GOMA - EX ZAIRE - 8 gennaio 1991 -
La sveglia alle ore 6. Alle 6.30 partiamo dall’Hotel Masque per l’aeroporto che raggiungiamo in un quarto d’ora. Appena il pulmino si ferma siamo circondati da numerosi indigeni che vogliono scaricare i nostri bagagli. Sono troppi; si spingono, litigano, si contendono le nostre borse, tutto questo perché sanno che avranno una mancia.
Finalmente si accordano e quattro di loro ci accompagnano dentro l’aeroporto.
L’aria è fresca. Lì davanti a noi, il Nyragongo, uno dei vulcani della catena dei Virunga, maestosamente, ci saluta.
L’aereo per Isiro, salvo ritardi, partirà alle ore 9,30 e non capiamo perché quelli dell’Agenzia Scibe Zaire ci hanno fatto andare così presto all’aeroporto. Aspettiamo.
Ieri sera non abbiamo cenato e stamattina non abbiamo fatto colazione. All’aeroporto c’è una specie di bar, ma da mangiare non c’è niente, io prendo un the senza zucchero perché non c’è neanche quello! Mangiamo anche una barretta ciascuno, una specie di sussistenza alimentare che ci siamo portati dall’Italia. Anche queste cominciano ad essere molto utili!
L’aereo fa: Goma/Bunia/Isiro, quindi sorvola tutti i vulcani e, per questo, ci hanno detto, sarà un viaggio con molte turbolenze. Intanto continuiamo ad aspettare. Speriamo bene!
Imbarchiamo alle 9.30. L’aereo è un Fokker 27 a elica con motori Rolls, 52 posti. Siamo una quindicina di persone, compreso un “pezzo grosso” nel vero senso della parola: è un generale di stazza notevole con il suo seguito.
Il decollo è senza problemi. L’aereo si alza scoprendo Goma dall’alto e iniziando a sorvolare il lago Kiwu. Non ci è data la possibilità di iniziare ad ammirare appieno il panorama quando, proprio nel bel mezzo del lago Kiwu, l’aereo mette di nuovo fuori il carrello e vira improvvisamente di bordo.
La voce della hostess, in francese, annuncia che a causa di un piccolo problema tecnico è necessario rientrare all’aeroporto di Goma e che, comunque, non c’è nessun motivo per preoccuparsi. Dopo un “petit dejeneur” quasi comico, consumato a terra e offerto dalla compagnia aerea Scibe Zaire, ripartiamo. Intanto è trascorsa circa un’ora.
Alle 11,30 c’è lo scalo di Bunia. Piove.
Il generale, scende, visita, controlla e noi aspettiamo. Finalmente si riparte e arriviamo a Isiro alle ore 14 circa.
Ci attendono P. Giorgio e P. Lwanga. Sempre a causa delle attenzioni riservate da tutto il personale aeroportuale, al generale, i nostri bagagli, ormai dimenticati, tardano ad arrivare. Inoltre, siamo gli unici bianchi che sbarcano: una vera rarità.
Fortunatamente, almeno per ora, siamo a destinazione e ci rendiamo conto di essere veramente in Africa nel vero senso della parola. Quell’Africa “nera” lontana da tutto e da tutti e che molte volte, in passato, ha acceso la nostra immaginazione. Questa è la nostra sensazione e ce lo ripetiamo più volte.
Siamo nel bel centro dell’Africa Nera. Le strade sono piste di polvere rossa e le case sono capanne di fango e paglia.
L’ospitalità dei Padri Comboniani è esemplare. Alla missione, ci hanno lasciato in serbo riso, spezzatino, insalata e frutta.
Usciamo a piedi per Isiro e andiamo a cercare e conoscere tre volontarie italiane dello SVI (Servizi Volontari Internazionali) delle quali avevamo l’indirizzo.
Ne incontriamo una. E’ felice di vedere degli italiani: da queste parti sono “merce rara”,dice. Dobbiamo discutere di un progetto, ma ne riparleremo al nostro ritorno dai pigmei.
Rientriamo alla missione che fa un caldo infernale. Fortunatamente abbiamo la possibilità di fare una doccia che vale un tesoro! Poi tutti a cena: riso di verdura, frittata di patate, che un padre spagnolo chiama “tortillas”, polpette di riso, verdura lessa e insalata. Birra e acqua. Tutto veramente ottimo. Non sarà certamente così, quando saremo nel bel mezzo della foresta assieme ai pigmei.
