Mancavano pochi giorni alla partenza di un viaggio che mi avrebbe portato in Nigeria e in Cameroun e, contrariamente al solito, non ero affatto entusiasta di partire. E’ il 30 giugno e l’appuntamento è per le ore 5,30 del mattino all’ingresso dell’autostrada. Ad attendermi c’è il giornalista Gino Barsella direttore di Nigrizia, uno dei più importanti periodici, su temi Africani, del mondo. Dovevamo documentare, io fotografo e Gino Barsella giornalista, la situazione socio-politica-economica di quei paesi.
Quello che mi lasciava molto perplesso era la situazione di costante tensione della Nigeria. Lagos era indicata come una tra le più pericolose, se non la più pericolosa, città del mondo. Le notizie parlavano di un paese violento e corrotto, di notti di terrore, di rapine a mano armata messe in atto, nella maggior parte dei casi, da bande di poliziotti. Svolgere il nostro lavoro in questo clima di violenza non sarebbe certo stato facile: sembrerà incredibile ma a volte puntare un obiettivo può essere più pericoloso che puntare una pistola.
Inoltre il periodo prescelto, luglio, con la stagione delle piogge e un caldo-umido insopportabile, avrebbe reso tutto ancora più difficile.
Oltre a questo, a causa della situazione interna nigeriana, sembra impossibile ottenere il visto. Mancavano solo due giorni alla partenza, che stavamo per rinviare, quando arriva il tanto sospirato visto. E' solo un visto "turistico" e lo abbiamo ottenuto, dopo oltre due mesi di insistenze e attese, grazie alla compiacenza di un vescovo nigeriano momentaneamente in Italia,che ci invitava, pro forma, con una lettera, a partecipare alla festa per il suo compleanno, naturalmente, in Nigeria....
Durante il volo Parigi/Lagos sono seduto accanto ad una bambina nigeriana che rientra in patria dopo un breve soggiorno all'estero. E' silenziosa e composta, ha dodici anni, si chiama Deborah. Riesco ad avviare un colloquio in francese e vengo a sapere che stà rientrando dalla Francia dove era stata a trovare sua sorella che vive là. Una cosa, tra le tante, mi colpisce: mi dice che quasi sicuramente, dopo le primare che stà ultimando, non continuerà la scuola, fatto, questo, sintomatico che coinvolge anche persone non propriamente povere di questi paesi.
LAGOS
Siamo alloggiati al centro di Lagos, nei locali di una parrocchia, ospiti di tre preti nigeriani, località Coker Village. Due letti con zanzariera, un tempo bianca, al terzo piano dell'edificio; un piccolo bagno dal pavimento in cemento, con una specie di doccia e un grosso ventilatore che, sopra le nostre teste, gira ininterrottamente, ventiquattrore su ventiquattro. Due finestre, sempre aperte, con la speranza di sfruttare, di tanto in tanto, qualche refolo di vento che, anche se caldo e umido, è sempre meglio di niente.
E' il 30 giugno e siamo appena arrivati.
La situazione, qui a Lagos, come era immaginabile, è sempre molto tesa.
I poliziotti e l'esercito, agli innumerevoli posti di blocco, sono sempre molto sospettosi e i controlli lunghi e minuziosi.
Nelle strade, nelle baracche, tra gli anfratti, ci si arrangia in ogni modo per cercare di sopravvivere.
Si commercia e si vende di tutto: pannocchie di granoturco, pomodori avvizziti e grossi come ciliege, birra fatta in casa, bibite confezionate con chissà che cosa, sale grosso e nero, carne affumicata, bastoncini per pulire i denti, perfino topi morti, legati uno sopra l’altro a mo’ di filza: tutto serve per chi ha davvero fame e per racimolare qualche soldo. E nell'aria, il fetore caratteristico delle fogne a cielo aperto e dei bassifondi fumosi e maleodoranti, perchè Lagos, con circa 10.000.000 di abitanti quasi ammassati uno sopra l'altro è una città invivibile senza servizi igienici nè fognature.
I primi due giorni li trascorriamo affannandoci dietro ad appuntamenti mancati o rinviati, traghettati da un capo all'altro della città da una specie di autista che guida, in modo spericolato sia per la nostra che per l’altrui incolumità, un'auto con i finestrini sempre aperti e in condizioni meccaniche e di carrozzeria, a dir poco, precarie.
Al terzo giorno sono costretto ad iniziare una cura di antibiotici per cercare di sconfiggere un fortissimo mal di gola causato dagli scarichi fumosi di migliaia di autoveicoli e motorini che si spingono in un traffico infernale e assordante, usando come combustibile qualsiasi cosa che possa bruciare in un motore.
Reclutiamo anche una guida di fiducia, un seminarista, e iniziamo a conoscere meglio molti luoghi del centro-sud di questo paese.
