I PIGMEI BAMBUTI - Testo del documentario (1991)

I PIGMEI BAMBUTI DELL’ALTO ZAIRE

Da geroglifici scoperti in una tomba risalente a circa duemila anni avanti Cristo, si apprende che un dignitario di corte del faraone Pepi II, di ritorno da una spedizione in una terra misteriosa situata nel cuore dell’Africa nera, portava, in dono, un “gioiello” speciale: un pigmeo, un nano del “paese degli alberi”, nome che gli Egizi davano alle foreste delle regioni equatoriali.

I pigmei venivano allora considerati esseri sovrumani ed erano tenuti in grande considerazione per la loro capacità di eseguire danze “divine”.

Questa è la testimonianza più antica sui pigmei; un popolo che, da sempre, ha legato la propria vita ai ritmi eterni e misteriosi della foresta.

Ed è nella foresta pluviale, tra i bacini dei fiumi Itùri e Uèle, nella provincia dell’Alto Zaire, che ancora oggi vivono gli ultimi nuclei di Pigmei Bambuti, il gruppo forse più arcaico, ma indubbiamente, più raro, tra tutti i pigmei oggi esistenti.

E’ l’alba, le donne raccolgono l’acqua: servirà per cuocere poche cose e per bere.

Nella società pigmea uomini e donne hanno ruoli ben definiti e, questa attività, è di competenza della donna, come pure la costruzione delle capanne.

In una radura ai margini della foresta, fissano dei rami nel terreno. Le loro cime flessibili vengono curvate al centro per formare un’intelaiatura emisferica.

In questa circostanza, come in altre attività di gruppo, accompagnano il loro lavoro con canti fatti di assonanze e dissonanze di incredibile musicalità.

Larghe foglie, abilmente embricate l’una sull’altra, costituiranno un riparo sicuro e impermeabile anche durante i violenti temporali della stagione delle piogge.

Il fuoco è sempre acceso e ogni capanna ha il proprio.

Rimasti isolati da sempre ai margini di queste foreste, i pigmei hanno dimenticato o forse non hanno mai conosciuto le tecniche di accensione. Strappato probabilmente al fulmine che abbatteva e incendiava i grandi alberi della foresta, il fuoco, viene ancora oggi mantenuto con estrema cura e riveste un ruolo quasi sacrale in ogni attività importante come la caccia, la pesca, le danze.

I pigmei Bambuti hanno caratteristiche etniche particolari che li differenziano dalle altre tribù negre: la loro pelle è più chiara e così pure i capelli che assumono spesso una tonalità rossiccia. Ma è soprattutto l’altezza che li caratterizza, con un metro e trenta, un metro e quaranta di media.

Vivono in accampamenti autonomi, ma tendono anche a stabilire una sorta di simbiosi con le tribù limitrofe. Nasce così una sorta di patto socio-economico tra pigmei Bambuti cacciatori, che procurano la selvaggina e negri Bantù agricoltori che danno in cambio prodotti agricoli, vasellame e oggetti di metallo come le punte delle frecce e i machete.

In questa pentola,coperta da foglie, stanno bollendo tuberi o radici che le donne raccolgono nella foresta. Anche la manioca è cotta allo stesso modo, ma, quest’ultima, come il riso, i pigmei la ottengono dai Bantù, in cambio di selvaggina.

Questo gruppo di donne sta andando a pesca. Una di esse trasporta un tizzone acceso. Intonano i soliti inconfondibili canti, unici nel loro genere, a lode del loro Dio e, forse, di un mondo meraviglioso.

Questo “far musica” è parte integrante delle attività quotidiane ed intimamente legato alla vita sociale del gruppo.

Il supremo dio della foresta è “Tòre”, signore della vita e della morte. E’ al vertice dei fenomeni naturali e delle credenze umane. Vive nella foresta ed è la foresta….

E la foresta per il pigmeo è tutto: padre, madre, protezione, nutrimento….

E’ qui che i pigmei ritrovano la propria identità. Ed è qui, nella grande foresta, loro antico regno, che vanno osservati per conoscerli meglio, in un immenso silenzio rotto soltanto dai loro incredibili cori.

Col tizzone viene acceso un fuoco e col fuoco la pipa, ottenuta perforando, con una lunga fibra, la nervatura centrale della foglia del banano.

Fumare prima di iniziare un’attività assume un significato rituale ed il tabacco necessario viene, di volta in volta ottenuto, essiccando foglie fresche vicino al fuoco.

La tecnica di pesca è semplice: con rami,foglie e fango, vengono costruiti sbarramenti che interrompono il corso del ruscello: a valle rimarranno ampie pozze d’acqua.

L’allegria di queste donne contrasta enormemente con la pericolosità del luogo: contrarre la malaria, in questi acquitrini è quasi inevitabile…. Le pozze vengono poi svuotate con l’aiuto di grosse foglie. Nella melma si possono così raccogliere piccoli pesci, granchi e gamberetti.