Ci sediamo fuori all’aperto. Tra una zanzara e l’altra, salta fuori una bottiglia di wisky che avevamo acquistata all’aeroporto di Bruxelles.
E’ apprezzata da tutti i presenti e, mentre ci raccontiamo strane storie e peripezie, ne abbassiamo notevolmente il livello. Ad un certo punto rimaniamo al buio: è il generatore di corrente della missione che viene spento tutte le sere verso le 21. Stasera è stato acceso mezz’ora in più per…gli ospiti.
Ore 21.30 tutti a dormire. Domani dovremo viaggiare verso Bangane, dove c’è una missione comboniana in terra pigmea e dove attrezzeremo la nostra base. Avremo otto ore di pista dura. Ci diamo appuntamento alle 7.15.
- 9 gennaio 1991 -
Veloce colazione e partenza alle ore 7.45. Nemmeno 10 minuti di strada e Giovanni si accorge di aver dimenticato alla missione di Isiro, il caricabatterie per le batterie della telecamera che avevamo usato la sera precedente usando il generatore elettrico della missione di Isiro. Rapido dietro front e via di nuovo.
La pista non consente medie superiori ai 15/20 km l’ora. La Land Rover di P. Lwanga è stracarica: 5 persone più circa 300 kg di bagagli e attrezzature.
Il paesaggio è interessante, la pista un po’ meno. La nostra schiena è messa a durissima prova.
Otto ore in queste condizioni, dove rarissimamente si mette la terza marcia, sono interminabili. Alle 13.30 siamo a Mungbere, tappa intermedia e dove c’è un’altra missione comboniana.
Pranziamo velocemente e soprattutto beviamo molto. Visitiamo l’ospedale di Fratel Romero, medico peruviano. Ci salutiamo, ci rivedremo al ritorno.
Continuiamo il viaggio alla volta di Bangane. Ci addentriamo nella foresta. La pista, se possibile, è peggiorata.
D’un tratto, sulla sinistra, scorgiamo un gruppo di pigmei, ci salutano. Ci fermiamo. Restiamo affascinati. P. Lwanga scambia con loro qualche parola in una lingua per noi sconosciuta.
Scendiamo dalla jeep, siamo increduli. Sono proprio i “nostri” pigmei, quelli che avevamo studiato sui libri prima di partire dall’Italia, sono molto bassi, quasi completamente nudi, ci stringono la mano. Improvvisamente, l’Italia ci appare lontana milioni di chilometri, anni luce addirittura… ma non per questo siamo timorosi, anzi. Siamo così felici di essere immersi in questa nuova ed affascinante dimensione a tal punto, che vorremo che questi attimi non finissero mai.
Ripartiamo con gioia consapevoli che stiamo dirigendoci proprio verso i loro villaggi.
La missione di Bangane ci appare eccezionale, soprattutto dal punto di vista strategico.
E’ al centro di un accampamento di pigmei Bambuti e, la missione stessa è una grande capanna di fango e paglia: di meglio per le nostre osservazioni e documentazioni non potevamo desiderare.
Prendiamo alloggio, tre in una stanza, due nell’altra. E’ notte e accendiamo le luci a petrolio.
Per la cena, delle uova che P. Lwanga conservava nella capanna per ogni evenienza, risultano assolutamente non commestibili e dobbiamo così rinunciare ad una frittata che stavamo preparando. Cuciniamo invece gli spaghetti che abbiamo portato dall’Italia, poi tiriamo fuori un salamino, del formaggio e delle banane (queste rigorosamente africane). Non c’è pane, ma non importa. Beviamo acqua filtrata insaporita con la Limonina, anche questa portata dall’Italia.
Straordinario è il fatto che siamo continuamente circondati dai bambini pigmei: sono curiosissimi, vengono a vedere e spiare tutte le nostre mosse e noi siamo lusingati da tanto interesse. Qui il concetto di privacy fortunatamente non esiste e il guardarti, scrutarti dalle finestre o dalla porta per captare ogni gesto è, per loro, una cosa del tutto normale.
Dopo aver cenato, sempre alla luce delle lanterne, ci sediamo fuori all’aperto sotto una specie di veranda in paglia. Lentamente, dall’oscurità, vediamo avanzare un anziano pigmeo. Forse un capo. Piano, piano ne vengono altri, si avvicinano e si siedono in circolo accanto a noi.