Luoghi che, a volte, hanno segnato tristemente, la storia della Nigeria. Come non ricordare la tragedia del Biafra con i suoi innumerevoli morti per fame, a causa di una guerra assurda, come sono assurde tutte le guerre, che tagliò, per un ponte abbattuto, i viveri ad una intera regione. O la tragedia dell'etnia Ogoni culminata con l’arresto e l’impiccagione, avvenuta solo due anni e mezzo fa, il 10 novembre 1995, del giornalista Ken Saro-Wiwa e di altri otto suoi amici pacifisti del Movimento per la Sopravvivenza del popolo Ogoni. Unica accusa, la protesta inscenata contro le multinazionali petrolifere, prima, tra tutte, la Shell, che, per estrarre il petrolio, in connivenza coi governanti nigeriani, stavano distruggendo e hanno distrutto, una intera regione e annientato una intera etnia.
Ci siamo spostati a Onitsha, nel sud-est del paese, è sera, vogliamo chiedere ospitalità presso una missione di padri comboniani di cui abbiamo l’indirizzo. Tiriamo una corda e suoniamo una campanella. Al cancello ci accoglie una persona armata di fucile. Si tratta del guardiano e non è l'unico, sono in tre e tutti armati. Devono sorvegliare l'intero perimetro della missione per tenere lontano le bande di delinquenti che agiscono soprattutto di notte. Dicono che c'è pericolo di attacchi da parte di gruppi armati e senza troppi scrupoli. E' già successo una volta e pensano che potrà succedere di nuovo. Anche qui si pensa che i maggiori responsabili di questi attacchi siano, come al solito, i poliziotti, che non esitano un attimo ad uccidere anche per poche lire. E' per questo che, all'imbrunire, conviene sempre essere ben chiusi dentro le case che sono attrezzate con sbarre, lucchetti e cancelli come in una prigione. Addirittura chi possiede un televisore lo mura al pavimento con dei grossi tondini di ferro, lo abbiamo visto con i nostri occhi.
RELIGIONI AFRICANE
Oshogbo, a circa 300 km. a nord-est di Lagos, è un centro importantissimo per i seguaci della religione tradizionale. L'attuale e principale sacerdotessa è una sorta di santona di origine austriaca: Suzanne Wenger. Sono oltre cinquanta anni che vive in Nigeria ed è sposata con un nigeriano. In una giornata grigia e piovigginosa vieniamo accompagnati nella foresta sacra. Templi dedicati alle divinità yoruba e incredibili e ardite sculture in cemento armato, alcune alte anche venti metri, ci sovrastano tra la vegetazione bagnata dalla pioggia. Hanno sembianze metafisiche e animalesche: alcune con volti d’insetto altre dall'aspetto più umano ma con dei falli enormi.
E tutto intorno, recipienti grandi e piccoli che contengono, ci dicono, acqua sacra.
Dopo una buona mezz'ora di cammino, giungiamo in una radura. Veniamo introdotti in un recinto molto ampio al centro del quale è eretto una specie di tempio completamente affrescato sulle pareti esterne. E' dedicato a Oshuno la dea del fiume. Ci sono alcune sacerdotesse. Una di queste, molto abbondante, è vestita con un caratteristico abito africano, di colore rosso. Ha decine di collane, decine di anelli, decine di braccialetti, tutti in rame e ottone. Ci fanno accomodare in una sorta di patio antistante il tempio. Qui, mentre la pioggia è aumentata, al suono ritmico e incessante di una campanella, agitata da una delle due sacerdotesse, ci fanno togliere le scarpe: segno questo di rispetto per il luogo sacro.
E così, inzuppati d’acqua più che mai e con i piedi che affondano nel fango, mentre le sacerdotesse pregano in una lingua per noi incomprensibile, veniamo battezzati con acqua sacra e accolti alla nuova religione che, da ora in poi, avrà due adepti in più.... Questo è il pedaggio che dobbiamo pagare per poter intervistare e fotografare questa sorta di "santona" austriaca che la gente del posto chiama "l'adorata".
A parte la religione animista che è diffusa un po' in tutta l'Africa, in Nigeria convivono anche altre religioni come la religione cristiana, i musulmani, che sono la maggioranza, e gli islamici. E non sempre, purtroppo, come spesso accade, tra mussulmani e i cristiani, si vive d’amore e d’accordo, tutt’altro....
C'è poi una enorme proliferazione di “chiese” e di "sette"di ogni genere e natura, con santoni, sacerdoti e profeti.
Da alcuni giorni, siamo rientrati di nuovo alla base provvisoria al centro di Lagos, ospiti dei nostri preti nigeriani. E’ notte fonda e, dopo essere riusciti faticosamente a prendere sonno a causa del caldo insopportabile, veniamo svegliati dal suono di una campanella che chiama a raccolta. E' passata la mezzanotte e c'è una bella luna piena, ma sarebbe anche l'ora di dormire. Ci alziamo e, da una finestra, cerchiamo di vedere cosa stia succedendo.
