A T T U A L I T À

Manifestazione al palazzo della regione

di Alex Di Mattei - 16 aprile 2024

Dato l'annullamento dell'incontro “voce agli studenti”, previsto per il 20 Marzo, tra la regione e l’UDS Lombardia i ragazzi hanno manifestato  per esprimere il proprio dissenso. 

Si sono trovati nella piazza del palazzo della Regione a Milano per manifestare il proprio dissenso. Con striscioni, fumogeni e la gigantografia di una pagina dell'agenda dell'assessora all'istruzione, alla formazione e al lavoro Tironi si sono fatti sentire. 

Successivamente sono stati chiamati da Emanuel Piona, capo dell'assessorato istruzione della regione lombardia.

Due rappresentanti di UDS sono andati a colloquio, dove la regione ha dato la disponibilità a fissare una nuova data. 

Il giorno 17 Aprile alle ore 15 UDS potrà incontrare l'assessora Tironi, anche se non nelle modalità richieste inizialmente. 

Quali sono le richieste?

In generale si richiede un confronto con la Regione per mettere alla luce problematica e cercare soluzioni. 

In particolare lo stanziamento di fondi sufficienti ad assicurare il diritto allo studio a tutte e tutti, quindi comprendendo materiali scolastici e mezzi di trasporto, sportelli psicologici funzionanti, educazione sessuale nelle scuole e rappresentanza studentesca nei CFP.


“Come Unione degli Studenti riconosciamo l’impegno e la disponibilità da parte della Regione nel concederci questo incontro e attendiamo volenterosi di poterlo svolgere in modo tale da presentare in maniera chiara le problematiche e le richieste degli studenti lombardi.”

Foto di  LVDC

Foto di LVDC

Foto di LVDC

Bambino autistico di 7 anni cacciato da una conferenza in una scuola di Afragola: cosa ha scatenato questo evento nell’opinione pubblica?

di Simone Piazza - 03 aprile 2024

È accaduto tutto il 7 febbraio 2023 nell’istituto “Europa Unita” di Afragola durante una conferenza in aula magna per riflettere sul tema del bullismo.


Secondo la preside che ha compiuto questo atto, “ Il ragazzo stava disturbando e continuava ad interrompere il discorso”. Di conseguenza il ragazzo è stato allontanato dall'aula dopo che la direttrice aveva detto alla maestra di prenderlo e portarlo in classe,pronunciando proprio queste parole ingiuriose: <<Prendete quel ragazzo e portatelo in classe>>.


L'evento ha sicuramente scatenato moltissime polemiche: innanzitutto, i genitori del bambino hanno subito contattato l’istituto per capire cosa fosse successo veramente. Dopo aver capito l’andamento dei fatti, hanno deciso di procedere per vie legali e per questo motivo ci sarà sicuramente un processo contro la direttrice. Ultimo ma non meno importante è stato l’aver diffuso i video e le immagini di ciò che è accaduto sui social e sulla rete in generale per divulgare a tutti una scena definita “vergognosa ed estremamente deplorevole” da moltissime persone che hanno anche dimostrato la vicinanza morale alla famiglia. 

Di fronte a questa ondata di polemiche e di interviste da parte di moltissimi giornalisti alla preside, quest’ultima non ha potuto fare altro che cercare un modo per attenuare la gravità del gesto dicendo, ad esempio, che non era sua intenzione offendere e denigrare il ragazzo ma era solo un modo per punire atteggiamenti che lei riteneva scorretti. La frase che ha sconvolto molte persone e che ha suscitato la rabbia e quindi una ulteriore ondata di polemiche è stata quella dove aveva accusato tutti di averla resa un mostro quando non lo era, ammettendo di aver sbagliato i modi e di voler incontrare i genitori.


Ovviamente è opportuno dire che i commenti sulla rete devono essere fatti in maniera corretta e responsabile, facendo valere il proprio pensiero in modo educato. Il gesto da lei compiuto rimane però scorretto e ingiustificabile, dando un cattivissimo esempio ai più piccoli ma, in generale, a tutti. Mai come ora la famiglia è supportata dell'Italia intera che spera, oltre al fatto che ci siano delle conseguenze esemplari per la preside, che l’Italia non debba mai piu’ osservare comportamenti così scorretti e inappropriati.

Assemblea Pubblica 

di Alex Di Mattei - 28 marzo 2024

Venerdì 23 Febbraio UDS Busto Arsizio ha riunito studenti della provincia di Varese per confrontarsi sulle problematiche e e sulle richieste da portare all'incontro che hanno ottenuto con la regione.


Le principali questioni che sono state affrontate riguardano i seguenti temi:


-𝗘𝗱𝗶𝗹𝗶𝘇𝗶𝗮: concentrandosi sulla mancata manutenzione delle scuole; l'assenza di strutture accessibili per persone con disabilità, come bagni dedicati e ascensori; le "classi pollaio", dovute alla mancanza di spazi o alla mal organizzazione di essi.


-𝗜𝗻𝗰𝗹𝘂𝘀𝗶𝘃𝗶𝘁𝗮': per creare un ambiente scolastico sicuro è emersa la necessità dell'attivazione delle carriere alias in tutte le scuole della regione, il congedo mestruale e l'introduzione di corsi volti alla diversità culturale.


-𝗖𝗙𝗣 (𝗖𝗲𝗻𝘁𝗿𝗶 𝗱𝗶 𝗙𝗼𝗿𝗺𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗣𝗿𝗼𝗳𝗲𝘀𝘀𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲): si richiede un regolamento d'istituto anche per CPF, in modo tale da garantire assemblee e rappresentanza degli studenti negli ambiti decisionali.


-𝗕𝗶𝗹𝗮𝗻𝗰𝗶𝗼 𝘀𝗰𝗼𝗹𝗮𝘀𝘁𝗶𝗰𝗼: ricodificare il bilancio scolastico in modo che sia accessibile a tutti.


-𝗧𝗿𝗮𝘀𝗽𝗼𝗿𝘁𝗶: si richiede un sistema di mezzi pubblici più efficiente e sicuro. Inoltre, piste ciclabili continue e sicure insieme a zone pedonali davanti alle scuole.


-𝗗𝗶𝗿𝗶𝘁𝘁𝗼 𝗮𝗹𝗹𝗼 𝘀𝘁𝘂𝗱𝗶𝗼: ovvero accessibilità per tutti ai materiali scolastici, non pienamente soddisfatta da dote scuola e reddito di formazione.


-𝗣𝗖𝗧𝗢: rispetto ai correnti corsi basati sul "Testo Unico sulla Salute e Sicurezza sui luoghi di lavoro" è necessario che siano affiancati da corsi adeguati e coerenti rispetto alle attività di PCTO del proprio indirizzo


-𝗜𝘀𝘁𝗿𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲: necessaria è l'introduzione in tutte le scuole di corsi di educazione finanziaria, al fine di rendere i giovani più consapevoli.


-𝗣𝗮𝗿𝘁𝗲𝗰𝗶𝗽𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲: riscontrando una carenza di partecipazione degli studenti nel contesto scolastico, è stato richiesto di introdurre il diritto ad assemblee scolastiche periodiche. È stata sottolineata l'importanza dell'introduzione di più mezzi di socialità, come un giornalino scolastico, un collettivo e uscite didattiche.

Queste sono le esigenze durante l'assemblea, ma non saranno parole al vento. Infatti UDS Lombardia ha ottenuto un incontro con la regione (la cui data è ancora incerta) durante il quale ogni territorio porterà un intervento sulla base di ciò che gli studenti del luogo, parte o meno di UDS, percepiscono nelle proprie scuole.


Il 23 Febbraio 2024 è stato un momento di confronto libero tra studenti che avvertono diversi disagi all'interno delle scuole ma che non vogliono fermarsi alle lamentele. In generale, i giovani studenti vogliono mettersi in gioco per una scuola migliore e, di conseguenza, un mondo migliore.

Foto di LVDC

Foto di LVDC

Sciopero al Candiani

di Alex Di Mattei - 19 marzo 2024

Il 7 Marzo centinaia di studenti hanno scioperato al Candiani di Busto Arsizio con striscioni e cartelli: “Questa è la goccia che ha fatto traboccare il Candiani”. Gli studenti hanno chiesto un incontro sul momento con la Dirigente scolastica, ma quest’ultima ha rinviato l’incontro dichiarandosi disponibile a riceverli solo il giorno seguente. 

La manifestazione è iniziata alle ore 8:00 e sono state presentate tutte le motivazioni dello sciopero, che è proseguito tutta la mattina con un’assemblea pubblica dove si ha avuto la possibilità di partecipare attivamente, riportando testimonianze, esempi concreti e dubbi riguardanti i problemi riscontrati. 


I principali punti che hanno portato gli studenti del Candiani ad attivarsi sono:

-danni infrastrutturali quali infiltrazioni, presenza di muffe, buchi nel soffitto e negli infissi, cadute di intonaco e muratura...


-la necessità di riposizionamento delle classi per via delle aule chiuse, questo ha causato moltissimi problemi, come classi costrette a fare lezione in corridoio e in aule non consone a svolgere le materie di indirizzo e non solo


-le vasche di cemento per l’argilla vecchissime, che si sgretolano e perdono, rendendola inutilizzabile. All’interno delle quali sono stati trovati più volte vermi, uova di insetti, muffe e licheni


-I lavandini delle classi che sono in condizioni indecenti, costantemente otturati  o soggetti a perdite, alcuni straripanti di acqua sporca  da mesi


-le barriere e i bidoni per raccogliere l’acqua piovana che sono ormai talmente tanti da ostruire il passaggio degli studenti

-gli studenti dell’indirizzo di grafica che hanno difficoltà a svolgere le lezioni per via della connessione internet scadente e delle poche prese di corrente a disposizione.


Questi sono solo alcuni dei problemi fatti presenti dagli alunni del liceo artistico Candiani. Molti hanno radici profonde nella loro scuola ma non solo, infatti da anni ormai le regioni, il ministero, lo stato riducono sempre di più i fondi destinati alla manutenzione delle scuole pubbliche, portandole ad affrontare situazioni invivibili (basti pensare allo sciopero di qualche mese fa del Falcone o tutte le occupazioni che stanno svolgendo gli studenti delle scuole di Milano).  

Speriamo che lo sforzo non sia stato vano e che le rivendicazioni vengano ascoltate e la questione approfondita. 

Foto di LVDC

Foto di LVDC

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Foto di LVDC

Manifestazioni Palestina 

di Di Mattei Alex - 20 febbraio 2024

Quest'anno 2024, dopo le pressioni da parte dei rappresentanti al vertice delle comunità ebraiche in Italia, il ministro dell’interno Piantedosi ha espresso il consiglio di rinviare le manifestazioni per la Palestina in programma per il 27 gennaio, evitando così la sovrapposizione con quelle previste per il Giorno della Memoria.

Nonostante questo in tutta Italia si sono riuniti cortei non autorizzati a sostegno della Palestina e in opposizione a questo divieto. A Roma a in Piazza Vittorio si sono riuniti collettivi studenteschi ed universitari e esponenti della comunità palestinese di Roma. Dieci blindati hanno circondato la piazza in vista di una grande affluenza e per il timore della presenza di gruppi di estrema destra.

A Milano invece da piazzale  Loreto si sono riunite numerose persone anche appartenenti a collettivi studenteschi. Il corteo è stato bloccato dalla polizia verso l'entrata di via Padova, con lo scopo di disperdere i manifestanti. A Napoli gli attivisti del centro sociale Mezzocannone sono comunque scesi in piazza nonostante la richiesta di rinvio. In piazza San Domenico, ragazzi ed adulti hanno manifestato con lo slogan "giornata della memoria tradita".

Il 27 gennaio 2024 le persone che hanno manifestato hanno voluto esprimere il proprio dissenso verso lo stop e schierarsi a favore delle vittime del genocidio che sta avvenendo in Palestina.

"Never again" è uno degli slogan più utilizzati.

Foto di LVDC

Foto di LVDC

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Manifestazione antisemitista a Vicenza... Ma è ancora possibile nel 2024?

di Piazza Simone - 06 febbraio 2024

Purtroppo ancora oggi siamo davanti ad un evento spiacevole che non sarebbe mai dovuto accadere e in modo indiretto o meno tocca ognuno di noi. Ma cos’è stato a generare tutto ciò? E soprattutto, perché?


Siamo a Vicenza, dove domenica 20 gennaio si svolgeva la Fiera del Gioiello ma sia nella mattinata sia  nel pomeriggio di quello stesso giorno i centri sociali contro Israele hanno protestato e quasi raggiunto la Fiera, dove erano presenti anche i saloni gestiti da alcuni ebrei. L’azione sarebbe stata volta alla protesta contro la guerra Israele - Hamas, ma poi è degenerata a livelli estremi tanto da richiedere l’intervento delle forze dell’ordine, dato che molti iniziarono a mettere in atto  comportamenti assai violenti, anche a livello verbale.   


