LA  VOCE  DEI  LETTORI

25 aprile

di Diego Ducletti - 28 aprile 2021

Guardo gli occhi di un mio zio, classe 1920, quando si parla del 25 aprile: lacrimano. Lacrime di gioia, dopo vent’anni di ingiustizie, dopo l’esperienza in Russia, in Grecia ed in Germania. 

Il 25 aprile, infatti, nella neonata Repubblica era una Festa, con la effe maiuscola, che fa tornare alla mente il motto di Sala Maccari: “sei libera, sii grande”. Una grandezza non visibile, rispetto alle opere colonialiste fasciste: perdemmo la Dalmazia, l’A.O.I., la Libia ed il Dodecaneso, ma eravamo felici. Oggi sentiamo lontane da noi queste ricorrenze, il 25 aprile, il I maggio ed il 2 giugno sono solo giorni di ferie, ma non di festa. La colpa, che spesso è attribuita a noi dagli anziani, non è nostra: è la società che non è più patriottica, è la società che non è più delle nazioni ma è universale, che non conosce più religioni, barriere e stati, perché altrimenti si è etichettati come “fascisti”. 

Io proporrei di riscoprirci Italiani, non lombardi, non varesotti, non bustocchi, ma Italiani, figli del Tricolore e di quel sangue sparso dai nostri martiri: sul Piave, sul Tagliamento, a Gorla, ma anche e, specie oggi, quello dei partigiani, di tutto l’ipotetico arco parlamentare, morti per i loro figli, per noi, per la Patria, 

Ora, quindi, siamo liberi. Ciononostante, nostra sorella Francia guarda a noi con un leggero sorriso, con il suo motto “libertà, fraternità ed uguaglianza”. Ma gli Italiani sono tutti uguali? 

No, perchè siamo Italiani “diversi”, dipendentemente da dove nasci. Io son figlio di 160 anni di unità e di 76 di libertà: mia madre è venuta in Lombardia per curarsi e mio padre per cercare un futuro migliore. Questa è uguaglianza? 

Che Stato è uno stato che non può assicurarti un futuro uguale dovunque? Le italie, sono due. L’incontro di Teano è solo di circostanza, perché essenzialmente non è cambiato nulla da allora, in tutti gli ambiti della vita e della società. 

Lo Stato conosce queste difficoltà, ma sembra passarci sopra, come successo qualche mese fa quando venne approvata la Legge che assicurava il 30% di sconto sui viaggi aerei da e per la Sicilia anche a persone malate che devono curarsi fuori dalla Sicilia con reddito non superiore a 25.000€: perchè non portare le cure in Sicilia piuttosto che i curanti fuori? Un altro esempio di disparità è quello legato alla sola aspettativa di vita: un bambino nato al Nord Italia arriva solitamente in buona salute fino a 60 anni e muore intorno agli 83, mentre al Sud i numeri sono nettamente inferiori: la buona salute termina verso i 56 anni e si muore intorno agli 82. 

Passando allo svolgersi di questa vita, emerge il grande divario sull’istruzione e sul lavoro: mentre in Europa si laureano 4 ragazzi su 10, al Nord 3 ed al Sud 2, ed anche la prospettiva lavorativa (e disoccupazionale), non è molto più rassicurante: i cosiddetti “neet”, ovvero i giovani tra i 15 ed i 24 anni che non lavorano e non studiano, al Nord rappresentano 1,5 ragazzi su 10, al Sud 3, il doppio. Procedendo con l’età, si vede come la differenza di occupazione e la mancata partecipazione tra Nord e Sud sia del 24%. La disoccupazione, invece, è di media al 9% a livello nazionale (8% uomini e 10% donne), ma 5% al Nord e 16% al Sud: al Nord lavora il doppio delle donne rispetto al Sud Italia, segno di una mentalità e di opportunità differenti. 