Padre Lwanga, tanto per rompere il ghiaccio (si fa per dire visto che la temperatura è anche ora di circa 35 gradi), tira fuori una bottiglia di acquavite del posto, molto artigianale anche nel sapore che beviamo tutti a turno. Non capiamo nemmeno una parola, ma restiamo affascinati dai piccoli archi e frecce che tutti gli uomini portano sempre con loro.
Ce li fanno vedere e possiamo prenderli in mano e provare a tenderli. Così le frecce e le faretre costruite con corteccia d’albero. Sembra incredibile ma è proprio tutto come avevamo sperato e sognato.
Siamo nel duemila e questo popolo si procura ancora il cibo con l’arco e le frecce.
- 10 gennaio 1991 -
Passiamo l’intera giornata con i Pigmei. Li seguiamo nelle loro occupazioni abituali.
Per noi, un gruppo di donne, inizia a costruire una capanna. E’ una dimostrazione pratica che fotografiamo e filmiamo ma, se vorremo, potremo usarla per le nostre necessità: l’hanno costruita per noi ed è nostra!
Altre donne costruiscono un cesto di vimini. Mentre gli uomini costruiscono archi e frecce, lavorando il legno con scarsissime attrezzature ma in modo esemplare. A volte fumano una strana pipa molto lunga ricavata dal costolo della foglia del banano.
Al tramonto ci addentriamo nella foresta assieme ad una pigmea: va a caccia di termiti e porta con se un machete e un tizzone acceso.
Scovato il termitaio, aiutandosi con un bastone e il machete, fa un foro nella parete. Poi soffiando sui tizzoni accesi riesce ad indirizzare il fumo verso il foro. Le termiti, irritate dal fumo, cercano di uscire e vengono così catturate utilizzando una specie di spazzola che la donna spinge nel foro. Ad una, ad una, sono poi riunite in una larga foglia arrotolata e disposta a mo’ di recipiente. Ogni tanto ne mangia una così come faremmo noi con una nocciolina. La scena è unica e interessantissima.
Al rientro presso la capanna, le termiti sono prima passate nell’acqua, poi pestate in un mortaio. In questo modo si ottiene un olio raro, gradevolmente profumato che serve per insaporire i cibi.
- 11 gennaio 1991 -
Al mattino, molto preso, andiamo alla sorgente a raccogliere acqua assieme alle donne.
Camminano spedite, mentre si dirigono verso la fonte con grossi recipienti sulla testa e zucche vuote sulla schiena.
La sorgente è abbastanza vicina, dentro la foresta. A turno attingono l’acqua avendo cura ci coprire i recipienti con larghe foglie. Quando hanno terminato ripartono tutte assieme, in fila indiana ma camminando sempre speditamente nonostante il carico notevole. Sono illuminate dal sole che si stà alzando e l’immagine è molto bella.
Più tardi andiamo, sempre con le donne, nella foresta a pescare. Questa volta camminiamo molto. Il caldo e l’umidità si fanno sentire. Le attrezzature (telecamera, videoregistratore, cavalletto, batterie, videocassette, fotocamera, pellicole, ecc.) pesano, anche se siamo accompagnati e aiutati da due amici di colore di etnia bantù.
La foresta si fa sempre più fitta e avanzare è sempre più difficile. Le donne pigmee camminano spedite davanti a noi e molte volte devono fermarsi per aspettarci. Non riusciamo in nessun modo a tenere il loro passo.
A un certo punto, in una specie di radura, le pigmee si fermano e raccolgono un po’ di legna. Si siedono in circolo e, con il tizzone acceso che hanno portato con loro, accendono un fuoco.
Verremo poi a sapere che questo è una specie di rito, quasi un “break”, diremmo noi, che si ripete sempre prima di ogni attività come la caccia, la pesca ed altro.
Mettono delle foglie fresche di tabacco vicino al fuoco e mentre il tabacco si secca, costruiscono, con un pezzo di costola della foglia del banano, questa strana pipa che fumano poi a turno fino ad esaurimento del tabacco che dura, peraltro, pochissimo.
Anche a noi viene offerta l’opportunità di fare una fumatine, ma rifiutiamo molto cortesemente.
Nemmeno il tempo di rilassarsi, che si rimettono di nuovo in marcia sempre speditamente.
Il terreno, man mano che avanziamo, è sempre più paludoso e le nostre scarpe affondano sempre di più nella melma. Dopo vari tentativi, visto che affondiamo fino quasi al ginocchio, ci rendiamo conto che le scarpe sono inutili e ostacolano il nostro cammino e quindi decidiamo di toglierle assieme ai calzini. Con i pantaloni rimboccati cerchiamo di continuare ad avanzare, cosa questa che avviene, molto lentamente e faticosamente anche per il forte timore di essere punti da qualche animale che possa trovarsi nel fango. Siamo nel bel mezzo della foresta e giungiamo nei pressi di un ruscello.