Nel corso della mattinata si è cercato di disperdere la folla il più possibile ma tutto ciò ha avuto esiti fallimentari e anzi, ha peggiorato di più la situazione. Inizialmente si pensava ad una semplice protesta, poi invece il tutto si è tramutato in scontri molto violenti con le forze dell’ordine con esplosivi e con il tentativo di rompere i cancelli per entrare alla Fiera. Nel pomeriggio, un secondo corteo è partito seguendo lo stesso percorso del primo che, dopo ore, è stato deviato. Tuttavia l’intenzione era la medesima ma i manifestanti erano molto più aggressivi e questo ha provocato molti feriti, alcuni anche gravi. Inoltre, sono state anche moltissime le offese a livello verbale sia verso le forze dell’ordine, sia verso il popolo ebraico in generale. Sono state pronunciate frasi quali: <<Andatevene da qui>>, oppure <<Sono la causa di tutti i mali del mondo>> e ancora altre offese molto più pesanti quali:  <<I tempi del fascismo erano meglio>> e altre di questo tono.

Al termine di questa manifestazione che si è spinta ben oltre l’ammissibile, richiamando comportamenti indubbiamente di odio verso gli ebrei e in generale verso  tutto Israele, sono state trovate disegnate delle svastiche e delle scritte con significato affine alle frasi precedentemente citate sui muri dei cancelli che sono stati danneggiati.   Subito dopo, il sindaco di Vicenza, Giacomo Possamai, ha espresso il suo disappunto a riguardo ritenendosi “preoccupato e amareggiato” per quello che sarà il futuro.


 È bene ricordare che questi non sono stati gli unici episodi di antisemitismo in Italia e in Europa: anche a Parigi e in altre città sono avvenuti e sembra che la causa scatenante sia sempre il conflitto in corso. Per questo, il rabbinato di Milano ha già preso delle precauzioni suggerendo ai fedeli, ad esempio, di non uscire di casa con la kippah o altre vesti simili.


Il conflitto in corso sta giocando un ruolo fondamentale, ma atti simili non possono essere tollerati anche a livello legislativo.

Col tempo tutto ciò riuscirà ad affievolirsi o scomparire del tutto?

Fondi per i disturbi alimentari: le briciole non bastano

di Sofia Mauri 23 gennaio 2024

Foto di fanpage.it

Nella società contemporanea, il peso delle aspettative e dei modelli di perfezione si estende in modo sempre più diffuso. Siamo spesso guidati dal forte bisogno di conformarci a standard prestabiliti per ottenere accettazione e approvazione. Ogni giorno veniamo spinti ad adattarci a modelli di perfezione che ci costringono a trascurare il nostro benessere emotivo e che spesso portano ad una relazione disfunzionale tra il cibo e il proprio corpo. Questa pressione sociale, alimentata dalla presenza di social media e da ideali irrealistici di bellezza, può avere conseguenze profonde sulla nostra salute mentale e fisica.
Il rischio è, infatti, di innescare comportamenti alimentari nocivi, trasformando il cibo da fonte di nutrimento ad una di ansia e controllo.

In questo contesto, si fanno spazio i Disturbi del Comportamento Alimentare, anche noti come DCA, che manifestano la dolorosa lotta per aderire ad ideali esterni. Si tratta di problemi legati all'alimentazione, caratterizzati da abitudini disordinate di mangiare e preoccupazioni eccessive riguardo al peso e alla forma corporea. Questi includono, ad esempio, l'anoressia nervosa, la bulimia e il binge eating disorder.
Parliamo di vere e proprie malattie invalidanti che, a volte, corrono il rischio di essere potenzialmente mortali: basti pensare che sono la prima causa di morte tra i ragazzi subito dopo gli incidenti stradali e che solo nel 2023, in Italia, sono morte oltre 3.700 persone affette da questi disturbi. Inoltre, nonostante la loro rilevanza, spesso se ne parla poco, mentre in realtà rappresentano un enorme problema per la salute pubblica. Infatti, secondo la survey nazionale del Ministero della Salute 2019-2023, i casi di DCA in Italia sono continuamente in aumento, passando da 680.569 nel 2019 a 1.450.567 nel 2022.

La consapevolezza e la comprensione di questi disturbi sono fondamentali per migliorare il sostegno e la prevenzione poiché, se non vengono affrontati con tempestività e tramite approcci appropriati, possono mettere a serio rischio la salute di tutti gli organi e sistemi del corpo. Proprio per questa ragione trovo assurdo che, con la nuova Legge di Bilancio, si sia prima azzerato, poi comunque ridotto da 25 a 10 milioni, il fondo per la lotta contro i disturbi dell'alimentazione e della nutrizione. Infatti, la scelta del Governo Meloni potrebbe portare alla chiusura di molti servizi sanitari dedicati ai disturbi alimentari, mettendo in pericolo la salute di oltre 22mila pazienti.

La situazione avrebbe potuto aggravarsi ulteriormente se le persone non avessero reagito di fronte all'annuncio della cancellazione dei finanziamenti. Il ruolo che hanno avuto le proteste è stato fondamentale, anche se i risultati non sono ancora sufficienti. Infatti, il presidente dell'associazione contro i DCA afferma che i 10 milioni di euro annunciati dal Ministro, non sono abbastanza per risolvere il problema. La vera soluzione, secondo lui, risiede nell’attuare una legge votata al Senato nel 2022, che mira a garantire un percorso autonomo per i disturbi alimentari all'interno dei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), separandoli dalla categoria della salute mentale. Il presidente sottolinea che i disturbi alimentari coinvolgono non solo il benessere psicologico, ma anche fisico e richiede quindi un approccio più completo e risorse uniformi su tutto il territorio italiano.
Nonostante ciò, il Governo sembra ignorare questa richiesta, credendo che 10 milioni bastino a placare il malcontento, quando in realtà si tratta di solo poche briciole. 

Il Fondo per i disturbi alimentari era stato creato con la Manovra 2022 dal Governo Draghi, da distribuire equamente tra le regioni. Questo fondo è rimasto attivo per il biennio 2023-2024 e il suo scopo principale era quello di far aumentare il numero di ambulatori e reparti specializzati, assenti in molte regioni. Ciò ha significato molto per famiglie che ora invece, viste le nuove decisioni prese dal Governo, si potrebbero ritrovare da sole ad affrontare situazioni estremamente complesse, difficilmente superabili senza l’aiuto di persone qualificate.

Riflettendo su questa situazione, ritengo sia fondamentale approfondire la comprensione di questa tematica e invito chiunque a non sottovalutare questo problema poiché, anche se ben nascoste, siamo circondati da persone che soffrono a causa di questa malattia. È quindi estremamente importante promuovere il dialogo su questo argomento perché ogni singolo passo in avanti verso la consapevolezza può fare la differenza.

Per questo, invito chiunque stia leggendo a pensare a come potremmo far sì che si presti una maggiore attenzione e impiego di risorse nei confronti dei DCA. È importante comprendere che questo non riguarda solo numeri e statistiche, ma il benessere di individui che meritano sostegno. La battaglia contro i disturbi del comportamento alimentare richiede un impegno personale e collettivo, affinché si crei un ambiente in cui la salute mentale sia una priorità.

Fonti dell'articolo: quifinanza.it, salute.gov.it, neomesia.com, ansa.it, fanpage.it


Elezioni presidenziali negli Stati Uniti

di Pietro Silvestrini 9 gennaio 2024

Il 5 novembre 2024 si terranno le elezioni presidenziali negli Stati Uniti e questo evento vedrà coinvolti due partiti: i democratici e i repubblicani.


Alla guida del partito democratico si candiderà l’attuale presidente Joe Biden con la sua vice Kamala Harris, mentre per quello repubblicano si presenterà Donald Trump. Quest’ultimo, ex presidente dal 2017 al 2021, è stato escluso dalle elezioni primarie del Colorado e del Maine in seguito alla violenta marcia avvenuta a Capitol Hill il 6 gennaio 2021. Quel giorno i repubblicani contestarono che l'elezione di Joe Biden non era stata legale e di conseguenza i democratici definirono l’evento un colpo di stato volto a prendere il potere. 


Attualmente, come rivela un sondaggio del Wall Street Journal, Donald Trump è preferito a Biden, leader dei democratici che sta riscontrando dei problemi con la legge. Il Congresso USA ha infatti autorizzato un’indagine per impeachment contro di lui, con l’accusa di aver usato la sua influenza, quando era vice di Obama, per permettere al figlio Hunter di condurre affari in Cina e Ucraina. A rendere più difficile la posizione del padre c’è anche l’accusa dal ministero della Difesa russo di aver finanziato laboratori segreti per lo sviluppo di armi biologiche.


Il tema delle elezioni negli Stati Uniti è molto importante dal punto di vista della geopolitica: Biden non è intenzionato a sostenere una tregua per Gaza nella guerra tra Israele e Hamas e per questo Trump potrebbe essere votato da Stati ad alta presenza di musulmani come il Michigan. Per la questione ucraina il Congresso USA, a maggioranza repubblicana, ha deciso di bloccare gli aiuti richiesti da Joe Biden dicendo che entro fine anno sarà finito il denaro per le spese militari. Trump invece dice di poter porre fine alla guerra in sole 24 ore e questa premessa gioca a suo vantaggio. Inoltre, il leader repubblicano non crede nell’utilità della Nato e dagli alleati del Patto Atlantico si teme, in caso fosse eletto, l’abbandono americano dell’alleanza e dell’Europa che, non protetta più dagli storici alleati, potrebbe diventare facile bersaglio per un’invasione militare da parte della Russia. 


Negli ultimi giorni Donald Trump ha affermato sui social che il suo Paese è governato da delinquenti pazzi e malati che, con l’inflazione, le tasse elevate e la crisi della forze armate per le due guerre attuali, stanno cercando di distruggere gli Stati Uniti e per questo dovrebbero marcire all’inferno. 


E’ evidente l’attuale tensione all’interno della politica americana e il voto dei cittadini condizionerà in modo significativo la geopolitica mondiale a causa del diverso pensiero dei due leader. Riusciranno Trump e Biden a portare avanti la campagna elettorale senza essere fermati dalla legge? 

Assemblea d'istituto del 27 Novembre 2023

di Sara Hadif, Iris Daniele e Giulia Casero 3 dicembre 2023

Il  27 Novembre si è svolta l’assemblea d’istituto al teatro Manzoni, in occasione della quale si è parlato dell’attuale conflitto fra Israele e Palestina.

Per l’evento, sono stati invitati  due giornalisti: Giancarlo Gioielli e Giorgio Bernardelli che hanno vissuto per molti anni in Israele,  potendo così conoscere la realtà di questo popolo.

I giornalisti si sono resi disponibili a rispondere alle domande degli studenti raccontando anche molti aneddoti riguardo alla loro esperienza; tutto con grande professionalità e senza influenzare in alcun modo l’opinione dei ragazzi così da permettere ai giovani di formare una propria opinione al riguardo.


Alcuni degli aneddoti raccontati dai giornalisti hanno colpito molto i presenti; ricordiamo in particolare di quando è stato raccontato delle famiglie Israeliane che hanno due o più figli e che sono costrette a far salire ogni figlio in un autobus diverso per tentare, in caso di attentato, di salvarne almeno uno.


Durante l’incontro Giancarlo Gioielli e Giorgio Bernardelli hanno anche spiegato a tutti gli studenti del Crespi la storia centenaria del conflitto israelo-palestinese.


Tutto cominciò nel 1880 quando nacque il sionismo dalle comunitá ebraiche; uniti dalla religione e stanchi delle continue persecuzioni gli ebrei, sparsi per l'Europa, cominciarono a percepire un senso di appartenenza e un legame con Gerusalemme.


Quando nel 1948 fu proclamata l’indipendenza dello Stato di Israele, i territori vennero divisi tra arabi e israeliani. Questa spartizione ingiusta per entrambi i popoli fu motivo di conflitto e, ad oggi, non ancora conclusi. 


Un altro aspetto importante da tenere presente per capire il conflitto, hanno spiegato i due ospiti,  sono le separazioni culturali e fisiche che dividono questi popoli. Il Muro che divide Israele dalla Palestina e i diversi quartieri di Gerusalemme rappresenta una barriera di pensiero: imprigiona un popolo ma rende anche prigioniero chi lo costruisce.


Negli ultimi minuti è stato chiesto agli alunni di scegliere tre parole che per descrivere quanto condiviso dai due ospiti e la parola scelta dalla maggior parte dei presenti è stata “paura”.

Ma come sconfiggere la paura?

Esiste un solo modo per sconfiggere il terrore: il coraggio.


“Cosa possiamo fare noi giovani occidentali per cambiare le cose a nostro modo?” Questa è la domanda finale posta dagli studenti.

“I giovani possono continuare ad informarsi, non rimanere esterni a queste vicende solo perché sono distanti dalle realtà che vivono” 

Noi giovani di oggi siamo il futuro del mondo, e per comprendere il mondo che un giorno guideremo dobbiamo prendere consapevolezza, anche di ciò che sembra così distante da non riguardarci.


Noi della voce del crespi, siamo anche curiosi riguardo le riflessioni dei rappresentanti di istituto che con grande impegno hanno organizzato tutto l’evento.


“ritenete che sia importante portare l’attenzione su argomenti del genere durante le assemblee d’istituto?” chiede la nostra inviata.