Continuando con le critiche, emerge il problema dei mezzi pubblici che, mentre al Nord Italia hanno una media di 12 anni, al Sud 20, tanto che, quando in Friuli fecero la sfilata dei treni storici, fecero sfilare treni che, nel meridione, viaggiano ancora. Sempre per i mezzi emerge come, nel rapporto posti/km, il Sud si attesta a 2000, un terzo dei servizi offerti nel Nord Italia. ⅓ è anche la proporzione tra i posti nelle case di riposo e di assistenza tra il Nord ed il Sud. 

Un esempio sui servizi ospedalieri lo porto io in prima persona: sono figlio di madre molisana, e torno al mio paese tutte le estati. Nella regione Molise abitano, all’incirca, 300.000 persone: poche, ma che meritano lo stesso rispetto di 300.000 abitanti Lombardi, ma in tutta la Regione Molise vi sono 3 ospedali: il giusto in rapporto alla popolazione, se non che ci vuole mezz’ora per raggiungere un ospedale che, in una regione “vecchia” è inaccettabile, perché si muore, se non si muore in casa si muore in ambulanza mentre si arriva all’ospedale. Regioni vecchie perchè i giovani scappano, per cercare un futuro migliore, fughe che costano circa 3 miliardi e che ogni anno devono lasciare madri, mogli e figli da soli e inviare a casa i soldi, come in qualche fotoromanzo anni ‘50. 

Ricordarsi le ricorrenze è bello e giusto, ma prima di inneggiare all’Unità Nazionale ed alla Libertà, pensate, perchè i siciliani, i giuliani, i sardi ed i valdostani sono nostri fratelli, ieri, oggi e sempre. 

Il 25 aprile. Una data che è parte essenziale della nostra storia: è anche per questo che oggi possiamo sentirci liberi. Una certa Resistenza non è mai finita.

Non è la scuola 

di Sofia Mancini - 12 novembre 2020

La scuola deve ingiustamente chiudere: “il problema, come ribadito più volte, non è quello che avviene in classe, ma quanto accade fuori [...]” (Nino Cartabellotta, intervista a Orizzonte Scuola). Appare necessaria una rapida riorganizzazione della didattica a distanza attraverso canali dedicati, proprio come era accaduto in pieno lockdown. Il punto nodale della questione è, appunto, la difficoltà riscontrata nei confronti del rispetto delle normative anti contagio sulle vetture dei servizi di trasporto pubblico, principalmente, ma talvolta anche privato. Il tutto si sarebbe potuto risolvere con uno stress test dedicato da svolgersi prima dell’avvio dell’anno scolastico, di modo che non si arrivasse a questo punto: a risentire della disorganizzazione dei trasporti è la scuola, forse unico baluardo sicuro di distanziamento e rispetto generale delle normative. 

È pressoché inutile stare qui a pensarci con il senno di poi, ma l’evidenza dei fatti fa pensare a una disattenzione del governo che ha così dato dimostrazione di non aver analizzato a fondo la situazione su tutto il territorio nazionale. C’è da sottolineare che, proprio per questa mancata riorganizzazione dei servizi di trasporto, tutti gli sforzi che sono stati fatti in ambito scolastico per garantire ingressi separati e scaglionati, percorsi unici di entrata e uscita, distanziamento interpersonale di almeno un metro, igienizzazione di ambienti e in alcuni casi anche di messa all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, di modo da fornire la didattica a distanza alternata per le classi più numerose, sono stati vanificati da un sistema che di fronte alla richiesta di adattarsi alle nuove esigenze è rimasto tale e quale allo status quo ante pandemia. Ad esempio, il servizio ferroviario nazionale, cui si sono richieste prestazioni migliori già in tempi “normali”, per così dire, senza alcun riscontro positivo tra l’altro, ha dato prova di essere decisamente impreparato: mancano convogli, igiene e organizzazione delle corse rispetto ad orari ed affluenza.

