile era quella sostenuta dagli agenti. La ragazza non ricordava quando fossero usciti dalla sua casa, ma percepiva la loro assenza come un susseguirsi di attimi sprecati, in quanto non dedicati al ritrovamento della sua sorellina.
Senza alcuna ragione logica, si alzò di scatto dalla sedia sulla quale stava seduta ormai da ore, la stessa sulla quale la polizia l'aveva interrogata, come se qualcosa l'avesse punta, o si fosse scottata. Corse nella sua stanza e, assieme alla porta, le parve di chiudere all'esterno tutto ciò che del mondo non appartenesse a quella piccola bolla nella quale vivevano lei e Rachele. Agata vide il Sole perdere gradualmente la propria luce. Ricordava che svariati anni prima, a scuola, le avevano detto che l'astro al centro del nostro sistema avrebbe avuto una vita lunga pressoché dieci miliardi di anni e che, attualmente, ne erano già passati cinque. Questo le aveva messo un bizzarro senso di ansia addosso, come se i miliardi restanti potessero scivolarle via, tra le dita, come l'acqua. La natura del tempo le era sempre stata avversa, poiché non era in grado di coglierne l'essenza, fugace quanto facile da riempire. Forse, il problema si poneva proprio in questa seconda caratteristica, ancor più che nella prima. Se il Sole, infatti, continuava ad esistere e consumarsi gradualmente per mantenersi in vita, garantendo così tempo agli abitanti del pianeta Terra, questi erano poi in dovere di riempire quel tempo nella maniera migliore possibile. Ciascuno di essi, secondo Agata, avrebbe dovuto impegnarsi affinché il lento ma inesorabile esaurimento del sole non fosse mai vano. Eppure, lei stessa non trovava alcun modo per far sì che questo accadesse. Ciò la faceva sentire ingrata, accidiosa e completamente inutile. Stava sprecando una fettina dei cinque miliardi di anni rimasti al Sole.
Rachele, al contrario, viveva la sua vita nel pieno dello splendore più assoluto. Invece di preoccuparsi di sprecare la luce emanata dall'universo, lei usciva e cercava di raccoglierne il più possibile, con la pelle, con gli occhi e con il cuore. Il suo animo ancora spensierato, poiché mai sfiorato dal dolore, era la chiave di lettura che applicava alla vita. La sua energia era così permeante e contagiosa che Agata non poteva evitare di rimanerne rapita. Grazie alla sorella, i suoi pensieri divenivano leggeri, la sua mente era libera di fluttuare ed errare, senza meta, né scopo.
Ma Rachele non era più lì. Lo spirito che dapprima era capace di librarsi nell'aria per merito della leggerezza conferitagli dalla presenza della bambina si era mutato drasticamente in piombo ed era collassato al suolo, incapace di reagire. Agata avrebbe sentito un milione di sensazioni diverse, tra le quali avrebbero di certo primeggiato una paura raggelante, una furia cieca ed un'incertezza paralizzante. Avrebbe provato sicuramente tutto questo, se il suo cuore non fosse stato completamente scavato ed anestetizzato dall'assenza della sorella. In quel momento, la capacità di percepire elementi non strettamente materiali le sembrava un lontano ricordo ed anche i suoi cinque sensi le parevano affievoliti. Si sentiva come se stesse guardando la propria vita dall'alto, come se le mani che vedeva stringersi tanto forte da graffiarsi i palmi non fossero davvero le sue, perché quel dolore non le apparteneva.
Si ritrovò sul tetto. Non ricordava di esserci andata, ma sapeva con certezza come ci era arrivata. Era un luogo familiare, che aveva scoperto all'età di sette anni. Durante una fresca giornata primaverile, le era capitato di sentire delle forti urla provenire dall'appartamento dei vicini. Parole che le erano estrane, quasi quanto le sensazioni di cui erano cariche: odio, rabbia, disprezzo. Agata aveva provato a tapparsi le orecchie, ma le grida parevano penetrare il suo pavimento con una facilità disarmante. Da bambina sveglia qual era, decise che forse nell'armadio, assieme a qualche mostro che era convinta vi si celasse, avrebbe trovato un po' di conforto. Così era entrata e si era accovacciata contro una delle pareti. Portando la testa verso l'alto, aveva scorto una botola, che avrebbe potuto raggiungere facilmente grazie agli scaffali sui quali erano riposti i suoi vestiti. Con uno sforzo leggermente superiore alle sue doti in agilità, la piccola Agata si era arrampicata ed aveva spinto la finestrella verso l'alto. Essa si era aperta senza opporre resistenza e la bambina era scivolata attraverso l'apertura, arrivando a sedersi sul tetto, la cui pendenza pressoché nullo rendeva inesistente la paura di cadere. L'aria delicata ma decisa che l'aveva accolta lassù le aveva immediatamente fatto percepire quel luogo come suo, intimo ed esposto allo stesso tempo.