“Per quanto ci riguarda è fondamentale parlare di questi temi, questo perché spesso in classe non si porta l’attenzione sull’attualità a eccezione di alcuni casi, speriamo infatti che le persone si siano sentite coinvolte nonostante il peso dell’argomento dell’assemblea di oggi. Inoltre, durante le assemblee si possono raggiungere e coinvolgere più ragazzi. Queste  occasioni sono importanti anche per i ragazzi che a breve entreranno nella nostra società in quanto bisogna fare in modo che siano informati” rispondono i nostri rappresentanti.


“Com’è avvenuta la collaborazione con i giornalisti?”


“All’inizio abbiamo faticato a trovare qualcuno adatto a questo compito, fortunatamente siamo stati aiutati da una prof e da lì è stato tutto in discesa. Noi abbiamo semplicemente dato l'input per iniziare l’assemblea, ma facciamo i nostri complimenti ai nostri ospiti che hanno esposto l’argomento in modo chiaro e coinvolgente. Inoltre, avendo trovato due voci, l’assemblea è stata anche molto dinamica e interessante. Ringraziamo anche le ragazze del podcast che si sono rese molto disponibili” 


“Credete che in futuro saranno organizzate altre assemblee di questo tipo?”


“Ovviamente se si presenterà l’occasione e l’opportunità di organizzare assemblee di questo genere sarà sicuramente fatto.”

Foto delle rappresentanti d'istituto

Sciopero degli studenti

di Alex Di Mattei 27 novembre 2023

Nella giornata internazionale dedicata loro, studenti di tutta Italia hanno preso parte ad una manifestazione. In particolare, quelli delle scuole di Busto Arsizio hanno scelto, con il sostegno dell'Unione Degli Studenti di Varese e sotto lo slogan "ora decidiamo noi", di affrontare le problematiche con le quali si scontrano ogni giorno, attraverso un momento di sciopero nella piazza adiacente all'ingresso del parco Ugo Foscolo

Foto di LVDC

Foto di LVDC

Numerosi studenti si sono seduti in cerchio al fine di poter discutere faccia a faccia e comprendere insieme i disagi e le difficoltà che li accomunano. Da questo confronto sono emersi diversi desideri, come quelli di una scuola aggiornata, un'edilizia e attività di pcto sicure e un'attenzione alla crescita sociale dei giovani. Un'altra tematica molto sentita è quella del  diritto allo studio che ha evidenziato i costi eccessivamente elevati del materiale scolastico. "Vogliamo che venga tutelato davvero il nostro diritto allo studio e vogliamo una scuola inclusiva, transfemminista, ecologista e antifascista, dove non siamo considerati solo come numeri o voti, ma nella quale ci vengano dati gli strumenti per cambiare il mondo".

E ancora si è discusso riguardo alla scarsa partecipazione degli studenti alle attività didattiche, soprattutto riguardo a temi di grande attualità. È stata dunque riconosciuta l'importanza dell'educazione alla consapevolezza civica e alla condivisione.  Sono emersi alcuni disagi, come ad esempio la gestione dell'attività di alternativa o la scarsa inclusività delle minoranze.

Questa iniziativa è la prima di un percorso che si spera possa portare ad un cambiamento che permetterebbe agli studenti di vivere meglio l'esperienza scolastica e di prendere consapevolezza delle proprie potenzialità e responsabilità, così da crescere persone e cittadini, con un bagaglio culturale e morale ampio e cosciente.

Foto di LVDC

Foto di LVDC

Se domani tocca a me, voglio essere l'ultima

di Sofia Mauri, Clarissa Kalpage e Giulia Casero 25 novembre 2023

Giulia Cecchettin. Quante volte negli ultimi giorni accendendo la televisione, prendendo in mano un giornale o semplicemente scrollando tra i vari social avete sentito parlare di lei? Basta digitare il suo nome, persino omettendo il cognome, per ritrovarsi davanti ad un’infinità di articoli di ogni genere, che dapprima parlavano della sua scomparsa e, da sabato 18 novembre 2023, del ritrovamento del suo cadavere. Non intendiamo scendere nei dettagli della vicenda, raccontando con precisione come si siano svolti i fatti, perché potrete sicuramente trovare a vostra volta informazioni più dettagliate semplicemente seguendo gli ultimi aggiornamenti. Il nostro intento è, invece, quello di parlarvi di ciò che accomuna Giulia Cecchettin a Martina Scialdone, Oriana Brunelli, Teresa Di Tondo, Melina Marino, Gessica Malaj e moltissime altre donne: hanno tutte perso la vita a causa di un uomo che invece di amarle e, soprattutto, rispettarle, si è permesso di commettere atti di violenza estrema nei loro confronti, dimostrando un'assoluta mancanza di considerazione per la loro dignità e diritto alla vita. 

Prima di tutto, vorremmo focalizzarci sulla parola “scomparsa”, la stessa utilizzata da tutti i media fin dal giorno zero: Giulia non è mai scomparsa, Giulia è stata rapita e sia le prove sia le testimonianze lo confermano. Questa maniera di affrontare il caso, ci deve rendere consapevoli del fatto che si tratta di un problema culturale: molti uomini si sentono in diritto di picchiare, stuprare e uccidere le donne poiché le considerano una proprietà personale, come degli oggetti, un qualcosa di nettamente inferiore. Siamo tutti figli della stessa cultura patriarcale, dove alla base di quella che possiamo definire una "piramide della violenza di genere", ci sono battutine, molestie, cat-calling che spesso portano alla violenza fisica e, in molti casi, all'omicidio: solo dall'inizio di quest'anno, 2023, sono centouno. La drammaticità risiede nel fatto che ormai sembra sia necessario giungere ad un gesto così estremo per comprendere che non stiamo affatto progredendo. Inoltre, ciò che riteniamo altrettanto grave è che, con il passare del tempo, il ricordo dei femminicidi commessi, con la sua crudele realtà, paiono svanire dalle prime pagine, dalle conversazioni quotidiane, come se queste tragedie avessero perso il loro peso. La società, immersa in una successione ininterrotta di notizie e stimoli, spesso dimentica presto, troppo presto, la gravità di questi atti insensati. È un ciclo che si ripete e che mette in luce la necessità non solo di attirare l'attenzione sulle storie di sofferenza individuali, ma anche di sostenere un cambiamento culturale profondo. Combattere la cultura del silenzio e dell'indifferenza richiede un impegno costante e collettivo, affinché ogni vita perduta in modo ingiusto diventi un richiamo permanente alla consapevolezza e alla necessità di porre fine a questa triste realtà. Solo allora potremo sperare in un futuro in cui la memoria delle vittime non svanisca, ma che, al contrario, alimenti il desiderio di costruire un mondo in cui le donne possano vivere libere dalla paura e dalla violenza. 

Nell’immagine, Franca Viola, una donna che per prima si rifiutò di sposare l'uomo che l’aveva violentata, sfidando così le aspettative sociali e culturali dell’epoca. Il suo rifiuto di sottostare al matrimonio riparatore, sarà un punto di svolta fondamentale per tutte le donne d’Italia. 

Viviamo in un'epoca che spesso consideriamo moderna, grazie a progressi tecnologici, innovazioni e un accesso senza precedenti all'informazione. Tuttavia, osservando con maggior attenzione, è impossibile non notare le contraddizioni che sfidano questa visione di modernità. Fenomeni gravi come i femminicidi svelano una realtà in cui la strada per ottenere l'uguaglianza di genere e il rispetto dei diritti umani è ancora parecchio lunga. Eppure, in Italia, negli ultimi cinquant’anni, di cambiamenti ce ne sono stati parecchi, a partire dall’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore nel 1981.Tutto ciò potrebbe sembrarci assurdo, ma in passato, secondo il Codice Rocco dell'epoca fascista, lo stupro era considerato un reato contro la morale e non contro la persona, ed è stato ritenuto tale solamente a partire dal 1996, esattamente ventisette anni fa. 

La capacità del cinema e delle serie TV di diffondere consapevolezza sulla tematica della violenza sulle donne è fondamentale. Questi mezzi di intrattenimento, attraverso storie avvincenti, possono influenzare profondamente la percezione pubblica e suscitare riflessioni significative.

Un esempio calzante è sicuramente “C'è ancora domani”, un film di Paola Cortellesi, uscito da poco nelle sale. Ambientato nel secondo dopoguerra, narra la storia di Delia, “una brava donna di casa” che trascorre il suo tempo ad occuparsi dei suoi tre figli, di suo suocero e di suo marito, il quale ritiene sacrosanto picchiarla e umiliarla per ogni sua “mancanza”. Per guadagnare qualcosa fa iniezioni a domicilio, rammenta la biancheria e ripara gli ombrelli. Delia ha però il “difetto” di rispondere, che le causerà non pochi problemi. Dalla trama si evince purtroppo una situazione ricorrente: l'inclinazione dell'uomo a credere di possedere un potere superiore a quella della donna, giustificando così atti di violenza e umiliazione nei suoi confronti. Questo atteggiamento si alimenta spesso dalla percezione distorta che molti uomini hanno, considerando la donna limitata a un unico ruolo: quello di prendersi cura della famiglia e della casa. La dinamica si manifesta pienamente nella serie TV turca "My Home, My Destiny", tratta da una storia vera. In questo caso, è ben visibile il cambiamento negativo dell'uomo in una relazione che possiamo definire “tossica”.

La trama si incentra su Zeynep, una ragazza sperduta e messa a dura prova dalla vita,che si innamora di Mehdi, un generoso ragazzo che si preoccupa sempre per lei. La ragazza sta studiando per diventare avvocato e, una volta laureata, cominciare a lavorare. Tuttavia, questo genera una forte gelosia da parte di Mehdi, che prima non le permette di vestirsi in un certo modo, di parlare con il suo capo e di lavorare anche la sera, e successivamente la rinchiude in casa. Una delle cose alle quali lei tiene di più, però, è proprio la sua libertà, così decide di chiedere il divorzio e lasciare Mehdi. La reazione di quest'ultimo è brutale: spinto dall’ossessione nei confronti della ragazza, decide di rapirla.

Arrivati a questo punto dovremmo domandarci cosa avrebbe dovuto fare Zeynep allora? 

Foto di Mymovies.it

Foto di Thewom.it

Nell'ambito musicale le donne assumono ruoli contrastanti: se da una parte possiamo trovare canzoni che descrivono la loro incredibile forza, come Ti regalerò una rosa di Wax (“a tutte le donne che non vivono ma che ancora piangono e camminano”), dall’altra vi sono degli artisti che nei propri testi inseriscono frasi sessiste e violente. La popolarità di tali cantanti contribuisce a normalizzare stereotipi dannosi, promuovendo una visione distorta e oggettivante delle donne. Nelle canzoni di Niky Savage, ad esempio, la donna è costantemente etichettata con termini denigratori. Le sue composizioni contengono altresì riferimenti a situazioni sessuali in cui la donna è descritta come intrappolata, definita da lui stesso come "nella rete".

La responsabilità di rendere famosi artisti che lanciano tali messaggi risiede non solo negli artisti stessi, ma anche nell'industria musicale e nel pubblico. Una consapevolezza critica sulle implicazioni di tali testi può contribuire a una selezione più consapevole delle figure pubbliche che vengono elevate a modelli, riducendo così l'impatto negativo sulla percezione della donna nella società. 

Foto di Corriere.it

Anche il ruolo della letteratura e dell'arte assume un’importanza decisiva, poichè attraverso ciò è possibile dare voce alle vittime e suscitare consapevolezza.

Il grande Dante Alighieri, scrittore di molteplici opere, fu infatti il primo a raccontare la cruda realtà di un femminicidio. All’interno del Canto V dell’inferno, viene narrata la storia di Paolo Malatesta e Francesca da Polenta, i due si trovano nel girone dei lussuriosi per aver commesso un adulterio. Francesca, moglie di Giovanni Malatesta, si innamora del cognato Paolo e con lui intraprende una storia d’amore; i due continuano a vedersi in segreto ed insieme leggono le storie dei cavalieri della tavola rotonda; ben presto però, un servo rivela tutto a Giovanni, che in preda alla collera uccide i due amanti. Da questa storia possiamo comprendere che il marito Giovanni considerava Francesca una sua proprietà; che non riuscisse ad accettare il fatto che il suo onore fosse stato violato e di conseguenza che lui fosse stato umiliato davanti al resto della società; perciò decise di estrarre la spada e togliere la vita ai due per vendicarsi. 

Foto di  Wikipedia.org

L’opera di Jean-Auguste-Dominique Ingres, dipinto nell’epoca del Neoclassicismo, rappresenta la scena in cui Giovanni estrae la spada e si prepara ad uccidere i due amanti. 

Questo dipinto, essendo ricco di dettagli, rappresenta la vicenda in modo preciso; il libro che cade dalla mano di Francesca è proprio quello dei cavalieri della tavola rotonda che i due leggevano durante i loro incontri segreti; inoltre il gioco di ombre creato dall’artista rende chiare le espressioni dei personaggi, soprattutto sul volto di Giovanni, corrucciato dall’odio e dalla gelosia, possiamo intuire le sue violente intenzioni.