Eppure è la scuola a dover chiudere, questo sistema, che è sempre stato criticato perché vetusto e apparentemente immutato negli ultimi trent’anni e che invece ora ha dimostrato di essere più duttile e resiliente di quanto l’opinione pubblica pensasse, viene schiacciato dalle conseguenze degli errori di altri. Questo avviene anche perché spesso, come dice il presidente della Fondazione GIMBE, Nino Cartabellotta, il cui intento dal 1996 è l’integrazione delle migliori evidenze scientifiche nelle decisioni politiche, si confonde il luogo di contagio con la categoria di contagiati, un errore molto grave anche a mio avviso. 

D’altronde, l’istruzione, avendo dimostrato di essere abile a districarsi nelle maglie dei decreti, è stata designata come l’istituzione più indicata a farsi carico di disagi che non ha creato. Dunque, a malincuore, mi ritrovo a sostenere questa tesi, per il semplice fatto che la scuola è l’unica a potercela fare.

A casa o a scuola?

Da un punto di vista diverso

di Federica Consonni - 4 novembre 2020

A seguito della pubblicazione dell’articolo “a casa o a scuola?” di Francesca Minoja è necessario cogliere la provocazione per mostrare almeno una volta anche l’altra faccia della medaglia. Facendo parte degli studenti che hanno preferito stare a casa, vorrei che le vere motivazioni di questa decisione abbiamo la stessa attenzione di quelle opposte.

Purtroppo viene totalmente ignorato che non tutte le famiglie di questa scuola possono permettersi il lusso di una quarantena senza gravi conseguenze. E in caso non fossero chiare le conseguenze a cui mi riferisco sono la perdita del lavoro dei genitori o il rischio di portare a casa una malattia potenzialmente letale per alcuni membri della famiglia.

Inoltre, nonostante il mio forte impegno nel rimanere sempre informata sull’evoluzione della pandemia da fonti scientifiche e affidabili, non ho trovato nessuno studio che sostenga la teoria proposta dall’articolo secondo cui a scuola non ci sia possibilità di contagio.

Non avendo fonti precise, potremo comunque usare la logica. Come ci ripetono dalla scorsa primavera il mezzo di trasmissione più immediato è il contatto con altre persone, è quindi logico che ogni forma di assembramento sia un rischio. Nonostante alcuni provvedimenti presi dalla scuola (come il disinfettante per le mani all’ingresso o le sedie con ribaltina), non possiamo fingere che garantiscano una totale sicurezza, perché sarebbe profondamente irrispettoso verso chiunque abbia perso il lavoro o abbia dovuto chiudere la propria attività, nonostante avesse preso le stesse misure di precauzione.

Poi non possiamo certo ignorare i giudizi espressi riguardo a chi abbia preso una decisione non in linea col pensiero dell’autore. Gli studenti vengono accusati di preferire la DAD per potersi dedicare a giochi online durante le ore di lezione, senza però pensare che solo la minoranza delle/dei ragazz* sono ancora così immatur* a 18 anni.

Apprezzo particolarmente lo sforzo della dirigente di garantire la possibilità di fare lezione in presenza per chi, per svariati motivi, ha dei problemi a seguire le lezioni da casa, ma ritengo indispensabile lasciare la libertà di valutare la propria situazione individualmente e agire conseguentemente nel totale rispetto delle linee guida del DPCM.

Infine, riferendomi al penultimo paragrafo dell’articolo, credo sia necessario ragionare sul perché ci si senta negati del proprio diritto d’istruzione, nonostante le lezioni vengano emesse online con le stesse modalità in cui erano strutturate in presenza.

Sicuramente tutti rimpiangiamo la didattica in presenza, ma in un momento così particolare è necessario saper accogliere i cambiamenti.

Ma perché la DAD ci risulta così faticosa in confronto alla didattica in presenza?

È una cosa nuova, essendo queste le prime sperimentazioni sia i professori che gli alunni devono esplorarla e capirla; questo include i lati positivi e quelli negativi, ma finché cercheremo di evitarla non potremo scoprirne e sfruttarne le vere potenzialità

Lo studente ha maggiore responsabilità di se stesso, la figura del professore smette di ricoprire la parte del guardiano che deve controllare che tutti facciano il proprio dovere. Prima o poi è necessario uscire dalla propria bolla di cristallo e affrontare le proprie responsabilità.