La medesima aria parve svegliarla dall'intorpidimento in cui si trovava la sua anima, il giorno della scomparsa di Rachele. Si guardò velocemente intorno e capì che il suo corpo, quasi come un riflesso muscolare involontario, l'aveva condotta sino a quel punto, forse per aiutarla. In quel momento, tutte le sensazioni che l'apatia dello shock aveva trattenuto sino ad allora iniziarono a strabordare, inondando e riempiendo il corpo di Agata, fuoriuscendole lentamente dagli occhi. Il pianto della ragazza fu silenzioso e razionale, come solo i pianti di dolore sordo sanno essere.
Mentre le lacrime le scorrevano copiosamente sulle guance, un pensiero iniziò a riecheggiare in maniera costante nella sua mente, aumentando di volta in volta il suo volume, come se la voglia di affermarsi divenisse gradualmente più grande.
"Io la troverò." Sentenziò in fine ad alta voce, con tono più fermo del previsto.
Agata scese lentamente dal tetto e si sbarazzò celermente delle pantofole che le coprivano i piedi, sostituendole con delle più appropriate scarpette da ginnastica. Quando il suo sguardo sfuggente si appoggiò per un brevissimo istante al letto di Rachele, una morsa raggelante le strinse il petto, costringendola a fare un respiro più profondo degli altri, per scacciarla, almeno momentaneamente. Doveva rimanere concentrata, capire che le sue emozioni, per quanto indicatrici di una vitalità restia a spegnersi anche nei momenti più oscuri, l'avrebbero portata ad avere meno capacità di giudizio lucido. La sua mente doveva rimanere sgombra.
Afferrò un bomber sportivo, appoggiato sulla sedia della sua scrivania. L'affetto che provava per quella giacca era pressoché indescrivibile: era uno degli ultimi ricordi che le rimanevano dei mesi che aveva trascorso negli Stati Uniti, ormai quattro anni prima. Il resto di ciò che aveva visto si stava gradualmente facendo meno nitido, seppur si sforzasse di tenerlo in vita. Per lei, era stato un po' come viaggiare in un'altra dimensione e perdersi completamente in essa, poiché tutto era totalmente diverso e per la maggior parte in senso positivo. Le emozioni che la avevano accompagnata erano state indescrivibilmente piacevoli, soprattutto se paragonate a quelle che caratterizzavano quel periodo della sua vita quando era in Italia. In Ohio, non aveva conosciuto l'ansia, la paura e la rabbia la aveva quasi abbandonata del tutto. Era riuscita ad essere serena, seppur talvolta un po' malinconica nei confronti di ciò che aveva lasciato a casa.
Il suo piccolo tesoro di affetti, già allora, non si componeva di un gran numero di persone. Suo padre, sua madre, e la sua sorellina, alla quale Agata imparava a relazionarsi giorno per giorno. Più cresceva, più sua sorella diventava un vulcano di idee, desideri e sensazioni, impossibili da contenere. Per un'adolescente, nel pieno della fase più intensa del suo sentire, questo aveva aspetti al contempo positivi e negativi. L'isolamento ed il desiderio di avere uno spazio personale caratterizza fortemente questo periodo della vita, tanto quanto il desiderio di circondarsi di persone e di ottenere approvazione da esse. Quando era quest'ultimo lato a prendere il sopravvento, Agata e Rachele erano in perfetta sintonia, forti del profondo affetto che da sempre le univa e dell'innata intesa della quale erano dotate. Tuttavia, nei momenti in cui la solitudine era quanto di più prezioso potesse esistere per la sorella maggiore, l'energia contagiosa della bambina risultava quasi fastidiosa per lei, tanto da arrivare ad urlarle contro per le motivazioni più stupide.