Dal lato opposto, in un contesto storico differente, va menzionata la figura di Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, una scrittrice italiana della fine del 1800, le cui numerose opere furono invece essenziali per l’emancipazione delle donne. Nel 1926 vinse il premio Nobel per la letteratura proprio grazie alle sue grandi capacità e ai valori che sosteneva. Credeva nella forza delle donne e nella parità di genere e anche dopo la sua morte avvenuta nel 1936, il suo ricordo continua a vivere insieme alle donne di questa generazione che portano avanti le lotte per le quali si è battuta fino all’ultimo respiro. 

La società di oggi è dunque ancora influenzata dalla cultura del possesso, che affonda le sue radici proprio nell’antichità. 

Ad oggi, come nelle guerre passate, troviamo la donna come una delle maggiori vittime degli eserciti vincitori. Esse vengono uccise, torturate, stuprate ed umiliate non solo poiché rappresentano il popolo sconfitto, ma anche perché le donne generano la vita e di conseguenza rendono possibile il futuro di una determinata popolazione. Inoltre, malgrado le lotte in cui le donne hanno pienamente dimostrato la loro forza e caparbietà, vengono ancora viste come esseri deboli e inferiori.

Ma come possiamo rendere la nostra società maggiormente consapevole e prossima ad un cambiamento? Il punto di partenza è senza dubbio l’educazione. Questa gioca un ruolo fondamentale nel plasmare le menti e le prospettive delle nuove generazioni. Attraverso un approccio educativo, incentrato sulla gentilezza e il rispetto reciproco, possiamo contribuire ad estirpare la radice della violenza di genere. Il coinvolgimento attivo degli uomini è un tassello fondamentale, così come è necessario promuovere relazioni sane basate sull’equilibrio e la considerazione reciproca: bisogna imparare a riconoscere e rispettare l'autonomia delle donne, comprendendo che la vera forza risiede nel sostenersi a vicenda. Inoltre, è doveroso tentare di eliminare determinati stereotipi di mascolinità tossica, impedendo così alla legge della forza e della prevaricazione di alimentare la cultura della violenza. Di conseguenza, alla base di tutto, vi sono rispetto, empatia e ascolto attivo. 

Anche la nostra scuola ha ritenuto essenziale diffondere consapevolezza e sensibilizzare sulla tematica. Proprio per questo, venerdì 24 novembre 2023, in occasione della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, si è tenuto un evento significativo che ha coinvolto diversi studenti, la dirigente, una rappresentante del centro Eva (centro che fornisce protezione alle donne che subiscono maltrattamento) e la Vicesindaco e Assessore Manuela Maffioli. In collaborazione con il Progetto dell’Unione Femminile #panchinerosse, il nostro istituto ha deciso di collocare una panchina rossa nel cortile interno della sede centrale. Tuttavia si è ritenuto che la semplice installazione di una panchina non avrebbe suscitato sufficiente riflessione. Pertanto, si è optato per un coinvolgimento attivo degli studenti, permettendo a cinque ragazzi della classe 5 BSU di dipingere la panchina come parte di un gesto più significativo, al termine del quale sono stati posati fiori ai piedi della panchina.

A questo gesto si è poi affiancata l’iniziativa di  cinque studentesse del del gruppo teatrale “Mondo e Teatro” che hanno letto ad alta voce il brano “Lo sapevano tutti” di Serena Dandini, tratto da Ferite a morte, seguito dalla lettura dei nomi delle vittime di femminicidio nel 2023. La cerimonia è proseguita con l’intervento della Vicesindaco Manuela Maffioli, la quale ha rimarcato l’importanza di non permettere a nessuno di rivendicare il diritto di prendere possesso della nostra libertà poiché questo, unito all’indifferenza, può portare al compimento di gesti estremi. È necessario che la lunga strada per eliminare la violenza di genere venga percorsa insieme, ragazzi e ragazze, perché solo tramite l’unione è possibile fare la differenza. Questo concetto è stato poi ripreso dalla rappresentante del centro Eva, Stefania Ponti, che ha poi sottolineato il ruolo decisivo della prevenzione. Le nuove generazioni devono lavorare sulla consapevolezza, affinché vengano eliminati fin da subito stereotipi tossici che portano a relazioni dannose e violente.

Il momento si è concluso con i ringraziamenti da parte della Dirigente, la quale in chiusura ha citato la frase “l’indifferenza è una forma di violenza”, ed è proprio con questa citazione che vorremmo invitare tutti voi lettori a riflettere. Non esitate a chiedere aiuto perché non siete sole/i: questa è una battaglia comune che dobbiamo affrontare insieme nella speranza di un futuro in cui donne e uomini vivranno in una società con pari diritti. 

Tutte vorrebbero essere l'ultima "Mamma, sono a casa"

di Piazza Simone e Schetter Giuseppe 25 novembre 2023

Il dolore ci accomuna tutti, questo ormai lo ripetiamo da molto, ma forse, con amara ironia, è veramente il momento di fare qualcosa: le parole ispirano, ma i gesti mobilitano.

La giornata del 25 novembre è l’occasione puramente simbolica per discutere e denunciare la strage del femminicidio, di fatto, il male perpetrato nei confronti delle donne intasa i notiziari ogni giorno e non si concede una giornata di vacanza, e noi non siamo realmente consapevoli e coscienti di tutte le storie di vita in cui una sera, è stato illegittimamente scritto il finale. Il vile silenzio omertoso che vige sul nostro paese si sta via via squarciando, lasciando udire il rumore di tante donne e tanti uomini stanchi di tutto questo.

Se da un lato l’opinione pubblica ha invitato le ragazze a denunciare il prima possibile comportamenti tossici, a segnalare atti di violenza fisica o psicologica e a confidarsi, dall’altro ci si è domandati se, anche da parte dei maschi, si potessero mettere in pratica dei comportamenti per prevenire futuri carnefici e imparare a gestire rifiuti e delusioni.

Noi ragazzi del liceo Crespi ci siamo interrogati su come la pensiamo e cosa possiamo fare per limitare tragedie simili. Dopo aver raccolto tutte le informazioni di cui avevamo bisogno le abbiamo commentate e rese visibili con lo scopo di sensibilizzare i lettori su questo tema e darsi un momento di pausa per rifletterci un po’ su. 

Ciò che emerge maggiormente dalle opinioni raccolte è la condanna di una cultura patriarcale ancora fortemente presente nella nostra società e dell’ancora persistente arretratezza di comportamenti e di misure, anche misure istituzionali, quali la mancanza di educazione da parte delle famiglie e delle scuole. Un altro aspetto messo in luce nel “banco degli imputati” sono le pene, a volte imputate con troppi attenuanti di circostanza, che, secondo alcuni, vengono infrante troppe volte. Risulta poco utile o meglio per niente confacente alla ricerca delle risposte a questo caso ricordare che Giulia è stata uccisa dal “bravo ragazzo che era il suo fidanzato”; ciò che maggiormente lascia senza parole è l’assurdità dell’accaduto, un ragazzo riconosciuto dagli altri come normale, educato, tranquillo, che ha manifestato in breve tempo ciò che stagnava nella sua mente da anni, dando apertamente e indebitamente aria al suo disagio emotivo inespresso. C’è chi addirittura pensa che ormai eventi del genere siano talmente frequenti da sembrare scontati, ormai parte di una triste quotidianità, ma anche da parte dei più distaccati emergono il senso di una enorme mancanza emotiva e della sempre più frequente presenza di forme di amore tossico, dovuto ad un garbuglio sudicio di deviazioni psicologiche. Un omicidio, qualunque esso sia, è una violazione alla vita. Troppe volte si sente dire la frase :<<Eh ma tra ragazzi e giovani sono cose che capitano>>, anche davanti a comportamenti banalizzati quali il controllo del cellulare, dei social e i ricatti emotivi basati sulla gelosia. Per concretizzare quanto appena detto, basta cercare su Tik Tok i numerosi video di ragazzi che espongono apertamente e autoritariamente le regole che impongono alle fidanzate, cercando con una buona dialettica di far apparire le proprie opinioni come normali e giustificate, ma tutto questo è seriamente normale?

Un foglio bianco. Un foglio bianco ci troviamo davanti agli occhi, perché di parole di rabbia e amarezza ce ne sono molte, ma di risposte ad ogni nostro interrogativo gridato alle istituzioni o al vento, forse neanche una. 

I fatti della notte tra l’11 e il 12 novembre sono dei punti di sospensione che attendono inesorabilmente un’altra tragedia al loro fianco, ed è forse questo che fa stridere i denti davanti ad uno spettacolo sanguinario e violento senza sipario: non c’è una soluzione, non ancora.

Il nome di Giulia Cecchettin è rimbombato nelle aule di tutti gli istituti superiori e nelle università di tutta Italia. Tanti pareri comuni sono venuti fuori in un’unica voce all’unisono circa l’ormai tristemente fatto quotidiano del femminicidio. Riflettendoci, come è arrivata la società odierna ad “educare” 106 assassini? Le agenzie sociali hanno disperatamente perso tutto il valore che le rendeva tali: sto parlando della famiglia, nella quale in molti casi viene a mancare ciò che di più umano ed essenziale esiste, l’amore, senza il quale il grande castello di carte della vita crolla al primo soffio di vento. Se non c’è affetto, il dialogo genitore-figlio non ha più nulla da dare, solo una comunicazione a titolo informativo e spesso autoreferenziale; ma se non c’è dialogo, non vi è tanto meno interesse nel cercarlo, se l’ambiente circostante non lo stimola nemmeno.  

Qual è la conseguenza? Ignoranza emotiva, una triste condizione che noto nei miei coetanei con crescente frequenza, la quale porta la mancanza della conoscenza di se stessi, della comprensione dell’altro, del minimo interesse ad andare oltre un telefono, un capo d’abbigliamento, uno stipendio, una serata in discoteca. Se a questi fattori sommassimo anche il fallimento in cui ogni tanto - ma neanche così inusitatamente - la scuola precipita (come avviene, ad esempio, quando un professore si mostra incapace di stabilire un rapporto pari su due livelli diversi facendo genuinamente appassionare gli studenti alla disciplina e ai valori della loro materia), al gruppo di amici che talvolta è più una banda che un gruppo, istituita sul culto dell’eccesso e della superficialità, alla inevitabile perdita di speranza in un domani florido e sicuro, risaliremmo all’origine di quella formula scoperta dalla società per costituire un uomo - o una donna - mentalmente ed emotivamente capace di commettere un atto illecito, che più che illecito, è la pura violazione del diritto alla vita, alla libertà. 

La nostra è una semplice ricerca delle cause originarie del fenomeno, e l'ho analizzato nei suoi caratteri embrionali, senza dare un ultimatum, ma ricominciare o forse cominciare a volersi bene, ad esporre in qualche modo i propri problemi senza sopprimerli, a creare una rete che sia sociale e non virtuale scardinando i pregiudizi di genere che sono presenti nella loro minima forma anche nelle persone più buone di questa terra, non sarebbe un così brutto punto di partenza. 

Secondo noi ragazzi le soluzioni sarebbero quindi: pene più aspre e giuste, sviluppare senso di parità tra i due generi senza che uno prevarichi l’altro, dialogare maggiormente con qualcuno di fidato se c’è qualche problema, sensibilizzazione su questo tema e soprattutto ricevere educazione e strumenti appositi per evitare eventi simili. In generale, la vera consapevolezza farà la differenza. Consapevolezza è ragione, e la ragione è ciò che ci contraddistingue. Per un futuro migliore e più sicuro, per un’affettività più consapevole, inoltrarsi su questa strada è ormai necessario.

Il dialogo, quello vero, quello appreso in famiglia o in qualsiasi altro gruppo sociale, deve ritornare dunque ad essere il punto di incontro, non di scontro.

Foto di  Change.org

Apre M4 e chiude McDonald’s in piazza San Babila: come sta cambiando la Milano del terzo millennio?

di Alberto Corolli e Stefano Poles - 30 gennaio 2023

Lo scorso 26 novembre la linea blu della metropolitana milanese ha aperto i battenti: le prime fermate inaugurate sono Dateo, Susa, Argonne, Stazione Forlanini e Linate Aeroporto. Al completamento della linea, Milano sarà la città con uno dei collegamenti più veloci tra il centro e il city-airport: si parla di meno di quindici minuti, con un treno previsto ogni due.

I nuovi convogli sono i medesimi della lilla, già in funzione da qualche anno, driverless e di classe energetica all’avanguardia. Questo è uno dei tanti progetti che andranno a costituire la “Nuova Milano”. Il sindaco Sala, visibilmente emozionato, nel suo discorso, conferma la realizzazione futura della M6 – ultima linea metropolitana del capoluogo meneghino. 

Foto di Stefano Poles

Foto di Stefano Poles

Parallelamente a questo evento, il punto vendita McDonald’s (fino al 2006 Burghy) di Piazza San Babila, che in molti ricordano come il ritrovo dei “paninari”, negli anni ’80, ha chiuso i battenti lo scorso 6 dicembre, a causa degli insostenibili rincari delle tasse, di conseguenza anche degli affitti, arrivati a un punto tale da mandare in perdita anche un colosso del fast-food come McDonald’s. 