E’ una donna vestita di bianco, al centro di un cortile, che suona una campanella, ondeggiando il braccio avanti e indietro. Dal cancello, che è socchiuso, entrano lentamente uomini e donne, anch'essi vestiti con una specie di saio bianco, probabilmente degli adepti di una qualche religione. Prendono posto schierandosi tutti con la faccia rivolta in alto, verso la luna. Inizia così una serie interminabile di canti, accompagnati dal battito ritmico e ossessivo delle mani, di queste persone, una cinquantina che, a squarciagola e sempre con lo sguardo rivolto verso la luna piena, pregano il loro Dio. Sulle prime restiamo sorpresi, poi cerchiamo di riprendere sonno, ma è impossibile.
Dopo un illusorio attimo di quiete, riprende, questa volta ancora con più veemenza, la confusione. Ognuno grida, per proprio conto, sempre rivolto alla luna, delle lunghe filastrocche a noi incomprensibili, completamente diverse l'una dall'altra. Si va ancora avanti per una buona mezz'ora, poi, lentamente, tutto si placa. Guardiamo speranzosi dalla finestra e scorgiamo gli adepti tutti sdraiati per terra nelle pose più strane, come in trance. Ne approfittiamo per cercare di riprendere sonno, ma non dura molto; alle cinque del mattino riprendono di nuovo e con maggior lena, cantilene, campanella, battiti di mani, il tutto in attesa dell’alba ormai prossima.
La notte successiva, alle ore una circa, sentiamo urlare in lontananza e abbiamo l'impressione che ci sia un litigio. Sono due uomini e urlano a turno, uno in una lingua a noi sconosciuta, probabilmente yoruba, e l'altro in inglese, lunghe filastrocche e imprecazioni. I due si stanno dirigendo, mentre continuano a sbraitare, in direzione delle nostre finestre. Ci alziamo e, cercando di non farci vedere, osserviamo. Non stanno litigando, anzi, si tengono per mano e gridano all'indirizzo di quelli che stanno dormendo, frasi forti e sibilline, come: "...pentitevi, la fine del mondo si avvicina!", "...chi ha fatto il male, avrà il male !", “...pregate, le preghiere aprono le porte del paradiso!” e così di seguito. Sono, questi, i nuovi profeti che la notte imperversano nei sobborghi di Lagos per urlare le loro profezie ai disgraziati e diseredati che cercano faticosamente di dormire , perché si pentano e ritrovino la retta via.
CRISTIANI AFRICANI
Ma anche nelle chiese cattoliche si prega ininterrottamente fino a notte fonda.
Alle tre o anche quattro messe quotidiane feriali, seguono numerose messe festive al termine delle quali, si formano decine di gruppi che hanno nomi come “Legionari di Maria” o “Discepoli di Cristo Re”, che si collocano in ogni dove, perfino sul tetto della chiesa in costruzione, per recitare preghiere e rosari a ripetizione, in attesa di prendere un'altra messa e così di seguito. Abbiamo chiesto ad uno dei tre preti nigeriani, presso i quali siamo ospiti, cosa ne pensa: "Non posso certo mandarli via" ci ha risposto, "Ho provato a dire alla gente che non possono fare affidamento solo su Dio per risolvere i loro problemi! Dico anche loro continuamente che Dio ha dato loro gambe, braccia e cervello: che lo usino! Ma non serve a niente, molti continuano a passare tutto il loro tempo in chiesa solo per pregare, anziché andare a cercare un lavoro o ad occuparsi della famiglia!"
Questa specie di fanatismo religioso in tutte le forme, questa proliferazione di sette, di chiese, di santoni, di nuovi profeti è, forse, un segnale di impotenza verso la mancata soluzione dei moltissimi problemi che affliggono questa gente che, in queste situazioni, non trova di meglio da fare che attaccarsi a tutto, come la preghiera e la religione, qualunque essa sia, pur di sopravvivere.
LA SOMMOSSA
Mercoledì 8 luglio 1998. Sta per scatenarsi una tragedia: è morto, in nottata, Moshood Abiola, lider dell’opposizione e capo carismatico dei nigeriani. E' morto in prigione dove era stato incarcerato dopo aver vinto le elezioni del 1993, forse le uniche elezioni democratiche del paese, dopo un trentennio di regime militare. La diplomazia internazionale stava faticosamente trattando la sua liberazione che sembrava ormai prossima quando, si dice, un infarto lo ha stroncato. Altri invece, inclusa la figlia, parlano di avvelenamento. Nella nottata la radio aveva già diffuso la notizia, ma la quasi totalità della popolazione apprende l'accaduto, al mattino, dai giornali. Lentamente, ma progressivamente, si crea un frettoloso, quasi isterico, andirivieni.