Alcuni docenti fanno da sempre fatica a fidarsi dei propri alunni, questo problema è più facile da mascherare in presenza, quando si può avere il totale controllo degli studenti. La mancanza della visione totale delle azioni dei nostri interlocutori può essere stressante, ma come gli studenti si devono responsabilizzare per se stessi, anche i professori devono lasciare dello spazio per far crescere i giovani.

Mi sono sentita in dovere di esprimere il mio parere su ciò che è accaduto, poiché in questi 5 anni di liceo mi è stato insegnato ad informarmi su ciò che avviene intorno a me e sviluppare un mio pensiero critico rispettando comunque le opinioni diverse dalle mie.

Affrontare una pandemia non è facile per nessuno, ma sicuramente con una maggiore collaborazione da parte di tutti e soprattutto il rispetto delle altre posizioni si potrà ottenere una crescita nettamente maggiore e soprattutto utile per il futuro.

A pieni polmoni

di Beatrice Sinelli - 9 giugno 2020

“La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.” 

-Piero Calamandrei 

Probabilmente la maggior parte di noi ha già sentito questa citazione diverse volte nella sua vita; ma abbiamo davvero colto l’essenza di queste parole? Questa frase è, dal mio punto di vista, particolarmente significativa, letta e riletta negli anni, ha assunto per me sempre un significato differente; in particolare in queste settimane mi è riaffiorata alla mente ancora più vera e attuale.

Che cosa mi manca di più in questo periodo di reclusione? Secondo me è proprio quella libertà di cui parlava Piero Calamandrei, quella libertà di cui spesso ci dimentichiamo e diamo per scontato. La libertà è però un bene veramente prezioso, indispensabile, come l’aria. E ultimamente me ne sto rendendo conto. 

Mi manca l’aria, sotto quella stretta mascherina chirurgica che siamo costretti ad indossare; mi manca la libertà, essendo costretta a casa. Allora dò spazio alla mia immaginazione; un’immagine ricorrente mi passa per la mente: sono in piscina, sott’acqua, in apnea, trattengo il respiro e cerco di nuotare più velocemente per raggiungere il prima possibile il bordo vasca e poter finalmente tornare a galla per respirare. 

Quindi mi chiedo: cosa possiamo fare concretamente per riguadagnarci la nostra libertà, temporaneamente perduta? Il futuro è nelle nostre mani, solo noi siamo in grado di porre fine a questa situazione, ma a queste condizioni: attenendoci alle regole, comportandoci responsabilmente e supportandoci a vicenda. 

Fortunatamente la libertà di pensiero non ci è stata limitata a causa dell’emergenza Covid, perciò penso che questo periodo possa rappresentare un’occasione per riflettere su di sé, sui propri comportamenti quotidiani, sulle proprie responsabilità, per dedicare più tempo alle proprie passioni e interessi, nei limiti del possibile ovviamente, ma anche per riscoprire o rafforzare legami magari sottovalutati o tralasciati. 

Infine, spero che arrivi presto quel giorno in cui potremo tornare a condividere e a respirare la stessa aria fresca, insolitamente risanata dalle polveri sottili e dall’inquinamento, e auguro a tutti di riuscire a mettere in atto ciò che abbiamo solo potuto sviluppare in potenza, come ci insegna il nostro vecchio Aristotele. 

Italia ti amo

di Gaia Cavaliere - 12 maggio 2020

Giorno X di quarantena. 

Anche oggi ci siamo alzati dal letto e, in pigiama, abbiamo aperto il computer, senza sapere neanche che giorno è o che tempo fa fuori. Anche oggi staremo in casa tutto il giorno, come da mesi a questa parte. Ma chi ce lo fa fare? 