Un altro pezzo della “Milano da bere” del secolo scorso ha detto addio per sempre a piazza San Babila.

Milano cambia: la parola ai milanesi

«Penso che l’evoluzione sia un fenomeno del tutto naturale e necessario per una città come Milano, di certo questo non deve essere limitato alle zone immediatamente centrali: se è vero che quello è il centro nevralgico della città, a quest’ultima appartengono anche le periferie e tutte le problematiche che queste comportano.» afferma Marcello (50, n.d.r.).

Quella delle periferie non è una problematica che riguarda solo il capoluogo meneghino, ma anche altre metropoli e non solo in Italia.

I fondi a disposizione sono esigui e sono a malapena sufficienti per riuscire a svolgere lavori di manutenzione nelle zone di maggior rilievo, anche dal punto di vista turistico, ci si riferisce, ovviamente, alle zone di interesse storico e culturale che tendono a concentrarsi nel cuore della città. Spesso questo va a discapito delle zone periferiche, dove si trovano a vivere persone più bisognose o anche stranieri. 

Le periferie non vengono valorizzate anche perché non vi è alcun interesse economico: questi territori, essendo prettamente residenziali, vengono lasciati in degrado, tendendo a dare maggiore importanza alle zone di respiro storico e culturale che non sono quelle periferiche.

Ascolta l'intervista qui 

Milano per vivere: città per i giovani?

«Milano è sicuramente una città moderna e al passo con i tempi, sulla scena italiana è quella più avanzata; probabilmente, però, se paragonata ad altre metropoli, sia a livello europeo sia mondiale, potrebbe risultare un passo indietro, ma questo è dato dal fatto che, in generale, l’Italia si trova sempre in svantaggio.»

Foto di Stefano Poles

Come sottolinea Luca (25, n.d.r.), romano trapiantato nel capoluogo lombardo per ragioni lavorative, Milano, se proporzionata agli standard italiani risulta LA metropoli per eccellenza, mentre a livello mondiale non è così. Paragonando Milano a metropoli come Londra o New York, vi è una tangibile differenza, non solo per il numero di abitanti.

Se dovessimo affiancare Milano a Roma, prima città italiana per numero di abitanti, la prima è la città per studiare e che fa crescere, sotto molti punti di vista, sia personale sia professionale, Roma, probabilmente, rimane una grande città ma molto conservatrice. «Roma è la città perfetta se sei in pensione e visiti i luoghi di interesse storico, Milano è la città del futuro.», ci dice Luca. 

Ascolta l'intervista qui 

Una Milano in cui noi giovani stiamo lasciando sempre più la nostra impronta

«Penso sia giusto: come il McDonald’s di San Babila è stato un importante punto di riferimento per i giovani cresciuti negli anni ’80,» - prosegue Luca - «spero che possa esserci un luogo simbolo anche per questa generazione, purché sano e genuino e che, in futuro, possa essere ricordato come questo.» 

Ogni generazione ha i suoi perni e i suoi cult, Milano sta cambiando anche grazie ai giovani che stanno cercando di renderla più moderna e adatta alle loro esigenze: la chiusura dell’ex Burghy non deve essere vista come una via dei giovani per sbarazzarsi del passato, anche perché le ragioni alla base di questa decisione sono altre.

Complessivamente, Milano si sta evolvendo in meglio, diventando ogni giorno una fra le migliori città europee sotto tutti i punti di vista. E, in Italia, il centro nevralgico del nostro paese.

Foto di La Repubblica 

K-pop, ponte per la Corea

di Aurora Cerqua - 24 gennaio 2023

Foto di allkpop 

Buongiorno a tutti, nostri cari lettori. Oggi, ho una domanda per voi: avete mai sentito parlare del “k-pop”? Se sì, sapete cosa vuol dire?

Beh, “k-pop”, è un termine che indica il korean pop, letteralmente il pop coreano. 

Da un paio d’anni è diventata particolarmente famosa la boy-band BTS, che ha creato fenomeni globali come Dynamite, e ha collaborato con artisti che hanno lasciato un’impronta indelebile nella musica americana e globale. 

E allora, addentriamoci nel vivo di questo mondo colorato, fatto di outfit stravaganti e canzoni da scoprire. 

In molti pensano che il k-pop sia un sottogenere del pop, e non è del tutto scorretto definirlo così, ma non è nemmeno del tutto corretto, poiché il pop che conosciamo noi, è molto diverso da ciò che è il k-pop, soprattutto prima del debutto.  

Le canzoni k-pop hanno molto spesso un sound pop, che si mischia però a vari generi, come l'hip-hop; le “ballad”, invece, sono canzoni principalmente cantate, con pochi o nessun accenno rap, spesso  molto tristi. 

Queste canzoni vengono spesso accompagnate da delle coreografie, che possono essere veramente complicata; con l’arrivo dei social media, i gruppi creano sfide su tiktok, facendo diventare virale il balletto. Un esempio è il balletto di Ddu-du Ddu-du, o anche la famosissima coreografia di Gagnam Style.

 Nel k-pop, prima del debutto, si devono prima passare delle audizioni, comunicando all’agenzia in cui si desidera debuttare il ruolo che si vorrebbe ricoprire nel gruppo (ad esempio, cantante o rapper), e, una volta passate le audizioni, inizia il periodo da trainee, letteralmente “tirocinante”. 

Gli idol (ovvero gli artisti) imparano a cantare, ballare e rappare, e molte volte devono perfino imparare a posare davanti alla telecamera, per rendersi dei modelli perfetti. 

Il periodo da trainee varia in base all’agenzia, soprattutto le big 3 ( YG entertainment, SM entertainment e JYP entertainment, fondate dai 3 membri del primissimo gruppo k-pop, i Seo Taiji and Boys),prevedono periodi da trainee che  durano anni. Ogni mese gli idol vengono valutati e chiunque non venga considerato all’altezza, viene eliminato dalla competizione. 

In alcune agenzie, inoltre, esistono i “survival show”. Questi show vengono “riservati” ai trainee ormai prossimi al debutto. Questi show insegnano agli idol come stare in TV, mostrano al pubblico i set fotografici, l’inflessibilità e la durezza dei giudici, e la rigorosità degli standard di bellezza. A questo proposito gira da molto tempo una scena veramente crudele:

in Sixteen, il survival show che ha reso celebre il girl group Twice, la fotografa, che ricopre anche il ruolo di giudice in questo programma, giudica in modo negativo  un membro del gruppo, a causa del suo peso e del suo aspetto, umiliandolo. 

Per fortuna simili esternazioni non sono frequenti. In ogni caso, alla fine del periodo arriva la possibilità di debuttare.

E col debutto, iniziano le competizioni.  In Corea, settimanalmente, ci sono i music show, spettacoli, in cui  i gruppi k-pop si esibiscono con le proprie canzoni, e grazie anche ai voti ottenuti da una giuria, talvolta anche internazionale, iniziano a farsi conoscere e a guadagnare vittorie. 

 Il lavoro degli idol non si limita alla partecipazione ai music show: devono infatti registrare i loro video e allenarsi in continuazione; senza contare le apparizioni pubbliche, i viaggi, i set fotografici.

Perché allora, ascoltare k-pop? Perché può essere un ponte con la Corea.

La Corea del Sud, è uno dei quei Paesi che, negli ultimi sessant’anni, ha ribaltato la sua posizione economica, arrivando ad essere un paese ricchissimo, facendosi conoscere e riconoscere globalmente, e il k-pop sta aiutando il Paese a crescere, facendo interessare i giovani alla sua cultura. 

Famosi sono infatti i video di idol che cucinano cibo del loro paese d’origine. Ancora, nella scena finale del videoclip How You Like That delle Blackpink, le ragazze indossano degli Hanbok, costumi tradizionali coreani.Sempre un membro delle Blackpink, all’inizio della canzone Pink Venom, suona il geomungo, uno strumento tradizionale del Paese. 

Non ho sicuramente detto tutto sul k-pop, ma spero che questa piccola “guida” possa esservi stata d’aiuto. 

Perciò, un piccolo consiglio per il futuro: ascoltate un paio di canzoni kpop, così da conoscere un mondo completamente diverso dalla nostra vita abituale, e addentratevi nella cultura coreana.

Detto ciò, da Aury, annyeonghaseyo! 

Foto di ladiestory.id 

Foto di vogue.co.th 

Conflitto tra Serbia e Kosovo

di Pietro Silvestrini - 10 gennaio 2023

Foto di ANSA 

Da più di dieci mesi la guerra imperversa in Ucraina, ma oltre a questa triste realtà ve ne è un’altra che potrebbe condurci ad una possibile Terza guerra mondiale.

Questa volta il problema riguarda la penisola balcanica: nel Kosovo settentrionale, infatti,

la maggioranza di etnia serba protesta contro la decisione di Pristina, capitale dello Stato, di vietare l’uso di documenti e targhe automobilistiche serbe. Ma come siamo giunti a questa situazione?

Dal febbraio 1998 all’11 giugno 1999 venne combattuto un conflitto tra le due nazioni poiché la Serbia, non riconoscendo il Kosovo, diede inizio a una pulizia etnica alla quale i kosovari di etnia albanese scelsero di rispondere. 

La NATO condusse delle operazioni militari aeree suddivise in tre fasi, volte a obbligare il governo serbo a una resa. L’insieme di queste operazioni prende il nome di Operazione Allied Force, grazie alla quale il 9 giugno 1999 venne firmato l’Accordo di Kumanovo tra la Kosovo Force (“KFOR”) e i governi della Repubblica Federale di Jugoslavia, nata dall’unione delle repubbliche di Serbia e Montenegro avvenuta il 27 aprile 1992.

Dopo la fine dello scontro, il Kosovo venne posto sotto l’amministrazione delle Nazioni Unite e, nonostante la contrarietà della Russia, i kosovari a distanza di dieci anni dalla guerra decisero di proclamare la loro indipendenza il 17 febbraio 2008. La reazione da parte della Serbia fu quella di ritirare gli ambasciatori presenti negli Stati che riconoscono il Kosovo e di indurre nuove elezioni per sciogliere il governo, azione successivamente evitata allo scopo di prevenire violenze.

Il 19 aprile 2013, grazie a una risoluzione approvata dalla Serbia e dall’Unione Europea, si giunse a un accordo che sancì l’estensione territoriale del nuovo stato anche nella parte settentrionale, con un’autonomia per i comuni a maggioranza serba.

La ragione dell’ultima tensione è la “guerra delle targhe”, così denominata a causa dell’imposizione da parte del governo di Pristina delle targhe kosovare anche alle auto serbe per entrare e circolare all’interno del Paese.

Questa decisione è stata presa dalla presidente kosovara Vjosa Osmani per garantire un trattamento uguale sulla circolazione: infatti in Serbia la legge prevede che le auto kosovare possano circolare solo con targa serba.

In risposta all’arresto di un poliziotto di etnia serba lo scorso 10 dicembre da parte delle forze di Pristina, la Serbia ha chiesto alla NATO di poter inviare le truppe per proteggere la comunità serba dell’ex provincia: lo scopo della NATO è di garantire la pace e prevenire l’escalation, ma il rischio è reale e proprio per questo le forze Nato della missione Kfor hanno aumentato i pattugliamenti.

Le tensioni sono aumentate nei giorni successivi a Natale: infatti nella città di Mitrovica, capoluogo del nord Kosovo, le barricate della comunità serba hanno diviso in due la città e in seguito la Serbia ha minacciato di mobilitare l’esercito e di schierarlo al confine.

Fortunatamente, grazie ad un'efficace mediazione internazionale, le tensioni sono calate e l’esercito si è ritirato.

Un conflitto nato per ritorsione su una questione di targhe, sebbene fortemente simbolica, non è mai avvenuto nel corso della storia e l’attuale crisi geopolitica, originata dalla guerra tra Russia e Ucraina, dovrebbe portare a riflettere sul fatto che l’escalation vada evitata grazie al buon senso e alla solidarietà tra Stati, al fine di promuovere la pace nel mondo.

La libertà non ha prezzo

di Sofia Testa - 4 febbraio 2021

9 novembre 2020

Joe Biden viene eletto nuovo presidente degli Stati Uniti d’America: una volta eseguito un ulteriore conteggio, riconfermato dal collegio elettorale, Biden ha tenuto il discorso di vittoria al Chase Center di Wilmington. Un vento di cambiamento e, come previsto, reazioni differenti da persona a persona nel popolo americano: urla di gioia ma anche lamentele, persino dall’ex presidente eletto Donald Trump che protesta su Twitter chiedendo ulteriori riconteggi.

6 gennaio 2021

Un gruppo di rivoltosi assalta Capitol Hill (sede del Congresso Americano, nonché simbolo della democrazia americana) nel giorno in cui senatori e deputati sono riuniti per occuparsi di questioni burocratiche riguardo l’elezione di Joe Biden e il suo ingresso alla Casa Bianca. 

Lo scopo principale di un atto del genere? Contestare il risultato delle elezioni.