Le donne, con fango, rami e foglie, formano una diga di sbarramento. In questa maniera, a valle, l’acqua decresce rapidamente lasciando in ampie pozze e a portata di mano piccoli pesci, granchi, gamberetti che le donne raccolgono velocemente e li mettono in alcuni recipienti che hanno portato.
Rientriamo finalmente e in condizioni pietose alla missione e, dopo una bella doccia, pranziamo.
Qui apprendiamo che una donna pigmea è morta e, nel pomeriggio, ci rechiamo nel villaggio pigmeo della defunta. E’ con noi, oltre a p. Lwanga, anche Pascal che funge da interprete.
Il rito è molto semplice. La donna, che è già avvolta in un lenzuolo, viene avvolta anche in una stuoia. La stuoia viene poi legata e fissata, a mezzo di giunchi, al letto, in legno, della defunta.
Il feretro viene poi issato e portato a spalla verso il luogo della sepoltura. Il corteo è mesto e composto. Quasi tutte le donne, in segno di lutto, hanno il corpo dipinto di grandi strisce bianche. Camminiamo circa dieci minuti e arriviamo in prossimità di una buca profonda almeno due metri. Si avvicinano anche i parenti più stretti che hanno uno strano copricapo fatto di foglie che, oltre al capo, gli copre anche gli occhi. Sono accompagnati ciascuno da un altro parente o da un amico.
La salma, liberata dal letto e sempre avvolta nella stuoia, viene calata nella buca dove, due pigmei, la adagiano sul fondo mentre i parenti stretti, quelli col copricapo di foglie, si sdraiano a terra a volto in giù.
Viene scoperto il viso della morta e, sul volto, vengono sistemate delle foglie, quasi a ricreare un pezzo di foresta, poi la terra cala a ricoprire il tutto. Intanto da un lato, altri parenti, distruggono il letto della defunta e ne spargono, tutto intorno, i pezzi. Rientriamo alla missione.
A notte, ritorniamo nel villaggio dove abitava la defunta: è iniziata la cerimonia funebre. Oltre cento pigmei, sono accovacciati qua e la attorno a molti fuochi, mangiano e discutono fra loro. Dopo un po’ hanno inizio i canti e le danze che si protrarranno fino al mattino. E’ con questo atto definitivo che si conclude in maniera consona la cerimonia funebre.
E’ tutto molto interessante per noi che filmiamo e fotografiamo con l’aiuto di un illuminatore a batterie. C’è moltissima polvere. Ci tratteniamo un’ora e mezza e, a notte fonda, rientriamo, attraversando un paesaggio che, illuminato dai fari della jeep e con ancora nelle orecchie, il suono ritmato dei tamburi, ci appare sempre più misterioso e affascinante.
- 12 gennaio 1991 -
Ci rechiamo presso un altro villaggio pigmeo situato in una radura, ai margini della foresta. Questo è più caratteristico, forse il più “genuino” di quelli che finora abbiamo incontrato. Ha solo capanne di foglie, tondeggianti, a forma emisferica, caratteristiche della cultura pigmea. In altri casi, oltre alle caratteristiche capanne tondeggianti, avevamo visto anche capanne rettangolari, di fango e paglia, ma simili a quelle bantù.
Siamo qui per andare a caccia nella foresta con i pigmei. O, per meglio dire, a seguire i pigmei che stanno per andare a caccia nella foresta.
Di lì a poco, arriva un gruppo di giovani pigmei con archi e frecce. Hanno ucciso uno scoiattolo con una freccia avvelenata che è ancora conficcata in una zampa. Si avvicinano ad un fuoco che è già acceso e passano lo scoiattolo sulla fiamma per bruciargli il pelo. Una volta eseguita questa operazione, gli vengono tolte le interiora e poi viene avvolto in una foglia, e legato ben bene. Viene quindi posto accanto alla brace dove cuocerà, quasi fosse al cartoccio, per circa mezz’ora; dopo di che verrà mangiato.