I nuovi contagi sono rimasti circa gli stessi, più o meno 1900 persone ogni giorno. I guariti aumentano, i morti diminuiscono. Attenzione però, non siamo fuori da questa emergenza. I virus sono delle brutte bestie. Mutano continuamente e per sconfiggerli serve un vaccino. Non possiamo abbassare la guardia fino a quando questo vaccino non sarà pronto. 

I nostri medici e i nostri infermieri sono i veri eroi di questa situazione: sono quelli che hanno più probabilità di contrarre la bestia, ma comunque non si arrendono, rimangono in corsia, di giorno, di notte, stanchi, con i segni della mascherina. Vedono la morte tutti i giorni. E no, non ci si abitua alla morte. Vedono persone anziane nei loro ultimi istanti di vita e rimangono lì, con la consapevolezza di non poter fare nulla; ma loro non si arrendono. E nostri commessi, che riempiono tutti i giorni gli scaffali dei supermercati. “Noi li abbiamo sempre riempiti gli scaffali, non siamo noi gli eroi” dice qualcuno. Ma neanche loro si sono lasciati sopraffare dalla paura. Gli autisti degli autobus, i macchinisti, i tranvieri non si sono fermati. I nostri politici, che stanno cercando di fare la cosa giusta, non si sono fermati. E, credetemi, non è facile riuscire sempre a non sbagliare. E il nostro Premier ritardatario, che non ci sta lasciando da soli. Un grazie è anche per i nostri poliziotti, che sono rimasti in servizio e neanche loro si sono mai arresi. Grazie, grazie e ancora grazie a voi citati, che siete gli eroi della nostra quarantena.

È difficile, ma anche noi dobbiamo fare il nostro piccolo. Molte persone stanno lavorando in smart-working, altre hanno perso il lavoro, altri non stanno lavorando e non percepiscono lo stipendio. Ma riaprire tutto e subito non è la soluzione. La soluzione è rispettare le misure di sicurezza, non violare la quarantena, mantenere le distanze di sicurezza. Non possiamo rischiare di riaprire. Troppe persone stanno perdendo la vita, troppe persone non stanno rispettando l’isolamento, troppi ragazzi vanno a trovare la fidanzatina o viceversa. E questo non è il momento di ribellarsi. Dobbiamo rispettare le regole e attenerci alle disposizioni che il Governo ci ha dato, che NON possiamo permetterci di non rispettare. Non bisogna sottovalutare questa bestia che è il CoronaVirus. Ben 154 medici hanno perso la vita, contagiati in corsia. Sono morti per NOI e noi non possiamo vanificarlo. Ci siamo dentro insieme, chi in un modo e chi in un altro, ma insieme #celafaremo. 

Ora più che mai ci sentiamo parte di una stessa realtà, che è l’Italia. Ci teniamo per mano virtualmente, nella speranza di poterci abbracciare ancora.

Giuseppe Conte ci disse “se ami l’Italia, mantieni le distanze”; cara Italia, io ti amo e per questo domani andrò a trovare i miei nonni, ma resterò a 1 metro di distanza.

Cara Italia, noi sconfiggeremo la bestia insieme.

Cara Italia, il tuo popolo ti ama e non ti lascia sola.

Cara Italia, tu che sei tutta un contrasto, che sei moderna ma ricca di antichità, che sei santa ma macchiata, che sei calma, ma allo stesso tempo sei potenza, che sembri invisibile, ma sei la più colorata. 

Cara Italia, oggi più di ieri mi meraviglio e sono orgogliosa di te.

Cara Italia, mi chiamo Gaia e ho solo 16 anni, ma per te voglio far sentire la mia voce.

Manzoni racconta il nostro tempo

di Elisa Albè - 7 marzo 2020

Quando si dice che un autore è un classico… Ecco, forse Manzoni lo è perché ha saputo descrivere l’umanità di sempre nei suoi comportamenti universali e, purtroppo, immutabili, nonostante un indiscutibile progresso. In questi giorni è interessante andare a rileggere il capitolo XXXI dei Promessi Sposi.