I trumpisti sono semplicemente entrati a piedi, rompendo le finestre del Campidoglio, commettendo atti vandalici sventolando la bandiera americana per impedire il corretto svolgimento delle verifiche sulle elezioni. Svariati deputati sembrano aver preso parte alla rivolta stessa, mentre la maggioranza dei senatori a Capitol Hill  vengono scortati via subito dopo aver compreso la situazione. Una situazione che non accadeva dal 1776 data d’indipendenza americana. Sarà tenuta un’inchiesta parlamentare sul ruolo della polizia: le forze dell’ordine, infatti, non intervengono immediatamente e per questo motivo sono necessarie tre ore per sedare completamente le rivolte. Trump si oppone e rifiuta di mandare in soccorso la Guardia Nazionale, ma l’ex vicepresidente Pence interviene e anche la Guardia Nazionale dà il suo contributo. La polizia di Washington, affiancata da alcuni membri della Virginia National Guard e delle forze dell’ordine del Maryland, riesce ad identificare un soggetto incappucciato sospetto di aver piantato uno dei tre ordigni ritrovati nei dintorni. Viene anche arrestato un uomo per possesso di un fucile e altre armi. I feriti sono cinquantadue e quattro i deceduti.

L’ex presidente Donald Trump con una assai povera scelta di parole ha definito i trumpisti “persone speciali”, e ha preferito concentrarsi sul risultato delle elezioni. In un secondo momento ha chiesto ai suoi sostenitori di andare a casa e di agire senza intralciare la sicurezza, ribadendo anche che non si sarebbe lasciato sconfiggere, e definendo l’elezione “rubata”. Twitter e Facebook hanno bloccato momentaneamente il profilo di Donald Trump ritenendolo istigatore di tale violenza. L’attacco a Capitol Hill non riguarda soltanto Capitol Hill, bensì l’intera democrazia americana poichè ne è il vero simbolo. Una democrazia costruita su anni di rivolte per diritti di ogni tipo, ma mai rivolte di natura simile a questa. La domanda da porsi è: per un uomo desideroso di potere e per il desiderio dei suoi sostenitori di appoggiarlo nella sua ascesa, vale la pena di mettere in pericolo la vita di altri? Parlando dei rivoltosi, si tratta di uomini qualunque che hanno attaccato la loro stessa casa e la loro stessa democrazia. Infatti, assalire la sede del Congresso e tentare di distruggerla per ribaltare il risultato di un’elezione onesta significa annullare il valore della democrazia stessa. Quest’ultima prevede la vittoria della maggioranza secondo un’elezione onesta: è la spavalderia a far sì che le idee di un singolo prendano il sopravvento.

Ogni giornale e telegiornale ha riportato la notizia a modo proprio, ma chiunque sembra aver notato che Donald Trump ha avuto parole di ben minor riguardo nei confronti delle manifestazioni di Black Lives Matter, che erano manifestazioni pacifiche (degenerate in alcune zone dopo l’intervento della polizia) con il solo scopo di ricordare le persone assassinate ingiustamente da poliziotti. Nonostante ciò, Trump aveva definito tali soggetti pericolosi sin dal primo momento e aveva sottolineato l’assurdità dei loro comportamenti; e ad oggi nessuno ha dubbi riguardo al fatto che, se fosse stato il movimento BLM a sfondare le finestre del Capitol, il presidente avrebbe avuto un punto di vista differente.

Arnold Schwarzenegger, repubblicano, ha chiesto su Twitter (mettendo da parte la propria opinione politica) a tutti gli Americani di sostenere Joe Biden in quanto il suo arrivo alla Casa Bianca significherebbe la vittoria della democrazia, dato il regolare svolgimento delle elezioni. 

Biden ha affermato di ritenere l’America un Paese molto forte che non verrà abbattuto da avvenimenti come questo. Ci auguriamo tutti che continui ad essere così perché libertà e democrazia dovrebbero andare di pari passo, ed essere ossigeno l’una per l’altra. La democrazia consente di scegliere, votando, e votare rende liberi. Significa che qualsiasi sia l’esito si tratta di uomini liberi che lottano per il proprio Paese. La violenza non può essere il prezzo da pagare, perché la libertà non ha un prezzo. 

La realtà deve essere un complotto. O mi fa paura

di Beatrice Sinelli - 14 dicembre 2020

Quelli che l’olocausto è tutta una finzione, quelli che l’uomo non è mai arrivato sulla Luna, quelli che l’11 settembre fu tutto un complotto finalizzato a limitare le libertà, a iniziare guerre e imporre la supremazia americana nel mondo, quelli che la terra è piatta, quelli che il mondo è segretamente governato da una setta di pedo-satanisti che per mantenersi giovani e brillanti succhiano il sangue dei bambini che rapiscono, quelli che il 5G è responsabile della diffusione del Covid-19, i no-vax, i no mask, quelli che il Coronavirus è tutta una messinscena.

“Delle mille ramificazioni inattese di questa emergenza ce n’è una che è per me assolutamente inaccettabile: il negazionismo”. È quanto scrive in un articolo sul Corriere delle Sera la scienziata italiana Ilaria Capua.

Il termine “negazionismo” è stato utilizzato storicamente per indicare quelle persone che negano la veridicità dei campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale e, più in generale, il genocidio degli ebrei per mano della Germania nazista. In questo assurdo 2020 è passato a denominare, invece, tutti coloro che non credono nell’esistenza del Covid-19, dando vita alle cosiddette teorie del complotto o della cospirazione.

Questa pandemia ha reso le nostre fragilità ancora più forti ed esposte, soprattutto per quelle persone che hanno un forte bisogno di certezze, ma mancano di capacità o istruzione necessaria per elaborare e tenere sotto controllo la complessità delle informazioni che la situazione richiede. Ma non si può parlare di paura nei confronti di questo virus, come ci ricorda il filosofo Umberto Galimberti, ma piuttosto di angoscia. La paura infatti, oltre a essere un ottimo meccanismo di difesa che ci consente di evitare i pericoli, ha sempre un oggetto determinato. Al contrario l’angoscia non ha un oggetto determinato, è il nulla a cui agganciarsi, come la definirono Freud e Heidegger, il venir meno dei punti di riferimento. Ora, ognuno di noi è un possibile portatore del virus, questo fa sì che il pericolo sia ovunque e che non ci sia un nemico ben definito e riconoscibile, come per esempio nel caso di una guerra. Inoltre l’angoscia può anche portare, nel momento in cui la componente irrazionale sovrasta quella razionale, a uno stato di delirio, proprio appunto dei negazionisti. A questo proposito, la biologa Barbara Gallavotti, ospite di Giovanni Floris a Di Martedì su La7: “Il negazionista è in buona fede, tuttavia c’è una analogia tra il suo comportamento e alcune forme di demenza”. Infatti, clinicamente, il negazionismo è considerato una forma di pazzia; chi ne soffre si trova in una condizione psicotica e proprio per questo è estremamente difficile riuscire, soprattutto quando sono in crisi, a far cambiare idea a coloro che sono convinti che il Coronavirus non esista o che sia tutto un complotto o, più in generale, a coloro che negano l’evidenza o comunque la veridicità dei fatti nonostante le evidenze scientifiche, le immagini, le dirette televisive e le migliaia di morti.

Appartenere a schiere di negazionisti e sostenere teorie complottiste è un modo elementare, e non produttiva, di trattenere questa angoscia, determina tranquillità attraverso il recupero delle certezze. Inoltre il sentirsi parte di qualcosa di importante, rassicura perché non fa sentire soli, emarginati o diversi, alimenta la propria autostima, migliora la propria immagine di sé, consolida le proprie convinzioni e depotenzia questo timore.

La situazione diviene pericolosa quando ad aderire a queste sette sono i politici, che cavalcano queste teorie per ottenere più consensi. Molto spesso infatti, per pura partecipazione emotiva si tende a dar ragione a un certo leader, a prescindere dalla razionalità o dall’argomento, secondo la formula ipse dixit. Si può notare inoltre che il linguaggio negazionista sa usare forme raffinatissime quando, ad esempio, si parla di deportazione come trasferimento di popolazione, di tortura come pressione fisica, di massacro come danni collaterali o di guerra come missione di pace.

I social network naturalmente contribuiscono a diffondere queste teorie e il negazionismo, dal momento che in essi il passaggio dall’emozione alla scrittura avviene senza un minimo di riflessione o senso critico e, in generale, circolano fake news, post allarmistici e molta disinformazione. Questi mezzi permettono alle teorie della cospirazione di diventare virali, favorendo la discussione tra soggetti che la pensano allo stesso modo entro circoli chiusi che radicano ancor più certe convinzioni e posizioni. Inoltre va ricordato che ci sono quelli che cavalcano queste teorie per il semplice scopo di ottenere un like in più.

Esistono vari meccanismi mentali che giocano un ruolo fondamentale nella costruzione di queste convinzioni. Citiamo per esempio il bias di conferma, uno dei concetti empirici più solidi della psicologia, secondo cui se si ha una credenza o un’attitudine si cercheranno istintivamente conferme delle proprie convinzioni e si tenderà a cercare altre persone che la pensano come noi. Esiste anche il cosiddetto effetto Dunning-Kruger, una sindrome psicotica a causa della quale chi non è esperto in qualcosa tende ad avere la falsa convinzione di essere molto informato sull’argomento che in realtà quasi ignora, immaginando che quel poco che sa sia tutto quello che c’è da sapere.

Per concludere, secondo alcuni studi di sociologia, il fenomeno del negazionismo e delle teorie della cospirazione potrebbe portare a una minor fiducia nella scienza e nelle istituzioni e progressivamente a una deriva autoritaria. Ogni verità verrà messa in discussione. Nasceranno sempre nuove teorie complottiste. Qual è la soluzione? Questo non lo possiamo sapere, ma un buon punto di partenza potrebbe essere iniziare a ragionare e a mettere in discussione le nostre idee.

Busto, senti gli esercenti: "Vogliamo lavorare"

di Federico De Martino - 12 dicembre 2020

Si sta ripresentando in seno al Bel Paese, la possibilità di una riapertura delle attività produttive ed economiche, andate forzatamente in un angosciante letargo invernale a seguito della recente seconda ondata di contagi.

In un clima surreale nel quale ogni apparato che compone l’organismo “Italia” si scontra con l’altro nel tentativo di tutelare legittimamente i propri interessi e si erge a titolo di “luogo sicuro” in contrapposizione agli altri, io ho deciso di uscire dalla mia bolla chiamata “scuola”, cercando di confrontarmi con la realtà circostante e di comprendere meglio, ad esempio, la situazione che gli esercenti bustocchi stanno vivendo, ben più drammatica di un anno scolastico straordinario passato tra meet e didattica a distanza.

Ecco riportata di seguito l’intervista a Rudy Collini, presidente della Confcommercio di Busto Arsizio. 

Passando per Busto tantissimi negozi smontano tutto per chiudere e non riaprire più: che aria tira in città? 

Nonostante le forti restrizioni previste  dall'ultimo DPCM del 3 novembre 2020, che hanno anche determinato la regione Lombardia come zona rossa, nella nostra città, c'è stata assoluta comprensione e consapevolezza dello stato emergenziale sanitario da parte di tutti i cittadini e commercianti. Seppur con gran fatica, si è provveduto ad attuare tutte le misure necessarie ad affrontare la situazione. Sicuramente non è stato facile ritrovarsi nuovamente in una condizione di dover  chiudere le proprie attività, ma va detto che, in molti sono stati in grado di reinventarsi e di organizzarsi, iniziando ad utilizzare la multicanalità di vendita attraverso l’online. Questo ha permesso di scongiurare a oggi la chiusura di tante attività.

Cosa chiedono gli esercenti? Di tornare a lavorare o di essere adeguatamente ristorati? 

I nostri associati, ma non solo, tutti i commercianti, chiedono fortemente di poter lavorare. Sono pronti a ripartire e già molti si erano attivati in precedenza  per attuare adeguati mezzi di protezione nel rispetto delle norme-igienico sanitarie necessarie per poter aprire i propri negozi e lavorare in sicurezza. Detto questo, consapevoli della gravità del momento tanto più nella nostra Provincia, con sacrifici restano chiuse tante attività con la speranza di venir adeguatamente ristorati per evitare che una chiusura temporanea possa diventare definitiva.

I ristori possono essere un'adeguata alternativa a copiose settimane di inattività o serve qualcosa di più?

I decreti ristori e ristori bis sono un contributo a queste settimane di inattività ma serve molto di più. Servono aiuti concreti e politiche sociali a sostegno delle varie categorie gravemente danneggiate dalle chiusure determinate a contenimento della diffusione del covid-19. Diverse le iniziative e i progetti che Confcommercio sta portando sul tavolo delle trattative con il governo, per ottenere aiuti concreti a sostegno di quei settori fortemente penalizzati.

Molte attività commerciali sono aperte ma la gente non vi si può recare. È ancora più frustrante? 

Le recenti restrizioni hanno creato senza dubbio molta confusione e conflittualità sia tra i commercianti, che tra i cittadini. Situazione questa che sicuramente ha determinato un gran senso di frustrazione diffuso. La nostra Associazione però è stata da subito pronta a dare un forte sostegno e contributo, per una migliore comprensione di cosa si può e non si può  fare, in relazione delle nuove disposizioni, portando quindi a una condizione di maggior consapevolezza che ha permesso di affrontare al meglio queste ultime settimane così difficili e complesse.