Con il trascorrere degli anni, le dinamiche erano totalmente cambiate e quelle tensioni non appartenevano più al duo, ormai pressoché invincibile. Agata non poteva credere che sarebbe presto toccato alla sua sorellina attraversare quella tortuosa fase nota col nome di adolescenza. Le parevano trascorsi pochi attimi dalla prima lettera che le aveva scritto, dieci anni prima, consapevole che non sarebbe stata in grado di capirla, ma fiduciosa che l'avrebbe apprezzata. L'aveva redatta in occasione dell'imminente arrivo della sorella, per rassicurarla che si sarebbe trovata bene nella sua nuova casa. L'aveva poi affidata all'agenzia che gestiva la sua adozione, la quale aveva fatto in modo che non solo Rachele la ricevesse, ma che la custodisse per il futuro. Così ora quella lettera si trovava sulla bacheca accanto al letto della ragazzina, piena di pieghe, ma sempre preziosa. Agata l'afferrò e la rilesse, essendosene quasi completamente scordata il contenuto:
"Cara Rachele,
so che sei una bambina piccola e che non parli ancora l'italiano, quindi non potrai capire niente di quello che sto per scrivere, ma spero che qualcuno te lo racconti, così sarai più preparata per il tuo arrivo qui. Io non vedo l'ora, ti stiamo aspettando da tanti mesi ormai. Ho visto delle tue foto e sei bellissima, non so perché ci siano voluti due anni prima che qualcuno ti adottasse. Io ti avrei presa appena nata, ma non fa niente. L'importante è che tu stia arrivando."
Agata sorrise già di fronte a quelle primissime righe, che le parevano ricche di un entusiasmo a lei ormai estraneo. Rachele le aveva illuminato la vita, ma era stata anche il non plus ultra della sua gioia, cosicché, dopo di lei, qualsiasi traguardo le era parso in qualche modo non pienamente soddisfacente. La ragazza proseguì nella lettura, curiosa di saperne di più:
"Vedrai che ti piacerà qui. Non è certo la città più bella del mondo, ma ci si accontenta. Abitiamo in un quartiere tranquillo, con poche persone e pochi rumori, quindi quando vorrai fare il pisolino ci riuscirai benissimo. Poi, dietro casa mia c'è un parchetto bellissimo. Io l'ho sempre chiamato Parco delle Ombre, perché gli alberi lo circondano completamente e lo coprono con i loro rami, quindi il sole non ci arriva. E' piccolo, ma molto carino e ci sono tutte le giostre che vuoi. "
Smise di leggere. Una forte sensazione la spinse ad avviarsi verso il luogo menzionato in quelle righe. Era stato un posto speciale per lei e sua sorella, un angolo di mondo in cui solo loro esistevano. Lì l'aveva osservata crescere, essere dapprima troppo piccola perché le barriere dell'altalena per infanti riuscissero a trattenerla e poi troppo grande per riuscire ad entrarci. Lì l'aveva tenuta per mano mentre imparava a salire passo dopo passo le scalette dello scivolo e, qualche anno dopo, l'aveva rimproverata perché si arrampicava su quest'ultimo. La sua ricerca doveva iniziare in qualche luogo ed Agata aveva appena stabilito quale.
Giunse al Parco delle Ombre in meno di cinque minuti, avendo distrattamente posticipato le spiegazioni che i suoi genitori le avevano richiesto nel momento in cui era uscita. Non si aspettava di trovare sua sorella lì, ed infatti non fu così. Tuttavia, sapeva che ogni volta che Rachele prendeva una decisione importante, scriveva la data ed il luogo in cui lo aveva fatto sotto lo scivolo, con un pennarello indelebile. Era stato così quando aveva dovuto decidere gli sport da praticare, quando aveva eletto la propria migliore amica tra due candidate a sua detta eccellenti e quando, lo stesso giorno, si era fidanzata e lasciata con un suo compagno di classe, l'anno precedente. Agata immaginò che, se la fuga di sua sorella era stata volontaria, la data ed il luogo in cui aveva scelto di pianificarla si sarebbero trovate sotto lo scivolo.
A fatica per la sua consistente stazza, si lasciò scivolare tra la lamina di metallo e le sbarre che la reggevano inclinata. Fece scorrere la punta del proprio dito indice lungo la breve ma dettagliata colonna di dati, per arrivare alle ultime due registrazioni, delle quali, in effetti, non sapeva nulla. Erano entrambe piuttosto recenti e ravvicinate tra loro, il che lasciava intendere che si riferissero allo stesso argomento:
"23/09/2018, salotto dei nonni"
"01/10/2018, laboratorio di Susanna"
La ricerca di Agata poteva effettivamente iniziare.