I volti sono attoniti, sbigottiti: poche parole quasi sussurrate e sguardi che, freneticamente, vagano in ogni dove. I venditori ambulanti sparsi lungo la strada tolgono velocemente le poche, misere cose esposte e si allontanano mentre i commercianti chiudono i loro negozi. Nei volti si legge tensione e angoscia mentre, gradatamente, da lontano, si avverte, sordo, un rumore che monta sempre più e un vociare confuso di folla che diventa sempre più forte. Siamo al cancello di una missione salesiana. Intanto ci ha raggiunto l'autista che, con la solita auto sgangherata, ci è venuto a prendere perchè dovremmo partire. Lui stesso e gli altri che sono con noi alla missione ci consigliano vivamente di non farlo: tutto il paese è bloccato e stanno iniziando dei disordini. Obbediamo volentieri e restiamo nei pressi del cancello per renderci conto, per quanto possibile, della situazione.
Passano dei giovani. Molti sono armati di machete. Qualcuno, con un sorriso forzato, cerca di tranquillizzarci assicurandoci che serve solo per tagliare l'erba... si, ma dove?...
Siamo perplessi e impauriti e restiamo addirittura "gelati" da una frase pronunciata dal guardiano della missione, un omino piccolo e rinsecchito, che è, assieme noi, al cancello: "Ora tutti contro tutti, a questo punto siamo pronti anche a morire!". Lentamente si comincia a sentire nell'aria un odore acre di bruciato, soprattutto di pneumatici. Non so cosa fare e, per cercare di scaricare la tensione, mi allontano dal cancello e mi metto a lavare due magliette e un paio di pantaloni ma sempre con le orecchie bene aperte.
Intanto si diffonde la notizia che i disordini e la protesta aumentano e che la polizia ha l'ordine di sparare sui dimostranti. Mi avvicino di nuovo al cancello che, nel frattempo, è stato chiuso con tanto di catene e lucchetti. Molte auto sfrecciano a tutta velocità con il clacson spiegato e le luci accese. Si odono, in lontananza dei colpi sordi, sono spari. E' l'inizio di un’altra tragedia. In una dittatura, come non esiste la cultura del dialogo, del confronto, della libertà di idee, del rispetto reciproco, è difficile, se non impossibile, che esista la cultura della dimostrazione pacifica, così, la contestazione, si trasforma in sommossa, rivolta, guerra civile.
I dimostranti avanzano, protestano, incendiano, distruggono.
La polizia e l'esercito sparano. Sono passati poco più di due anni dalla dimostrazione pacifica del giornalista Ken Saro-Wiwa e qui, tutti, si ricordano come è finita: con l’impiccagione sua e dei suoi amici che dimostravano assieme a lui per una causa giusta!
Il giorno dopo, assieme ad un odore pungente di bruciato, restano dei macabri trofei: carcasse di auto incendiate, pali dell'energia elettrica abbattuti, porte sfondate, fori di proiettili, qualche scarpa e sangue mescolato all'acqua che sgorga dalle tubature spaccate. I corpi sono stati subito rimossi. I giornali ufficiali stimano in circa 50 i morti negli scontri , ma il corrispondente nigeriano dell'agenzia Reuter, da noi contattato, afferma che i morti sono almeno 200 e per lo più studenti.
Le scuole restano chiuse per alcuni giorni. L'energia elettrica tornerà dopo molto tempo e così l'acqua.
I trasporti pubblici e privati sono bloccati per mancanza di carburante e pensare che la Nigeria è il maggior produttore di petrolio di tutta l’Africa!
Poi tutto riprende, almeno in apparenza, come prima. Per noi sarà sempre più dura. I controlli ai posti di blocco si fanno più frequenti e minuziosi, sempre circondati da militari in assetto di guerra, con le armi spianate e con tanto di bombe a mano appese ai giubbotti antiproiettile. E’ quasi impossibile muoverci. Non possiamo dichiaraci giornalisti o fotografi, non vogliono sapere ne di giornalisti, ne di fotografi...
E neppure il nostro visto turistico è tranquillizzante. Nessuno crede, infatti, che siamo dei turisti. Ai posti di blocco continuano a chiederci: "Ma che ci fanno dei turisti, qui in Nigeria, proprio in questo momento?"
CAMEROUN
II 14 luglio, anche se con otto ore di ritardo, saliamo finalmente sull'aereo Lagos/Douala e inizia così l'avventura camerunense.
Qui il clima politico è nettamente migliore anche se esistono delle forti contraddizioni, a dir poco, strane.
In Cameroun esistono i lamidi e i lamidati, che sono l'equivalente dei sultani e dei sultanati nigeriani..