La cattura delle termiti al momento dello sciame è un uso comune a tutte le tribù africane, ma solo i pigmei, con una abilità straordinaria, riescono a farle uscire dai loro cunicoli sotterranei.

Si pratica un foro nella parete del termitaio e vi si soffia dentro del fumo. Gli insetti così irritati, si raccolgono vicino all’apertura e penetrano tra le fibre di una spazzola vegetale introdotta, a questo scopo, nel foro.

La cattura delle termiti, così come la raccolta di bacche, radici, larve, funghi e tuberi, è compito delle donne e serve ad arricchire una dieta prevalentemente costituita da cacciagione. Se consumate crude, prima gli si schiaccia la testa, per non farsi mordere la lingua.

Le termiti possono anche essere arrostite. Se pestate in un mortaio, se ne può ricavare un liquido oleoso, gradevolmente profumato, per insaporire i cibi.

L’olio per uso quotidiano è invece ricavato dai semi della palma da olio.

Queste palme talora sono altissime ed i pigmei vi salgono con facilità utilizzando un sistema di corde che loro costruiscono.

Sia per la salita che per la discesa, il principio è il medesimo. In pratica sono due i supporti utilizzati: uno dove si inserisce un piede e l’altro, dove si inserisce la coscia dell’altra gamba, subito sopra il ginocchio. Spostando alternativamente lungo il tronco gli anelli di corda, si sale o si scende.

I semi della palma vengono prima scottati per renderli più molli, poi pestati e quindi spremuti col solo impiego delle mani. L’olio, di colore rossiccio, ha sapore gradevole.

Al centro di una vasta area popolata dai Bambuti, in un accampamento, due missionari Comboniani italiani, hanno fondato una piccola missione.

Vivono in una capanna di fango e paglia, come di fango e paglia è costruita la piccola chiesa. E’ giorno di festa e Padre Lwanga celebra la messa. Assistono al rito alcuni pigmei e molti neri delle tribù vicine.

La presenza dei missionari in queste zone mira, non solo all’evangelizzazione, ma anche e soprattutto, a svolgere una promozione umana tra i Bambuti e per salvaguardarne gli interessi nei confronti, sia delle altre tribù “nere”, che del governo centrale. In poche parole i missionari sono un po’ i loro tutori.

I pigmei, infatti, da sempre, sono considerati dalle popolazioni limitrofe, quasi una sottorazza del tutto priva di importanza e di considerazione. E l’opera costante dei missionari è fondamentale per tentare di preservare, se non la loro identità etnica, almeno la loro dignità umana.

I Bambuti vivono in gruppi autonomi e non hanno capi, anche se talora, ad un anziano oppure al cacciatore più abile, viene riconosciuta una certa autorità e può quindi esercitare la sua influenza sugli altri.

La loro organizzazione è basata su una responsabilità comune che li fa agire secondo le necessità.

I pigmei sono monogami. Ogni famiglia possiede una capanna ed ogni bambino chiama padre e madre tutti quelli che appartengono alla stessa generazione dei genitori. I bambini sono figli di tutti, perché tutti sono figli della foresta.

Per essere più belle, le donne, si praticano fori nelle orecchie, nel naso e anche in entrambe le labbra, che vengono bucate da parte a parte.

Qui inseriscono fiori ma, più spesso, piccoli stecchi. Abbastanza frequenti sono anche queste cicatrici, ottenute con scarificazioni cutanee, ricoperte poi con polvere di carbone.

Forse rispondono ad una esigenza estetica, ma possono anche esprimere l’appartenenza ad un clan.

Un altro elemento tipico della cultura pigmea è il tatuaggio.

Il succo di un particolare frutto selvatico, usato come legante e fissatore, viene mischiato, in un coccio, con polvere di carbone.

Nel liquido nero così ottenuto, si intinge una fibra lunga e sottile con cui, le donne, tatuano i bambini e loro stesse.

L’iconografia è abbastanza semplice ed è costituita da figure geometriche e da linee parallele che si ripetono e si alternano secondo moduli variati e fantasiosi.

L’effetto estetico è molto bello e per i pigmei, che non conoscono nessuna forma di scrittura, i tatuaggi, come il canto e la danza, rappresentano le uniche forme di espressione artistica.

L’assottigliamento dei quattro incisivi superiori, sì da trasformarli in canini, risponde a due aspetti della cultura Bambuti: conferisce al volto un’espressione di fierezza, ma, soprattutto, riveste il ruolo importante di rito di iniziazione.

Dopo questo trattamento, per diversi giorni, non sarà possibile mangiare. Sembra comunque che questo antichissimo rito sia pressoché scomparso.

La caccia, come pure la costruzione di archi e frecce e la loro manutenzione, è di competenza esclusivamente maschile.

Gli archi vengono costruiti con uno speciale legno, particolarmente flessibile e resistente, del tutto privo di nodi. Mentre le frecce si ottengono con la parte legnosa delle foglie di palma.