Manzoni, a questo punto del romanzo, interrompe la narrazione delle vicende dei promessi sposi per dedicarsi con cura scrupolosa alla trattazione storica di un evento sconvolgente, l’arrivo di una epidemia nel milanese (guarda che coincidenza…). L’autore, già in principio di capitolo, non manca di sottolineare come le fonti dell’epoca fossero confusionarie e mal organizzate, in quanto i fatti narrati dall’una, mancano in altre; si profila in tal modo una generale inattendibilità delle fonti, proprio come oggi sono confuse le nostre fonti di informazoni, alimentate dalle cosiddette, per usare un inglesismo, “fake news”: esse non fanno che alterare l’opinione pubblica, facilmente influenzabile, con informazioni, oltre che infondate, assolutamente prive di qualsiasi base scientifica, ma in grado di seminare il panico tra la popolazione per l’eccessivo allarmismo o, al contrario, incentivare la sottovalutazione di fenomeni che non dovrebbero essere trascurati. A tal proposito interessante è leggere l’articolo di Valentina Petrini al link https://www.tpi.it/opinioni/coronavirus-genera-fake-news-20200216548550/, che testimonia una vera e propria “epidemia” di notizie false circa il coronavirus.

Manzoni prosegue con l’analisi dei comportamenti delle autorità una volta venute a conoscenza del contagio: inizialmente non vengono adottate misure di sicurezza e, anzi, i delegati inviati a fare il punto della situazione vengono messi quasi a tacere come accadde anche al protofisico Lodovico Settala, che riconobbe i sintomi del tutto simili alla peste del 1576. L'episodio è accostabile alla storia del medico cinese, primo a scoprire il nuovo virus che presentava analogie con la già conosciuta Sars: egli lanciò l’allarme ma rimase inascoltato e addirittura esortato a firmare una lettera in cui dichiarava di aver affermato il falso (per maggiori informazioni consultare il link https://www.ilmessaggero.it/mondo/coronavirus_morto_medico_cinese_diede_allarme_arrestato-5033506.html). Tutto questo ci dice qualcosa su come l’esperienza a nulla serva all’uomo che, pur avendo a disposizione innumerevoli esempi concreti tratti dalla storia, continua a cadere negli stessi errori.

Tornando a Manzoni, egli, come del resto le fonti da lui consultate, denuncia una generale sottovalutazione dell’epidemia, che in breve penetrò anche a Milano dove le azioni del tribunale della sanità si fecero più sollecite quando ormai nulla avrebbe potuto arrestare il contagio, troppo tardi insomma. Prosegue quindi la polemica manzoniana estesa non solo ad autorità e vertici politici bensì anche all’intera popolazione contro quell’irrazionalità e incoscienza che si diffusero tra tutti i cittadini, nell’ostinarsi, pur di fronte a segni inequivocabili, a non voler vedere, a non voler capire, a non voler parlare: un’ira furibonda si scatenò nei confronti di chi esortava ad adottare misure di sicurezza contro la peste. Peste: male impronunciabile a tal punto da proporne un nomignolo attenuato, febbri pestilenziali, quasi a voler cancellare col nome anche l’identità della malattia stessa, quasi a scongiurare un pericolo, che nonostante la caparbia e volontaria cecità della popolazione, continuava silenziosamente a mietere vittime. Silenzio voluto, inizialmente, soprattutto dai vertici politici, desiderosi di portare avanti i propri interessi bellici, cosa che oggi potrebbe essere declinata in termini economico-politici, la storia in fin dei conti non cambia mai: “i soldi, prima di tutto” come ci racconta l’articolo al seguente link https://www.lastampa.it/esteri/2020/02/20/news/partito-da-una-email-l-ordine-ai-medici-di-tacere-sul-virus-1.38489999.