Il lamidato , cioè, il territorio, è suddiviso in varie provincie ed è governato con una struttura piramidale.
I lamidati più importanti e che hanno maggiori poteri, sono al Nord. Il lamido vive con tutte le sue mogli (anche quaranta e oltre), figli, dignitari, servitori, ecc., all’interno di un grande recinto territoriale detto sarè.
E' paragonabile al palazzo reale ed è una vera e propria città, circondata da un alto e grosso muro di terra battuta, rinforzato da pali di legno. La cosa sorprendente, in questo sistema islamico di tipo feudale creato dai cavalieri fulbe nel 1804, è che, al servizio delle mogli del lamido, ci sono ancora gli eunuchi che circolano per il sarè ed anche fuori, vestiti solo di un perizoma bianco. I futuri eunuchi sono, per così dire, "forniti" alla corte del lamido da famiglie preposte a questo scopo e che si sentono anche onorate di farlo. Queste cedono il bambino all'età di 10/12 anni. Subirà, poi, la mutilazione necessaria e sarà accuratamente istruito ai suoi obblighi e ai suoi doveri, entrerà a far parte della "corte" del lamido, e diventerà un fedele servitore di una delle sue mogli. Ci siamo recati nel lamidato di Rey Bouba dove vive uno dei lamidi più tristemente potenti del Cameroun. Ci si arriva dopo oltre due ore di pista attraverso il parco naturale del Benouè, popolato da antilopi, scimpanzé ed elefanti.
Percorriamo, con la jeep, lentamente, dall'esterno, tutto l'imponente recinto di questo complesso abitativo e ci fermiamo davanti ad una grande porta che è l'unica via di accesso al sarè. C'è un continuo via, vai di persone: uomini, donne bambini, eunuchi, commercianti con la mercanzia sulla testa. Un fatto singolare colpisce la nostra attenzione. Tutte le donne, prima di varcare la grande porta, si scoprono il seno, così ci dicono, in segno di devozione e sottomissione al lamido loro signore. Si ricoprono poi all'uscita del recinto. Un fatto importantissimo e allucinante è che questi lamidati sono un vero e proprio stato nello stato. In Cameroun la pena di morte è sospesa: nel lamidato di Rey Bouba, no!
Il lamido gode dei privilegi riservati alle autorità locali e detiene, come in questo caso, potere decisionale anche a livello giuridico/tribale e sovraintende tutti i processi della sua giurisdizione dove è giudice unico e inappellabile: può emanare condanne a morte e fare eseguire la pena. Infatti, a Tchollire, un paese vicino a Rey Bouba, ci sono fontane e le cisterne piene d’acqua, ma le fontane sono rigorosamente chiuse perché il lamido, per motivi, si dice, campanilistici, non ha ancora dato l'autorizzazione all'erogazione e all'uso dell’acqua, così gli abitanti, tutti i giorni, anzichè aprire un rubinetto nella piazza, devono fare chilometri a piedi per procurarsela.
LO STREGONE DEL GRANCHIO
Molto più a nord, al confine con la Nigeria, sui monti Mandara, a circa 1200 metri di altezza, vive una popolazione molto interessante: i Kapsiki. Agricoltori tenaci, riescono a far crescere, tra le rocce, miglio, sorgo, mais. Vivono in capanne rotonde dalla caratteristica punta alta e aguzza che ricordano, all'occhio, il paesaggio montuoso circostante. Le donne usano portare, con orgoglio, un copricapo singolare che è ricavato dalla metà svuotata e seccata di una zucca e che viene mantenuta sempre molto lucida.
Abbiamo sentito parlare che, in questa zona, c’è un personaggio molto importante e siamo andati a fargli visita, è chiamato “lo stregone del granchio". Un uomo vecchissimo, dalla folta barba bianca, sorridente, ci accoglie in piedi sulla soglia della sua abitazione. Dopo averci dato la mano, si siede all'esterno della casa e noi restiamo in piedi davanti a lui: ha in mano una specie di scacciamosche ricavato dalla parte terminale della coda di una vacca e lo agita qua e la più per abitudine che per necessità.
Interpreta il futuro con l’aiuto di un grosso granchio. Legge infatti le tracce che questo granchio, spostando dei piccoli pezzi di zucca seccati, lascia sulla sabbia raccolta in un grosso vaso di argilla. Al granchio, ogni volta, prima di iniziare il suo lavoro, a parte qualche raccomandazione sussurrata dolcemente, viene riservato un sonoro sputo, come una benedizione sui generis e, solo dopo, viene adagiato sulla sabbia umida, assieme ai piccoli pezzi di zucca secca. Viene lasciato lavorare al buio per qualche minuto ricoprendo il recipiente con il granchio con un vaso vuoto rovesciato. Libero di girovagare, attraverso i pezzi di zucca e cercando una improbabile via di uscita, lascia innumerevoli impronte, tessendo, in questa maniera, il futuro altrui.