Le frecce sono avvelenate con una sostanza estratta dalle radici di due tipi diversi di piante che sono pestate in un mortaio in proporzioni diverse.

La poltiglia ottenuta viene spremuta con un torchio, tanto rudimentale quanto efficace.

Un liquido scuro, contenente strofanto, una sostanza usata in medicina come cardiotonico, cola in grandi foglie.

Con esso si bagnano le punte delle frecce, che si espongono poi vicino al fuoco.

L’operazione viene ripetuta più volte in modo da ottenere, sulla punta, un’alta concentrazione del prodotto che assume così potere letale: l’animale ferito, anche in modo lieve, morirà nel giro di pochi secondi per paralisi cardiaca.

Il pigmeo è cacciatore da sempre e, nei loro racconti, gli anziani, non fanno che tramandare leggendarie battute di caccia nella foresta.

Si parte, per la caccia, con archi, frecce e l’immancabile tizzone acceso.

In queste foreste, universo chiuso e impenetrabile per chiunque, i pigmei si muovono a loro agio. Perfettamente integrati come gli animali selvaggi, li vediamo apparire e scomparire nell’umida e fresca oscurità della boscaglia.

Questi piccoli uomini, come gli antichi cacciatori neolitici, conoscono tutti i segreti di questo grande regno vegetale, vivono in perfetta simbiosi i misteri di una natura da cui noi, ci siamo da secoli, irrimediabilmente, allontanati.

Si accende il fuoco. Gli archi vengono passati più volte sul fumo con movimenti lenti e rituali. Forse è un gesto propiziatorio per una caccia ricca di selvaggina o forse un modo per aumentare la flessibilità dell’arco: probabilmente per ambedue i motivi, dato che sono tra loro funzionali e la cultura pigmea, nella sua assoluta semplicità, è di una funzionalità sconcertante.

Il pigmeo uccide e mangia tutto ciò che si muove e che è a portata di freccia: dallo scoiattolo alla scimmia, dall’antilope al topo.

Si getta l’animale sul fuoco per toglierli il pelo. Poi, liberato dalle interiora e avvolto in grandi foglie, lo si fa cuocere vicino alla brace quasi fosse al cartoccio.

L’interpretazione magica dei fenomeni naturali e soprattutto dello stato di salute o di malattia è ancora fortemente presente. Lo stregone gode, tutt’ora, di grande credibilità e di una certa reputazione.

La complessa ritualità magica che si pratica ai margini della foresta è un fenomeno antico ma in continua evoluzione. La maggior parte dei pigmei ricorre allo stregone.

Solo chi è a contatto con i missionari può venire curato con le medicine comuni e talvolta anche da un medico, ma la visione magica degli eventi naturali rimane intatta a dispetto dell’opera costante dei missionari.

La morte fa parte del ciclo naturale connesso alla vita. E’ così anche per i pigmei Bambuti.

La salma, avvolta in un lenzuolo, viene vegliata dai parenti più stretti nella capanna di fango che, un nero Bantù, ha messo a disposizione dei Bambuti.

A braccia, è poi trasportata in un campo non troppo lontano, dove è già preparata una fossa profonda. Non è un cimitero, ma solo una radura un po’ isolata.

Una volta calata la salma, si scopre il volto e si avvolge in un fitto intrico di rami e fronde: sotto la terra rossa si ricrea un pezzo di foresta, la culla materna, che accoglierà e proteggerà il pigmeo anche in quest’ultimo, estremo momento.

La pittura bianca, ottenuta con cenere ed acqua, è segno di lutto e viene usata nei funerali e nelle danze funebri.

I pigmei intervengono numerosi da tutti gli accampamenti circostanti.

La cerimonia funebre è riservata esclusivamente a loro, ai parenti ed agli amici del morto. Se interviene un estraneo che non è stato invitato, può essere insultato e cacciato via.

Il ritmo della danza funebre è ossessivo e l’incessante suono dei tamburi durerà tutta la notte, accompagnato ed esaltato da libagioni di birra di banane e di vino di palma.

Questa celebrazione, mista di tristezza e di euforia, è raramente documentabile.

Sono questi i discendenti dei leggendari “nani del paese degli alberi” che già duemila anni prima di Cristo, venivano catturati dagli emissari dei faraoni, per allietare con la danza e col canto, le loro corti.

Ed è qui, nel cuore dell’Africa nera, che ancora oggi vivono le ultime tribù di pigmei Bambuti cacciatori da sempre.

Dice un vecchio pigmeo: “Noi siamo il popolo della foresta. La foresta è buona con i suoi figli. La foresta è la nostra casa. Quando la foresta muore anche noi muoriamo”.

Auguriamoci che questo non sia vero, anche se il rapido espandersi delle altre tribù, l’indifferenza del governo centrale e la crescente deforestazione minano pesantemente l’esistenza di questo popolo essenzialmente felice; esempio vivente di passato e presente, di primitivo e civile e che, attraverso i millenni, ha conservato, intatta, la sua cultura e la sua tradizione.

Aldo Mencarini - 1993