Misure contenitive intanto vengono prese, parola chiave “isolamento” che però, se al giorno d’oggi è riuscito a limitare e circoscrivere, per quanto possibile, i contagi, non altrettanto efficace fu nel 1629, quando processioni religiose e “riti propiziatori” erano all’ordine del giorno per scongiurare quei mali che in tal maniera si diffondevano ancor più rapidamente nella più totale noncuranza popolare. Forse in questo abbiamo fatto progressi!

E così altri peccati, oltre la miscredenza del pubblico, contribuirono allo sviluppo di quella che può essere definita una pandemia anche inerzia, lentezza, burocrazia, vizi che ancora oggi si fatica a debellare dalle istituzioni pubbliche. La mortalità intanto aumentò, le vittime divennero sempre più numerose ma questo poco importava, una strana curiosità piuttosto stava in animo alla gente: sapere chi fosse stato il primo appestato a portare l’epidemia a Milano; ma a che importa, potremmo noi oggi commentare, eppure tutt’ora si è in cerca del cosiddetto paziente “zero” che ha contagiato il nord Italia, insensata ricerca dal mio punto di vista, dato che ormai gran parte delle regioni della penisola contano svariate persone affette da COVID-19 (opinione condivisa giorni fa come dimostrato dal link https://www.liberoquotidiano.it/news/italia/13567544/coronavirus-giulio-gallera-paziente-zero-non-si-trova-perche-non-serve-piu-bilancio-lombardia.html).

A tanta irrazionalità si aggiunse poi l’ipocrisia della popolazione quando, finalmente, davanti a prove evidenti, nessuno avrebbe più potuto negare l’esistenza della peste: la gente iniziò ad avere realmente paura, paura tale da tacere, ora, per timore della contumacia e del lazzaretto. Ci si adoperò dunque per “vettovagliar”, accumulare scorte prima che l’evidenza del contagio inducesse a vietare i commerci col milanese, situazione estremizzata in questi giorni a causa del coronavirus, che ha visto interi supermercati presi all’assalto e svuotati in poche ore (a tal proposito interessanti sono articolo e immagini al link http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Coronavirus-assalto-ai-supermercati-in-Lombardia-scaffali-vuoti-e-carrelli-pieni-73369110-9d81-48f4-ad28-c11ecf6e4e13.html#foto-5)...nemmeno ci fosse davvero la peste!

Insomma...proprio come Manzoni al termine del capitolo XXXI, non posso fare altro che concludere con un appello alla razionalità, affinché la popolazione italiana non si lasci impressionare dalla spettacolarità di certi eventi più che da ragionamenti fondati scientificamente.

Omnia mutantur

di Greta Cardillo - 26 febbraio 2020

Per parlare del cambiamento vorrei rubare un’espressione che abbiamo utilizzato in classe a proposito delle Metamorfosi di Ovidio: l’unica costante è il cambiamento

Dell’essere umano, o meglio della natura, l’unica costante è il cambiamento. Ce lo dice Ovidio e ce lo dice Darwin. La trasformazione, l’evoluzione sono la base della vita. 

Darwin, in particolare, afferma che le specie in grado di adattarsi ai cambiamenti sono le uniche destinate a sopravvivere. Egli sostiene che anche il più piccolo cambiamento all’interno di un organismo, essendo fonte di evoluzione, potrebbe salvare la vita alla sua specie di appartenenza. 

Il cambiamento, però, non è soltanto fondamentale, ma anche inevitabile. In un essere umano adulto ogni giorno muoiono dai 50 ai 100 miliardi di cellule. In un anno la massa delle cellule ricambiate è pari alla massa del corpo stesso e ogni 5/7 anni tutti gli atomi del corpo si rigenerano completamente. Siamo completamente nuovi.

Eraclito, filosofo del presocratico, afferma, in modo meno scientifico, che “nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo”. Insomma “panta rei”, tutto scorre perché tutto è soggetto al cambiamento. 