Assieme ad un gruppo di cacciatori adulti e anche a qualche giovane, tutti rigorosamente muniti di archi e frecce, ci addentriamo nella foresta in fila indiana. Un giovane trasporta il solito tizzone acceso adagiato su una corteccia d’albero. La foresta si fa sempre più fitta. Loro avanzano a piedi nudi e noi li seguiamo con i nostri scarponi da trekking, timorosi ad ogni passo. Abbiamo paura dei serpenti spesso velenosissimi. Il caldo e l’umidità sono allucinanti, si respira a fatica. Siamo così combinati: pantaloni lunghi, calzettoni in spugna di cotone e camicia con le maniche lunghe, tutto questo per cercare di non farci mordere dagli insetti e da quant’altro popoli la foresta, impresa questa, nonostante le precauzioni, non facile. Siamo stanchissimi.
Giunti in una specie di piccola radura, tra gli alberi, ci fermiamo. Col tizzone e con dei rami raccolti tutto intorno, i pigmei accendono un fuoco sul quale vengono poste anche delle foglie verdi che provocano molto fumo. Lentamente e a turno, vengono passati gli archi sul fumo, seguiti da prove di tiro, senza freccia, tendendo l’arco e poi ancora altri passaggi sul fumo fino a quando sembra che gli archi siano pronti per scoccare la freccia. Non manca la solita fumata collettiva di pipa, con le stesse modalità di quella che avevamo già osservata, prima della pesca, con le donne pigmee.
Si organizzano per la battuta di caccia. I battitori procedono a semicerchio facendo fracasso e grida strane. Anche i cani con i loro campanacci di legno legati al collo contribuiscono alla battuta.
Intanto i cacciatori, con archi e frecce avvelenate, si muovono dall’altro lato con circospezione ed in assoluto silenzio. Stanno aspettando la selvaggina che i battitori scacciano verso di loro. Purtroppo non hanno fatto i conti con la nostra presenza: non sappiamo muoverci nella foresta e non siamo affatto circospetti e il maneggiare le nostre attrezzature provoca, inevitabilmente, rumore: nonostante tutti i nostri sforzi, non riusciamo a rimanere silenziosi.
Probabilmente, oltre a questo, non abbiamo tenuto conto di un altro fattore importante. I pigmei hanno un odore caratteristico di selvatico. Non li abbiamo mai visti lavarsi, nemmeno, quando dovevano accostarsi all’acqua. Probabilmente questa caratteristica è funzionale all’ambiente in cui vivono. Si dice che loro abbiano un repellente naturale (questo odore di selvatico) per cui non vengono punti da insetti, mentre noi nonostante tutti gli insettifughi che usavamo eravamo pieni di punture.
Per quanto riguarda la caccia nella foresta, l’odore dei pigmei non viene percepito come odore anomalo, dagli animali della foresta, mentre il nostro odore è indubbiamente un odore diverso che mette in guardia gli animali selvatici. E’ per questo motivo che nonostante tutto l’impegno possibile, con noi presenti, i pigmei non sono riescono a cacciare neppure una preda. Ma l’aver partecipato e vissuto la battuta di caccia con i pigmei, in una foresta per noi impenetrabile e ostile, ma per loro casa e madre comune ci affascina e ci rende consapevoli di aver vissuto momenti indimenticabili e irripetibili. Dopo qualche ora, mentre i cacciatori continuano la battuta, due bambini pigmei, ci riaccompagnano al villaggio di partenza. E’ superfluo dire che per noi sarebbe stato impossibile ritrovare la via del ritorno e siamo assolutamente certi che ora, senza la nostra presenza, i cacciatori pigmei, faranno una buona caccia.
Al villaggio, le donne, ci offrono riso, “pondù” (manioca macinata e cotta) e acqua. Prendiamo solo una piccola manciata di riso per dovere di ospitalità. P. Lwanga, invece si attarda a mangiare un po’di più.
Nel pomeriggio ci rechiamo da uno stregone pigmeo, una specie di guaritore. All’ingresso del suo villaggio, sopra un pezzo di tavola, c’è una scritta in “lingala”, una delle lingue ufficiali zairesi, che significa “Farmacia degli avi”. Poco più avanti, all’aperto, c’è il nostro uomo.
E’ poliomielitico ed è seduto davanti ad un tavolinetto sul quale ci sono bottigliette ed oggetti vari, che possiamo accostare alla cultura occidentale come uno specchio, un paio di forbici, una piuma rossa, oltre a pezzetti di legno e altre cose. Accanto a lui, in piedi, c’è una specie di assistente più giovane. Un po’ in disparte, su un tronco appoggiato in terra, è seduto un altro giovane che ha, o fa finta di avere uno strano tremito, come colpito da una febbre che sembrerebbe malarica.