IL NAUFRAGIO
Il giorno dopo, di buon mattino, partiamo per raggiungere una località un po' distante ma sempre nella zona dei monti Mandara. Abbiamo con noi solo la fotocamera, una borsa con gli appunti ed un piccolo registratore audio: la sera dobbiamo rientrare. La giornata è buia e non promette niente di buono e da li a poco comincia a piovere con una certa intensità: pioverà per tutto il giorno. Assieme a noi, oltre all’autista che è un mussulmano con la tonaca e la zucchetta, c’è anche una guida. Siamo in cerca di testimonianze su una specie di guaritore del luogo famosissimo e venerato, morto da poco tempo ma che ha lasciato un ricordo molto vivo. Stiamo fuori una intera giornata, ma non abbiamo fortuna.
Al ritorno, abbiamo problemi di stabilità sulla pista piena di enormi buche e resa scivolosa dall'abbondante pioggia e dobbiamo anche attraversare quelli che qui chiamano mayo. Sono dei fiumi secchi nel periodo asciutto, ma molto pieni d'acqua, nel periodo delle piogge. Li avevamo attraversati al mattino, praticamente asciutti. Di li a poco, davanti a noi si presenta il primo di questi mayo che non è, fortunatamente, molto largo. Siamo ai piedi delle montagne e la corrente è abbastanza forte. La nostra jeep ha quattro ruote motrici e l'autista, ci sembra esperto.
Gino ed io non vorremmo attraversare ma l'autista assicura che possiamo provare e noi non opponiamo molta resistenza e, lentamente, attraversiamo: ha ragione lui anche se un po' d'acqua è penetrata nella vettura bagnandoci abbondantemente i piedi. Io, intanto, ho chiuso bene la borsa della fotocamera e me la sono messa sulle ginocchia. La pioggia, che cade da un cielo sempre più nero, anche perchè sta facendo notte, non accenna a diminuire. L'autista ci fa presente che, tra poco, troveremo un altro di questi mayo molto più largo del precedente, ma, dice lui, meno profondo.
Quando arriviamo nei pressi, vediamo davanti ai nostri occhi un vero e proprio fiume in piena, con acqua limacciosa e una corrente fortissima che trascina a valle tronchi d'albero e matasse di stecchi e pruni. Gino ed io siamo dell'idea di fermarci e di aspettare fino a quando la situazione non sia nettamente migliorata. Mentre comincia a fare ancora più notte, il nostro autista scende, scruta il fiume, fa qualche passo immergendosi con le scarpe e i pantaloni fino a oltre il ginocchio, risale in macchina e dice: "On va a essayer" (Proviamo...). Noi siamo molto perplessi e lo dimostriamo apertamente. Ma l’autista e la guida insistono. Con le marce ridotte, lentamente, le jeep si immerge nell'acqua e, immediatamente, ci rendiamo conto che stiamo avanzando su un fondale viscido e cedevole. Prima di iniziare l’attraversamento abbiamo caricato sul cassone dell'auto un motociclista con la sua moto in panne e due persone con dei grossi sacchi di patate che erano tutti fermi ai margini del fiume in piena: in tutto facciamo sette persone più le patate e la moto. lo sono seduto accanto all'autista e Gino è dietro a me, accanto alla guida, gli altri sul cassone.
L'acqua comincia a penetrare copiosa all'interno dell'abitacolo. La borsa della fotocamera è già sulle mie ginocchia e mi metto al collo anche il marsupio che si trova sul cruscotto e dove ho il passaporto il danaro e la carta di credito. Ho molta paura e temo che da un momento all'altro succederà qualcosa... La jeep continua ad avanzare lentamente mentre l‘acqua ricopre i nostri piedi e, quando siamo nel bel mezzo del guado, improvvisamente, sprofonda e la corrente la trascina via. In un attimo, mille e più pensieri su cosa fare o non fare, mi si affollano nella mente. L'autista preme a fondo l'accelleratore e le ruote girano pressoché a vuoto. Stiamo, in pratica, navigando, in linea obliqua mentre la corrente ci trascina a valle. Abbasso velocemente il finestrino e, mentre mi getto, con i piedi, fuori dell'auto, appoggio la borsa della fotocamera sul sedile e così, mentre la parte posteriore della jeep viene ricoperta velocemente dall'acqua, mi calo completamente fuori, restando appeso, con l'ascella sinistra, allo sportello dell'auto. Oltre all'acqua che è fredda, ho paura che, da un momento all'altro, la jeep mi si rovesci addosso. Improvvisamente e per fortuna sento la terra sotto i piedi. Approfittando che, in pratica, in quel momento, la vettura mi sta proteggendo dalla corrente, prendo, dal finestrino, la borsa della fotocamera e, col marsupio al collo, guadagno la riva. Abbandono il tutto velocemente e ritorno indietro per aiutare gli altri. L'autista continua a tenere in moto il motore e le ruote girano vorticosamente nell'acqua: la jeep viene verso di me. Gino, che si trovava seduto dietro di me, nel frattempo ha aperto anche lui il finestrino, ed è salito, con il piede sinistro sullo sportello posteriore e il piede destro su quello anteriore e si sta reggendo al tetto. Mi passa la sua borsa con il registratore e gli appunti di tutte le interviste, salta nell'acqua e guadagna la riva.