Il dato di fatto è però che coloro che sono aperti stanno lavorando mediamente il 40% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, mantenendo invariati i costi di gestione. E’ per questo che come associazione stiamo spingendo il governo a ristorare non solo coloro che hanno dovuto chiudere ma anche coloro che hanno potuto restare aperti, chiaramente nella misura della perdita sostenuta.

I protocolli di sicurezza all'interno delle attività erano stati stabiliti per un'adeguata convivenza con il virus e gli esercenti hanno riposto notevoli investimenti per adeguarsi in tal senso. Cosa non ha funzionato?

I commercianti, le imprese e tutte le attività a seguito del primo lockdown si sono prontamente attivate in relazione ai protocolli, che prevedevano l'adozione di DPI, facendo diversi investimenti a tutela dei propri dipendenti e per la sicurezza della propria clientela.

I dispositivi di protezione attuati, credo che siano stati idonei a diminuire la diffusione del virus. Purtroppo, andando incontro al periodo invernale e l'ulteriore presenza di influenze stagionale, la gestione e il controllo del covid da parte delle strutture sanitarie non è stata sufficiente per garantire un servizio all'altezza della situazione. Il nostro auspicio è che le istituzioni si attivino quanto prima per migliorare il sistema sanitario, e al fine di scongiurare una terza ondata che determinerebbe un danno economico e sociale incalcolabile.

Che cos'è realmente importante?

di Federico Crespi - 4 dicembre 2020

25 novembre. Una giornata che potrebbe sembrare come tante, anzi che forse così appare per molti. Eppure in questo giorno è stato scelto come giorno internazionale per la sensibilizzare il mondo contro la violenza sulle donne, una tematica molto attuale di cui purtroppo sentiamo parlare troppo spesso e che forse ascoltiamo con troppa superficialità.

Quasi l’80% dei femminicidi di quest’anno sono avvenuti durante il lockdown, oltre 26.000 telefonate sono state effettuate al numero verde per le pari opportunità per le donne vittime di violenza.

Più di 80 vittime, più o meno un omicidio ogni quattro giorni (dati da VII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia). Le cifre non sono solo numeri, dietro infatti ci sono delle donne che sono state uccise dal loro compagno, dalla mente violenta e disturbata.

Una giornata come questa serve anche a far riflettere sul mancato raggiungimento della parità tra i due sessi, e per evidenziare i vari tipi di violenza, per portarci  verso un miglioramento della nostra imperfetta e terribile società.

Lo stesso giorno però è morto il calciatore Diego Armando Maradona, un ex campione del mondo. Tutti i mezzi d’informazione hanno iniziato a rigettare articoli e necrologi su questo atleta dai numerosi lati oscuri . 

Ed una ricorrenza così importante, come quella per ricordare le vittime di femminicidio, è stata offuscata in breve tempo. 

Il Corriere della Sera del 25 novembre ha dedicato alla memoria dello sportivo argentino nove pagine (inclusa la prima) mentre alla ricorrenza che doveva essere la principale di quel giorno solo tre, e tra l’altro nessuno di questi articoli era in prima pagina.

A Maradona, un centrocampista che ebbe una grandissima fama durante la sua carriera, sono stati elargiti articoli dai toni, in molti casi, idolatranti. Folle di persone sono scese, in barba ai divieti anti-Covid, nelle strade a Napoli per rendere celebrare il loro divo come un santo, dimenticandosi della sua vita sregolata e segnata da numerosi lati oscuri (come la dipendenza dalle droghe, per esempio) che l’hanno portato vicino all’autodistruzione.

Intantanto la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, almeno qui in Italia, è stata come oscurata e trattata come un qualcosa di secondario e non strettamente importante, nonostante lo sia.

E’ triste che purtroppo nel 2020 non si dia importanza a quello che è un problema molto grave, per cui ogni anno si verificano episodi gravi e per cui delle donne innocenti vengono uccise, picchiate, molestate, violate ed insultate.

Bisogna cercare di dire basta a questo, che purtroppo succede ogni anno in Italia così come in altre parti del mondo.

Bisogna cercare di far comprendere e capire ciò che è sbagliato.

Sempre meglio

di Giulia Antonucci - 2 dicembre 2020

Ognuno di noi tenta di raggiungere il massimo, mostrando il proprio valore e mettendoci tutto se stesso nelle cose che fa. C’è chi ci arriva in poco tempo e chi invece ce ne mette un po’ di più, ma al fine di arrivare alla stessa meta, in cima alla nostra ambizione. 

Tendiamo spesso a desiderare troppo, con il pensiero che ciò che vorremmo arrivi da un momento all’altro, quando invece siamo noi a dover fare di tutto per meritarcelo. 

Una frase comune è “non ce la faccio”, spesso la utilizziamo senza essere coscienti di ciò che significa realmente; è capitato a tutti di trovarsi davanti ad ostacoli che apparentemente sembravano impossibili da superare e con il passare del tempo si sono rivelati solo complessi Quante volte abbiamo avuto a che fare con frasi del genere e dopo abbiamo raggiunto i nostri obiettivi senza soffermarci sul pensiero precedente? 

Quante volte ci siamo sentiti dire che avremmo potuto fare di meglio? E quante volte ci siamo fatti valere e ce l’abbiamo fatta? 

Ho solo quattordici anni e penso di aver già sottovalutato me stessa abbastanza. Mi è stato detto più di una volta che mi accontento facilmente e sto facendo di tutto per far sì che questo pensiero svanisca, insieme alla convinzione di non essere capace a dare il meglio di me. Quanto tempo abbiamo a disposizione per metterci in gioco non ha importanza, ciò che conta maggiormente è la strategia che adottiamo; e anche se non lo vinciamo al primo tentativo, ce ne saranno di altri… Essersi trovati davanti ad un problema ed aver trovato la soluzione giusta o banalmente aver trovato il coraggio di farsi interrogare nella materia che più si odia, sono esempi che mettono in evidenza il “non ce la faccio” trasformato in “ci sono riuscita”. 

Tutto questo potremo dire di essercelo ficcato in testa solo quando lo metteremo in pratica e quando credere in se stessi sarà servito a qualcosa. 

Abbiamo ben chiaro il significato di “sforzo, impegno”? Se la risposta a questa domanda è sì, allora perché non siamo riusciti ancora ad arrivare al traguardo? Forse non è abbastanza… 

Non bisognerebbe fermarsi alla prima caduta, perchè si partirebbe già con uno svantaggio e nonostante questo sia difficile e inevitabile, con il giusto ragionamento risulterà solo un intralcio di passaggio. Tanti interrogativi, cui possiamo dare risposta soltanto dopo aver provato e riprovato a rispondere. 

 Giulia Antonucci

“Cercate ardentemente di scoprire a che cosa siete chiamati a fare e poi mettetevi a farlo appassionatamente. Siate comunque il meglio di qualsiasi cosa siate” 

-Martin Luther King

Cronaca di una comunicazione terrificante

di Federico De Martino - 27 novembre 2020

L’altro giorno mi ha colpito fortemente la prima pagina del Corriere della Sera.

Il giornale in questione proponeva un’immagine tratta dal reparto di terapia intensiva dell’Ospedale Niguarda, con una persona posata sul proprio letto e sul volto un casco per la ventilazione polmonare.

Accanto a lei un operatore sanitario con l’ormai ben nota tuta bianca e le seguenti didascalie: in alto “Con il casco o intubati, i reparti choc di Milano” e sotto “Viaggio choc tra le corsie dei malati Covid. Al Niguarda di Milano 340 ricoverati in un intero reparto tutti coi caschi per l’ossigeno”. 

È bastato questo a convincermi che quel giorno non era il caso acquistare quel quotidiano.

Ma una simile modalità di comunicazione dell’informazione non è tipica della sola carta stampata.

Basta farsi un giro tra i vari telegiornali alle 20, quando verosimilmente una famiglia si riunisce dinanzi al televisore dopo un’intensa giornata di lavoro, per rendersi conto di un quadro sanitario giornaliero terrificante: interviste a familiari di persone decedute, il beep martellante dei respiratori, decine di servizi all’interno dei reparti di ospedali di mezza Italia (ogni giorno diverso) , inquadrature sulle persone intubate, lo sfinimento dei medici, l’ossigeno portato finanche alle auto dei pazienti…

È mai possibile che la comunicazione e la cronaca si riduca soltanto a questo? Ossia alla semplice narrazione tragica degli eventi senza che vi sia lo spazio per qualche messaggio di speranza per la popolazione, psicologicamente avvilita, ma solo moniti, avvertimenti, grida di dolore…

Per darvi l’idea del pressapochismo dell’informazione italiana attualmente, il numero di guariti giornalieri dal quale partiva il commissario Borrelli nell’esposizione dei dati della pandemia nella quasi quotidiana conferenza delle 18 durante il precedente periodo di chiusura, è sostanzialmente sparito da bollettini medici dei giornali, o comunque assume rilevanza sempre minore.

Fare un’informazione meno drammatizzante e responsabile non significa minimizzare gli effetti del virus quanto essere consapevoli che ciò che sta accadendo in queste settimane non si tratta di una novità per il cittadino. 

Se a marzo vi era la comprensibile volontà di orientare la comunicazione con l’intento di sensibilizzare la collettività (disorientata per l’evento inconsueto) riguardo la reale situazione che ospedali e presidi medici stavano vivendo, ora questa non è più necessaria, considerato che parliamo di “seconda ondata” ossia del ripetersi di uno scenario già noto. 

I danni psicologici che ha generato il covid alle persone sono spesso sottovalutati: un sondaggio condotto dall’Ordine degli psicologi riporta che il 62% degli italiani abbia manifestato la necessità di un aiuto a giugno per tornare alla normalità a seguito del lockdown marzo-maggio e 8 italiani su 10 ritengono che uno psicologo possa aiutarli a gestire questa nuova fase.

Non troverete in questo articolo relazioni tra informazione ansiogena e danni psicologici perché conosciamo come la psicologia sia così vasta da richiedere tempi di studio maggiori, ma è presto detto che anche questo modo di comunicare non aiuti in nessun caso.

Un ultimo piccolo esperimento può farci capire ancora di più come i media abbiano una fortissima incidenza ed influenza: venerdì 13 novembre ci sono stati 40.902 positivi a fronte di 254.908 tamponi. 

Bene.

Se vi dicessi invece che a fronte di 254.908 tamponi, vi siano stati 214.006 negativi?

Cambia tutto.

Auspico una rivoluzione copernicana così radicale? No. Ma quantomeno un’informazione più responsabile.  

Sei mia!

di Sofia Padula - 25 novembre 2020

"Non volevo farlo, perdonami", "non succederà mai piú", "lo sai che ti amo" 

Quante volte abbiamo sentito nominare queste frasi da delle testimonianze di donne maltrattate dai propri partner? Quante volte abbiamo sentito parlare di violenza sulle donne? 

Di violenza sulle donne sentiamo parlare spesso, troppo spesso, ma la maggior parte delle volte ascoltiamo la cosa con superficialità, perché sembra quasi annoiarci sentire lunghi discorsi a proposito ogni volta. 

Eppure sembra che sia sempre la stessa storia, che pur sentendo le medesime cose mille volte l'uomo non voglia sentire ragioni o cambiare punto di vista. 

Per questo penso che in onore del 25 novembre, giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, sia doveroso parlarne più che mai. 


Penso non sia necessario citare fatti di cronaca nera, a questo ci pensa già il telegiornale, penso che non serva nemmeno citare delle testimonianze, per quanto importanti siano. 

Vorrei porre, invece, una domanda a tutti quegli uomini che si spingono a fare atti così crudeli: cosa vi spinge a farlo? Cosa trovate di così soddisfacente nel vedere la donna o la ragazza, che dite di amare, piangere guardandovi come se avesse davanti a sé un mostro, non una persona? 


Forse lo fate perché siete "gelosi" o considerate la vostra compagna come "un oggetto di vostra proprietà". 

Forse è proprio il pensare che siano oggetti a non farvi comprendere il fatto che siano esseri umani, aventi diritto alla libertà. 

Proprio come voi. 


Molti commettono anche il suicidio, dopo aver "involontariamente" ucciso o anche solo picchiato la propria compagna. Come se potessero in qualche modo purificarsi dal male commesso, non lasciandone traccia. 

Non è così, purtroppo. 


Nell'ultimo anno, in Italia, sono stati registrati 80 casi di omicidio di donne all’interno delle relazioni famigliari (dati da VII Rapporto Eures sul femminicidio in Italia). 


Non così tanti, potremmo pensare. 

Se teniamo conto, però, della somma di tutti questi casi con altri dati a livello mondiale le cifre salgono esponenzialmente. 

Le cifre non sono, però, solo un numero. 

Sono delle vite che sono state tolte per dei capricci. 

Sono delle vite che si sono spente prima del tempo. 


Penso che questo non sia solo il pensiero di una ragazza qualunque, una futura donna che potrebbe assistere a scene del genere, direttamente o indirettamente. 