Mentre lo stregone agita, a turno, alcune boccette, l’assistente procede a dei piccolissimi tagli, fatti con una lametta, sul capo del malcapitato paziente. Poi gli mette al collo una catenella con due piccole boccette di vetro.
Lo stregone continua con i suoi riti e, con un dito, comincia a battere dei colpi ritmati, sullo specchio adagiato sul tavolo, mentre, l’assistente, passa, con forza, un piccolo pezzo di legno, sul dorso del paziente come a fargli scendere ed allontanare gli umori e la causa della sua malattia. Il tutto va avanti una decina di minuti. Frattanto moltissimi indigeni, pigmei e bantù, si sono radunati non tanto per assistere alle performances dello stregone, quanto perché incuriositi dalla nostra presenza e dalle attrezzature come telecamera, cavalletto, microfoni.
Una volta terminata la seduta, il malato, ormai guarito, si allontana e noi, con lui.
In un altro villaggio, assistiamo al racconto di un anziano cacciatore pigmeo, cieco. E’ seduto su uno sgabello al centro di una piccola radura tra le capanne e tutto intorno, seduti per terra in circolo, adulti e bambini, ascoltano incuriositi.
Noi, naturalmente, non comprendiamo nemmeno una parola, ma la mimica estremamente esplicita del vecchio cacciatore, le grida e i gesti che accompagnano il racconto sono così efficaci che ci immedesimiamo, assieme a tutti gli astanti, nella battuta di caccia nella foresta che il vecchio pigmeo, così bene, sta interpretando.
- 13 gennaio 1991 -
Un po’ per bellezza e un po’ come rito di iniziazione e prova di coraggio, molti giovani e giovinette, giunti in età puberale, si sottopongono ad un rito particolarmente cruento e doloroso. Consiste nell’assottigliamento dei due denti incisivi superiori, sì da trasformarli in canini fini ed aguzzi come quelli dei felini. E’ una domenica mattina e, nonostante che ci avessero riferito che questo genere di rito fosse pressoché scomparso, veniamo a sapere che in un villaggio vicino si sta per procedere a qualcosa del genere. Raccogliamo molto velocemente le attrezzature per filmare e fotografare e ci dirigiamo sul posto.
Il giovane è sdraiato su una stuoia e tiene in bocca, mordendolo, un bastone. Lo specialista, un pigmeo che, in pratica, dovrà procedere all’operazione di assottigliamento dei denti, è in ginocchio a fianco dell’iniziato ed è aiutato da un assistente che tiene sollevato il labbro superiore del paziente.
L’uomo che compie l’intervento appoggia un coltello di medie dimensioni, privo di manico ed anche un po’ arrugginito, sull’incisivo del paziente. Poi con piccoli ma decisi colpi, portati sapientemente, con un bastone, sul coltello, scaglia i denti gradualmente. Il coltello colpisce anche il labbro superiore e le gengive che sanguinano abbondantemente. L’operazione è lunga, complessa e dolorosissima. Il giovanetto, mentre continua a mordere il bastone, piange, ma non si sottrae alla tortura. Sarà anche per un segno di coraggio ma anche perché, a questo punto, tornare indietro è impossibile.
Noi abbiamo appena fatto colazione e siamo tutti molto pallidi in viso, cerchiamo di pensare ad altro, anche se è un po’ difficile. Dopo oltre mezzora, l’operazione ha termine. Il giovane paziente si sciacqua abbondantemente la bocca, fa un bel sorriso, anche se forzato, per mostrare il suo nuovo aspetto e se ne va. Per diversi giorni, per lui, sarà impossibile mangiare.
Dopo la messa a cui partecipano molti bantù delle tribù vicine e solo pochi pigmei, iniziamo a fare le operazioni di “baratto” con i pigmei. Un vecchio orologio in cambio di una bella pelle di serpente “boa”, poi magliette, mutande, camice, calzini, collanine, braccialetti. Qui il denaro è assolutamente sconosciuto e lo scambio di merce, detto baratto, è l’unico sistema di compravendita. Uno dei primi giorni della nostra permanenza, P. Lwanga ha barattato con un pigmeo, un pezzo di stoffa in cambio di mezza antilope.
In questo momento, sia noi che loro, pensiamo con soddisfazione, che stiamo facendo dei buoni affari. Al termine delle contrattazioni, quando in pratica abbiamo terminato tutta la mercanzia da scambiare, ci troviamo con ben 26 archi, innumerevoli frecce, faretre, bracciali di pelle di scimmia, le uniche cose, queste, che i pigmei possiedono.