Intanto sul cassone della jeep la situazione è tragica. A parte le patate che sono irrimediabilmente perdute e i rispettivi proprietari che si sono messi in salvo sulla riva, resta il motociclista con la sua moto: è completamente immerso nell'acqua fino al collo e si intuisce che sta trattenendo a stento la motocicletta per sottrarla alla forza dell'acqua. Andiamo tutti in suo aiuto e, con molta fatica, riusciamo a strappare entrambi, motociclista e moto, alla forza della corrente e a depositarli sulla riva. Nel frattempo la jeep ha attraccato sulla sponda del fiume con le ruote motrici anteriori che girando vorticosamente hanno scavato due solchi nei quali, fortunatamente, si sono ben piantate. Il motore viene spento e anche l'autista e la guida sono salvi. Non possiamo dire altrettanto della jeep perché la parte posteriore è tutta sott'acqua e temiamo che, da un momento all'altro, la corrente la trascini via.
E' ormai notte e sta continuando a piovere. Siamo pieni di fango, bagnati fradici e cominciamo ad avere un freddo boia. Io di tanto in tanto avverto dei brividi e indosso quel poco che ho con me: un impermeabile.
A notte fonda, mentre ha cessato di piovere e l’acqua del fiume ha diminuito la sua intensità, con l'aiuto di un intero villaggio, la vettura viene recuperata. Riprendiamo il viaggio in condizioni pietose. Dentro l’auto c’è solo melma e noi siamo talmente inzuppati e sconvolti che non riusciamo a scaldarci anzi continuiamo ad avere un freddo cane. Dopo circa un'ora e mezza, rientriamo alla base, a Maroua. Entro completamente vestito sotto la doccia e lavo me stesso, i vestiti, le scarpe, i calzini. La doccia è calda e, in quelle condizioni e dopo quello che abbiamo passato, è una delle cose più belle che la vita ti possa offrire. Resto sotto l'acqua un tempo lunghissimo, incalcolabile. Non si cena, è troppo tardi. Vado a letto e dormo ininterrottamente per nove ore.
I PIGMEI BABINGA
A sud del Cameroun, vicino al confine con la Guinea Equatoriale, nella foresta pluviale, vivono gli ultimi nuclei di pigmei Babinga. Da Ngompem a Ndabagyeli, dove c'è un accampamento, ci sono circa sei ore di pista. Partiamo prestissimo. Piove e l'ultimo tratto è quasi un viottolo e la jeep si apre lentamente la strada tra la folta vegetazione. Finalmente, alla nostra sinistra si apre una radura, lasciamo la jeep e continuiamo a piedi. Poco più avanti, seminascoste dalla vegetazione, scorgiamo alcune capanne di tronchi e paglia. Durante il tragitto abbiamo reclutato un giovane che parla un buon francese e, cosa ancor più importante, la lingua dei pigmei: ci farà da interprete.
Queste capanne dalla pianta rettangolare, sono costruite da pali in legno e grosse canne di bambù, il tetto, invece, è di paglia e molte foglie. Pigmei di altre etnie, come i Bambuti usano, invece, capanne tonde a cupola, costruite interamente da larghe foglie embricate tra loro. Notiamo che l'insediamento è popolato solo da donne, bambini, vecchi e da qualche adulto malato (per lo più di malaria). Tutti gli altri sono a caccia, nella foresta. I pigmei non vivono in veri e propri accampamenti, ma in piccoli gruppi di capanne un po' isolate tra loro. I vari gruppi di una certa zona formano un clan. E' sposandosi tra clan che i pigmei hanno conservato, sino ad oggi, la peculiarità delle loro caratteristiche somatiche, come la loro altezza, che varia da un metro e trenta a un metro e quaranta di media. Da un po' di tempo, però, i matrimoni avvengono anche e soprattutto con tribù nere di altre etnie e si ha ragione di pensare quindi che, anche questa razza che ha caratteristiche morfologiche uniche, ben presto, muterà la propria fisionomia. Con noi si sono mostrati molto cordiali ed ospitali. Entriamo in una capanna e ci sediamo sopra una specie di panca fatta di canne di bambù. La capanna è formata da due locali. Il più grande è l'ingresso/soggiorno dove, al centro, c'è un fuoco che è sempre acceso. L'altro locale, separato da un divisorio sempre di canne di bambù, è la zona notte dove, in terra, sono sistemate ampie foglie di banano e paglia: sono questi i giacigli dove dormono i pigmei.