Il dizionario della lingua italiana afferma che con il termine “cambiamento” s’intende un “mutamento improvviso di situazione, di uno stato di cose”. Questo mutamento improvviso di situazione può partire dal singolo “decido di cambiare” o può essere imposto dal destino/fato/Dio, come preferite. Quando viene “imposto” il cambiamento può essere positivo o negativo ed è per questo che in psicologia viene definito come lutto e in quanto tale necessita di un periodo di elaborazione. 

La morte è un cambiamento. Perdere una persona cara è un mutamento improvviso di situazione. Eh sì…cambiare non significa solo evolversi, cambiare significa anche perdere

La maggior parte delle persone, infatti, teme i cambiamenti e li fuggono. La cosa interessante è che non sono gli sciocchi ad averne paura, ma anche gli intellettuali, i saggi!

Verga, per esempio, rifiuta il cambiamento perché sa che è pericoloso. Egli afferma che l’uomo che lo brama, che cerca di migliorare la propria condizione è destinato a essere vinto. E allora, chi potrebbe mai salvarsi? Nella novella Fantasticheria scrive: “uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace com'è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui”.

Per non parlare di Pascoli, che ha rinunciato a vivere la propria vita per ricostruire quella passata, per ricostituire il nido disgregato. Che non abbia rinunciato a vivere la sua vita per paura di soffrire nuovamente come già gli era accaduto? 

Ma è vita evitare di vivere per non soffrire? Quante volte scappiamo e ci nascondiamo per paura di soffrire? Quanti litigi evitati, quante occasioni ignorate, quante sfide schivate per paura di fallire?

C’è una canzone in Frozen II che dice:

“I can hear you but I won't

Some look for trouble while others don't

There's a thousand reasons I should go about my day

Everyone I've ever loved is here within these walls

I've had my adventure, I don't need something new

I'm afraid of what I'm risking if I follow you

Into the unknown”.

Il problema dei cambiamenti è proprio dovuto al fatto che ti conducono “into di unknown”, che ti muovi alla cieca.

Ma quindi cosa bisogna fare? Perseguire il cambiamento o cercare la stabilità e rimanere attaccati al proprio scoglio?

La posizione di Leopardi, a riguardo, mi piace molto di più. Lui è un Titano, un combattente, lui sa che la vita è destinata alla sofferenza ma decide comunque di combattere: si getta a terra, grida e freme. Egli anela al cambiamento e anela alla libertà. In uno dei passaggi che mi piacciono di più della lettera che scrive al padre prima di tentare la fuga da Recanati possiamo leggere: “Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d’ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz’altro pensiero.”

Sono d’accordo con Leopardi: disprezzo quando prudenza e paura ci impediscono di fare grandi cose e credo che i cambiamenti siano le occasioni che abbiamo per rendere la nostra vita un capolavoro. Certo, per fare ciò dobbiamo accettare la possibilità della sofferenza e la probabilità del fallimento. Leopardi scrive: “Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi”.

Nella mia vita ho attraversato tanti cambiamenti, alcuni più difficili e dolorosi di altri e posso dire con certezza che non ci si può abituare al cambiamento. Ci si adatta, sì. Ma non ci si abitua. Ogni cambiamento è a modo suo unico e difficile da affrontare. Ci sono i cambiamenti desiderati e premeditati e ci sono cambiamenti inaspettati e sconvolgenti. Non possiamo scegliere quali la vita ci metterà davanti, ma possiamo decidere come affrontarli. 

Personalmente sto per giungere a una grande svolta: il mio percorso scolastico sta per concludersi. Ho iniziato nel 2007 e tra più o meno cinque mesi si sarà concluso. Non so come si senta chi come me è a un passo dalla Maturità, ma io sto morendo di paura (me la sto letteralmente facendo sotto). In un tema di qualche anno fa scrissi “Ora non temo più il cambiamento, lo bramo come il più autentico dei tesori.”. Oggi sento di dire “Ora temo il cambiamento come la paura più profonda e lo bramo come il più autentico dei tesori”.