All’imbrunire, mentre siamo seduti davanti alla missione, vediamo apparire molte donne pigmee e alcuni bambini che, lentamente, si dirigono verso di noi. Si siedono per terra, attorno a noi, e cominciano preparare tutto l’occorrente per eseguire i tatuaggi. In un coccio di terracotta mettono del carbone sul quale fanno colare il succo di uno strano frutto verde che hanno tagliato a metà. Il carbone viene strofinato energicamente nel coccio e mischiato assieme a questo succo ottenendo così un liquido nero e appiccicoso.
Avevamo assistito qualche giorno prima, alla stessa preparazione e alla successiva esecuzione di tatuaggi che le donne pigmee si erano fatte a vicenda e anche sui bambini. Questo particolare tatuaggio non è permanente, dura dai venti ai venticinque giorni e va via solo col cambio dello strato superficiale dell’epidermide ed è resistente anche al sapone. Il segreto di questa resistenza al lavaggio è da ricercare nel succo del frutto della foresta che agisce come legante e fissatore.
Quando sono pronte a tatuare, ci fanno timidamente capire, a gesti, che vorrebbero farlo su di noi. Noi siamo, prima sorpresi, poi lusingati e quindi ci mettiamo di buon grado a loro disposizione.
Per noi significa accettare in pieno il loro mondo e le loro usanze. Mentre per loro è un aprirsi a noi e un accoglierci nella loro tribù, nel loro mondo e diventare parte del loro clan. In poche parole un atto di fiducia reciproco.
Due donne ciascuno, lavorano sulle nostre braccia eseguendo segni variati e fantasiosi, sempre formati da linee rette che si intersecano tra loro. Non sono solite o non sanno eseguire linee curve. E’ notte ormai fonda, quando il lavoro ha termine. Noi non vediamo quasi niente, loro certamente più abituate di noi, al buio, portano a termine il lavoro a regola d’arte.
Siamo diventati d’un tratto, pigmei anche noi.
Ringraziamo molto e ci salutiamo, sanno che è l’ultima notte che trascorreremo nel loro accampamento. Domani, dopo pranzo, partiremo e ci saluteremo definitivamente….chissà forse hanno inteso lasciare un loro ricordo disegnato sulla nostra pelle.
Dopo cena, come al solito, ci sediamo sotto la solita veranda, rischiarata da due lumi a petrolio. E, come al solito, miriadi di insetti volanti fastidiosissimi, ai quali è difficile abituarsi, ci ronzano inorno. E di nuovo, dall’oscurità, appaiono i nostri amici pigmei. Uomini, donne, bambini e hanno con loro, oltre al solito tizzone acceso, anche dei tamburi. Si siedono di fronte a noi e iniziano a fare musica, a cantare e a danzare.
E’ il loro modo di dirci addio, di salutarci, di donarci tutto quello che hanno: il canto e la danza, oltre ai tatuaggi. Ci alziamo e iniziamo a danzare con loro naturalmente in maniera goffa e buffa ma loro mostrano di gradire il nostro impegno e anzi cominciano ad imitare i nostri passi che nulla hanno di danza africana, ma più semplicemente somigliano ad una danza da discoteca.
I loro canti, i loro gorgheggi, le loro assonanze sembrano un insieme di strumenti musicali e questo suono, questa melodia, accompagnata dal ritmo dei tamburi, ci penetra dentro e resta indelebile e indimenticabile.
P. Franco Laudani che ha danzato con noi, li ringrazia, nella loro lingua, per la loro esibizione e per tutti i giorni che hanno trascorso assieme noi. E’ tardi e se non decidiamo noi di ritirarci, loro, per rispetto, non lo faranno mai.
Ciao, diciamo. Ciao, rispondono. Addio piccoli, grandi amici, solo una notte ci separa dall’addio definitivo: non vi dimenticheremo mai.
La notte trascorre lentamente, non riusciamo o non vogliamo dormire. Ascolto i suoni della foresta, i fruscii di animali sul tetto della capanna, altri strani rumori provenienti dall’esterno ma non è con timore che ascolto. E’ la prima volta che li sento da quando sono qui.
- 14 gennaio 1991 -
E’ il giorno della partenza. Ci alziamo di buon’ora per assistere alla preparazione, da parte dei pigmei, sia del tabacco da fiuto che del veleno che usano per avvelenare le frecce.