Sul fuoco è appesa una gabbia di medie dimensioni fatta da listelli di canna: serve per affumicare la selvaggina cacciata e poterla così conservare nel tempo. Il fumo si diffonde dentro tutta la capanna per filtrare poi, all'esterno, attraverso il tetto.
I pigmei sono cacciatori da sempre. Uccidono a mangiano tutto quello che si muove e che è a portata di freccia: dall'antilope al topo, dal serpente alla scimmia. Ci mostrano le frecce ricavate da listelli della canna di bambù: sono molto corte, circa 30 centimetri e vengono sparate da una balestra di legno abbastanza rudimentale, ma molto efficace, che loro costruiscono. Le punte delle frecce vengono avvelenate con il succo estratto dalle radici di una particolare pianta che cresce nella foresta: lo strofanto. Usato, un tempo, in medicina come cardiotonico, provoca, ad alte concentrazioni, la morte, per paralisi cardiaca.
I pigmei oltre che di caccia, vivono di raccolta. Essi si cibano di tutto quello che, di commestibile, la grande foresta, loro possa offrire: frutti selvatici, funghi, lumache, lombrichi, ecc. Sono anche abilissimi a stanare le termiti e a catturarle anche prima dello sciame. Dopo aver praticato un foro nel termitaio, ci soffiano dentro del fumo che irrita le termiti le quali scappano velocemente verso il foro e quindi verso l’esterno e il gioco è fatto. Restiamo affascinati da questo popolo che, praticamente, è fermo all'età della pietra. Non conosce la lavorazione del ferro né l'accensione del fuoco (il fuoco è sempre acceso ed ogni capanna ha il proprio). Non usano il danaro e praticano ancora il baratto con le altre tribù nere: cedono selvaggina in cambio di vasellame, stoffe, utensili in metallo come coltelli o asce.
Improvvisano una specie di esibizione e, suonando degli strumenti a percussione rudimentali, intonano un loro canto mentre i bambini, agghindati con foglie, cominciano a danzare. Intanto, dalla foresta, rientra un giovane pigmeo: ha in mano un grosso granchio. Lo adagia su una foglia e lo avvolge accuratamente, poi lo mette a cuocere accanto al fuoco, come fosse al cartoccio. Questa è la sua succulenta leccornia di quest'oggi. Barattiamo delle cose con i pigmei: doniamo loro compresse di vitamine, aspirina, caramelle e bigiotteria in cambio delle frecce, della faretra e di uno strumento musicale da loro costruito. E' composto da una cassa armonica di legno con un foro centrale sulla quale sono fermate molte linguette sottili di bambù di varie lunghezze. Viene suonato pizzicando, con i pollici, queste linguette. Non gradiscono invece, le penne a sfera, che rifiutano: non sanno scrivere e non vanno a scuola, sono, quindi, per loro, inutili. Avrebbero, invece, gradito molto, del tabacco o delle sigarette; non ne abbiamo neanche un po', non fumiamo e non lo abbiamo acquistato.
Sono invece molto riluttanti a donarci una freccia avvelenata che chiediamo con insistenza, forse perché, pensano, che dei bianchi faciloni e inesperti abbiano a ferirsi con conseguenze infauste... e non hanno tutti i torti perchè, con una di queste frecce, si può uccidere un’antilope di 70/80 kg. Poi, tra mille raccomandazioni, cedono alla nostra insistenza e ci donano, assieme ad altre frecce, anche la freccia avvelenata, assieme ad una faretra ricavata in una canna di bambù. Ci stacchiamo a malincuore da questo popolo spontaneo, ospitale ed essenzialmente felice, ma è tardi e bisogna rientrare. Molti pensieri mi affollano la mente. Alle soglie del terzo millennio, ci sono ancora dei popoli che, come gli antichi cacciatori neolitici, vivono nella foresta e della foresta.
Ma ancora per quanto? Temiamo che, sia a causa degli inquinamenti genetici con le altre tribù nere, sia per la crescente e incontrollata deforestazione, queste etnie, siano a forte rischio di estinzione. Auguriamoci e impegniamoci perché questo non accada, affinchè possiamo ancora avere, in futuro, la possibilità di fruire della loro esemplare e semplice accoglienza, della loro essenziale ma ricca cultura e delle loro ancestrali tradizioni.
Sull'aereo che ci riporta a casa, facciamo un rapido calcolo dei chilometri percorsi, tra Nigeria e Cameroun, in un mese: sono circa 9.000, dei quali 4.500 per spostamenti aerei e altrettanti fra auto e jeep.
Roberto Giovannini - 1998