Quest’ultimo è estratto dalla corteccia di due diverse radici di piante. Le cortecce sono pestate in un mortaio di legno che viene usato solo per la preparazione di questa sostanza.
La poltiglia così ottenuta viene messa in un torchio rudimentale ma molto efficace da loro costruito. In questa maniera si estrae, per spremitura, un liquido scuro che viene raccolto in una grande foglia adoperata a mo’ di recipiente. Questo liquido a base di strofanto, una sostanza vegetale usata, un tempo, in medicina come cardiotonico, provoca, in alte concentrazioni, un blocco cardiaco. Con un cucchiaio, anche questo costruito ingegnosamente con una foglia, si cola questo liquido sulla punta intagliata delle frecce di legno, che vengono poi messe ad essiccare vicino al fuoco. Questa operazione è ripetuta più volte fino a quando le punte delle frecce risulteranno annerite, segno questo che denota un’alta concentrazione del veleno.
Chiediamo di portare via con noi un po’ di quel veleno, ma ci viene giustamente e gentilmente negato. Probabilmente i pigmei lo fanno per salvaguardare la nostra incolumità, non fidandosi troppo della nostra perizia nel maneggiare un veleno mortale anche per un uomo. Capiamo la lezione e non insistiamo. Ci sono concesse invece un po’ di radici da dove si estrae il veleno. Le confezionano in una foglia accuratamente legata: il nostro medico Aldo, vorrà esaminarle al rientro in Italia. Ringraziamo.
Dopo pranzo ci apprestiamo a lasciare definitivamente Bangane per andare a Mungbere.
Le quattro donne bantù che si occupavano di noi, della cucina, di lavare e di stirare i nostri indumenti, stanno in disparte. Carichiamo la Land Rover di p. Franco. Lui non può venire e andremo alla missione di Bangane da soli con la sua jeep. Arrivano così i momenti dei saluti, degli addii.
Anche se conosciamo solo il nome di una di queste giovani donne (Eugenie), siamo diventati amici con tutte. A volte abbiamo scherzato, ci siamo fotografati assieme e, pur non parlando la stessa lingua, siamo diventati buoni amici e, da buoni amici, ci dispiace salutarci.
E qui accade un fatto che ci commuove. Quando ci avviciniamo per stringergli la mano, ci accorgiamo che tutte stanno piangendo. D’un tratto comprendiamo perché, per tutta la mattina, ci avevano accuratamente evitato e quando le avevamo incrociate rimanevano sempre a occhi bassi. Restiamo sorpresi e commossi da tanta manifestazione d’affetto, di amicizia e di simpatia.
Nemmeno l’intervento di p. Franco che cerca di mandare tutto in ridere, parlando un po’ italiano e un po’ il “lingala”, sorte l’effetto sperato: le lacrime scendono copiose. Sono veramente commosse. Ci stringiamo la mano, ci abbracciamo e ci baciamo; di nuovo una carezza: “sai, non te la prendere, non ne vale la pena…” Anche qualcuno di noi si asciuga il viso, forse è stato bagnato dalle lacrime di qualche “morina” (tra noi le chiamiamo bonariamente così), forse…..
Anche p. Franco è stupito. Ci dice che è la prima volta, in tanti anni d’ Africa, che gli capita…
Salutiamo e ringraziamo anche p. Franco, italiano di Sicilia: forse ci rivedremo un giorno, in Italia o in qualche altra parte del mondo magari presso altri popoli affascinanti come questi….
Poco più avanti un gruppo di pigmei ci attende in disparte. Sono riservati come sempre e noi rispettiamo il loro modo di essere. Mentre, in jeep, attraversiamo lentamente il villaggio, ci salutano agitando la mano, noi rispondiamo.
Imbocchiamo la pista per Mungbere. Abbiamo un nodo alla gola. Sappiamo che qualcosa di noi è rimasto là, per sempre. Siamo molto confusi e non sappiamo se essere lusingati, orgogliosi, entusiasti o semplicemente contenti. Certamente siamo molto commossi.
Siamo rimasti affascinati da tanta spontaneità, da tanto affetto e considerazione e dalla mancanza assoluta di ipocrisia. E’ questo, un altro forte colpo alla nostra cultura occidentale super tecnologica, razionale e perfetta.
Ce ne restiamo in silenzio per diversi chilometri, ciascuno immerso nelle proprie riflessioni.
Anche questa volta, questa malattia subdola, violenta e inestirpabile che si chiama “mal d’Africa” sta avendo il sopravvento, alla grande, su tutti i fronti.
Roberto Giovannini