Penso, invece, che questo sia un pensiero molto comune, che debba farci riflettere sugli insegnamenti che vogliamo dare alle generazioni future. 


Impartire dei valori che rendano il rispetto uguale per ogni persona, uomo o donna che sia. 

Perché ad oggi sono ancora molte le persone che compiono gravi azioni, come la violenza sulle donne, e purtroppo molti non riescono a capire quanto ciò sia sbagliato. 

Con gli occhi dei bambini

di Sofia Cassetti - 20 novembre 2020

Era il 20 novembre 1989, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, una data storica che ogni anno celebriamo, come se avessimo bisogno di un promemoria per ricordarci che ogni bambino e ogni adolescente nel mondo deve essere tutelato.

Ancora oggi però, a distanza di 31 anni dall'approvazione del trattato, dopo numerose campagne di sensibilizzazione e milioni di belle parole e di promesse, per molti bambini e ragazzi sembra ancora impossibile uscire da condizioni di disagio quali povertà, fame, maltrattamenti e guerre.

La situazione nel mondo

La situazione nel mondo è davvero allarmante: secondo l’ultimo rapporto dell’UNICEF, in collaborazione con Save the Children, sarebbero 1,2 miliardi i bambini e i ragazzi che vivono in condizioni di povertà multidimensionale.

Il dato non fa riferimento solo all’indicatore monetario, bensì a un disagio più complesso: bisogna tenere conto non solo della situazione economica, ma anche di quanto il bambino sia privato dei suoi diritti fondamentali, come ad esempio quello all’istruzione, alla salute e ad una vita dignitosa.

L’attuale emergenza ha aumentato i poveri del 15%

Rispetto al 2019, sono circa il 15% in più i bambini in condizioni di povertà multidimensionale, ovvero un numero che si aggira intorno ai 150 milioni. 

Come ben sappiamo infatti,  la crisi sanitaria ed economica ha, tra le sue peggiori conseguenze, quella di aggravare le disuguaglianze sociali.

Qual è la situazione in Italia?

È stato appena pubblicato l’XI Atlante di Save the Children che mostra le condizioni di disagio in cui riversano molti bambini e ragazzi nel nostro Paese.

L’Atlante, intitolato “Con gli occhi delle bambine”, pone un’attenzione particolare sulla disparità di genere.

Attualmente, in Italia 1.100.000 bambini vivono in una condizione di povertà assoluta, un numero che dal 2008 è addirittura quadruplicato.

La povertà economica ha come diretta conseguenza quella educativa, così il 13,5% dei ragazzi abbandona la scuola prematuramente. 

Com’è risaputo, il nostro Paese ormai da diversi anni è afflitto da una forte crisi demografica, che ha, tra le diverse cause, il poco supporto alle famiglie da parte dello Stato: basti pensare che solo una minima parte dei bambini, circa il 13,2%, ha la possibilità di frequentare gli asili nido, supporto che aiuterebbe i genitori che, lavorando a tempo pieno, non sanno dove lasciare i figli durante il giorno.

Nel libro vengono evidenziate anche le problematiche che si stanno affrontando durante questa emergenza: circa il 41% dei bambini vive in case sovraffollate, troppi ragazzi non hanno accesso a strumenti tecnologici, in particolare al sud, dove il 20% non ha un computer in casa.

Un’attenzione particolare alla disparità di genere

Veniamo ora ai dati emersi riguardo alle disparità di genere:

la situazione negli anni è indubbiamente migliorata: nello sport, per esempio, in passato prerogativa maschile, si è assistito ad un netto miglioramento; anche in campo tecnologico si sono fatti passi avanti: se fino a qualche anno fa i ragazzi avevano più competenze informatiche, ora i due generi hanno il medesimo livello di competenze.

Le ragazze investono di più sulla loro istruzione: leggono più libri e ottengono migliori risultati scolastici, sono anche più tenaci: una ragazza su tre arriva alla laurea, mentre  ci arriva solo un ragazzo su cinque .

Ad un certo punto però, qualcosa smette di funzionare: le ragazze che non studiano, non lavorano e non stanno intraprendendo corsi di formazione professionale, e che quindi sono nella cosiddetta condizione NEET, sono in numero superiore: uno su quattro rispetto ai ragazzi che invece sono uno su cinque.

Insomma, la situazione nel nostro Paese, sebbene sia migliorata negli anni e sia di gran lunga migliore rispetto a quella in cui si trovano altri Stati, ha ampi margini di miglioramento, in particolare riguardo alla disparità di genere.

Mentre scrivevo questo articolo, ho fatto uso del mio instancabile ottimismo e mi sono immaginata un mondo in cui ogni bambino e ragazzo viene ascoltato, tutelato e protetto.

Un mondo in cui l’istruzione, la salute e la dignità umana sono garantiti per tutti, anche per chi è troppo piccolo per poter scendere in piazza e far sentire la sua voce.

Perché è così difficile comprendere che è necessario investire nel futuro e proteggere chi non può ancora farlo?

La luce in fondo al tunnel

di Sofia Testa - 16 novembre 2020

Bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno? Cos’è la felicità? Domande del genere ronzano nella mia mente ora più che mai, senza che alcuna risposta giunga in mio soccorso.  Mi hanno sempre detto che la speranza è l’ultima a morire. Così giorno dopo giorno osservo chiunque mi si avvicini e il loro modo di affrontare ogni evento: alcuni mi appaiono spaventati, altri sorridenti sempre e comunque, altri ancora appaiono intoccabili e indifferenti dinnanzi a tutto. 

D’improvviso mi domando quale stile di vita, quale esempio io debba seguire poiché sono costretta a sceglierne uno per me stessa e portarlo avanti per riuscire a organizzarmi. 

Eppure rimango ferma davanti a tale bivio. 

I giorni mi sfiorano e continuano il loro percorso, mentre la pandemia globale che stiamo vivendo ci sconfigge. Quando hanno stabilito la quarantena a marzo mi sentivo confusa e abbattuta ma mi impegnavo ogni giorno facendo attività fisica, chiamando gli amici, cercando il lato positivo. Il lato positivo lo paragonerei a uno strato invisibile di pellicola di plastica, come su uno smartphone appena acquistato: immediatamente eliminiamo lo strato quasi invisibile perché non fondamentale, senza considerare che è il motivo per cui lo smartphone non ha subito danni nel trasporto né si è riempito di sporcizia in negozio, e che potrebbe risultare fondamentale perché non accada in futuro. 

Temo di averlo eliminato per istinto e senza accorgermene, temo di aver nascosto in un angolo la speranza, sopraffatta dall’ansia giunta con il secondo lockdown e sospetto che chi mi circonda si stia comportando analogamente.

Eppure ritengo che la felicità la si debba ricercare nelle piccole cose: negli attimi fuggenti e nei sorrisi strappati, nello sguardo pieno di gioia di un bambino a cui viene donato un palloncino. Il turbamento deriva dalla mancanza di motivazione, dal non trovare il tempo di ricercare tale felicità: infatti per i sessanta milioni di cittadini italiani la quantità di questioni da affrontare ogni giorno pare esorbitante tra lavoro, famiglia, notizie scoraggianti sul Covid, timore di rimanere contagiati e mancanza di chi non è più qui.. E allora mi pongo un quesito: “è giusto essere un inguaribile ottimista?” Essere ottimisti aiuta a trovare un equilibrio al caos dinanzi a noi, tuttavia presupponendo un miglioramento immediato si rischia di sottovalutare situazioni difficili e negare la gravità di una pandemia non consente di cancellarla. Allo stesso tempo, se si cominciasse ad avere una visione leopardiana ci si ritroverebbe ben presto come descritto da una canzone dei Green Day, a camminare in solitario sul Boulevard dei sogni infranti, prima ancora che si manifesti l’evento deludente.

Sono giunta alla conclusione che l’unica cosa da fare sia porsi un quesito: che cosa assume valore per me? Una volta scoperta la risposta, lottare con ogni forza per tener vicino ciò che conta. Ci affiancheremo l’un l’altro in questi tempi difficili e se siamo impediti nell’avvicinarci a ciò che per noi ha valore aspetteremo, aspetteremo di poterci avvicinare lentamente, di soppiatto e quando potremo coglieremo l’attimo: strapperemo quel sorriso o quel bacio, racconteremo quella storia, soccomberemo la paura. 

Dopotutto credo di aver compreso qualcosa di importante: nel modo di dire “la luce è sempre in fondo al tunnel” non è presente alcun riferimento alla via da prendere, per cui anche se ci appare tutto grigio o camminiamo sul boulevard dei sogni infranti, ad un certo punto verremo illuminati dalla luce del sole.

Può amazon cambiarci la vita?

di Alessio Sbaglia - 14 novembre 2020

Se pensavamo che la sfida più grande e difficile per i commercianti fosse il Covid 19, beh allora non abbiam visto ancora niente.

Di che parlo? In un futuro non molto lontano, assisteremo ad una vera e propria rivoluzione del mercato globale, che intaccherà prima i piccoli commercianti, quindi botteghe, drogherie, piccoli artigiani locali e mercatini cittadini (che nel loro insieme formano un gran patrimonio folcloristico) fino a far letteralmente chiudere centinaia di centri commerciali, negozi di lusso, alimentari, ristoranti, cinema e teatri e moltissime altre categorie di prodotti… Tanto “Perché devo fare strada per avere qualcosa che posso ottenere/mangiare/vedere in poco tempo comodamente da casa, nelle modalità che preferisco e senza alcuna fretta”?

Del resto la situazione sanitaria precedente e anche quella attuale di lockdown, ci ha resi sempre più sedentari; facciamo la spesa online, ordiniamo prodotti di qualsiasi genere da casa e possiamo pure farceli cambiare subito, mangiamo da casa piuttosto che a visitare nuovi ristoranti, lavoriamo da casa, vediamo film appena usciti sul nostro divano al caldo e con la nostra famiglia, con la possibilità di alzarci quando vogliamo, mettere in pausa o riprendere un’altra volta e pagando meno rispetto al cinema e avendo a disposizione una vasta scelta; vogliamo parlare addirittura dei musei online, dove puoi vederti in cinque minuti l’intero patrimonio artistico degli Uffizi? Insomma tutto viene reso a totale gestione e comodità del cliente, come è giusto in fin dei conti che il progresso debba fare…

Comodità, tranquillità e possibilità di gestire tutto da casa sono gli elementi più vantaggiosi di questo nuovo modo di vivere che da anni ormai si sta sempre più allargando verso la mentalità “dell’immediato”; vedasi monopattini elettrici... Una società che vuole e ottiene tutto subito.

Bello sì, comodo ed efficiente…Ma chi penserà più alla libreria di turno, che si vede superata dall’efficienza di Amazon Prime o del Kindle? Chi penserà al pub locale con gli amici il sabato sera, quando può brindare facendosi portare il panino e la bibita a casa? Chi andrà più a far spese per città e negozi, impiegando ore e dispendio di energie quando può comprare gli articoli che desidera da tutti i brand che preferisce con un click, pagando senza portarsi in giro denaro? Chi penserà alla famiglia del fattorino di turno, che per colpa di un drone automatizzato per il trasporto perderà il lavoro? E chi si occuperà dei magazzinieri o dello staff dei negozi che chiuderanno per colpa dello strapotere di Amazon?

Eh sì, Amazon sta prendendo anno dopo anno in tutti i campi il controllo del mercato mondiale, fino a farci cambiare modo di vita; di questo ne siete consapevoli? Siete consapevoli che migliaia di persone che magari fanno fatica ad arrivare a fine mese e hanno dei bambini da mantenere, perderanno il lavoro? E di tutti quei negozi di cui tanto ammirate le vetrine per il centro della vostra realtà cittadina che di questo passo scompariranno? 

Di esempi se ne possono fare a centinaia come questi. Indubbiamente potrete dirmi che però tutto questo a voi fa comodo, si ottimizzano i tempi, le risorse e si è più efficienti. Amazon però, così come altre realtà dell’E-commerce, potranno anche prendere il monopolio del commercio globale, ma quello che non potranno mai fornirvi, sono le emozioni; cose banali come andare al ristorante, visitare posti dal vivo in divertenti gite con amici o familiari, respirare il profumo dei negozi di lusso, piangere e ridere con la sala del cinema, andare al lavoro/scuola la mattina sentendosi parte di un grande organico complesso, son cose che non hanno prezzo e nessuno riuscirà mai a regalarvi quello che le esperienze fuori casa di qualsiasi genere, regalano.

E voi? Che ne pensate?

Siete favorevoli a questo incremento di sedentarietà e comodità o preferite vivere ogni momento dal vivo e non in maniera virtuale?

A casa o a scuola?

di Francesca Minoja - 31 ottobre 2020

Come ben sapete, la settimana passata, tutte le classi del nostro istituto (e con esso molti altri) sono dovute rimanere a casa e frequentare le lezioni attraverso la didattica a distanza. Questo perché l’ultimo DPCM della regione Lombardia, a differenza di quello emanato a livello nazionale, prevede che il 100% degli studi svolga le lezioni in DAD.

Il nostro Collegio Docenti, però, pensando a cosa fosse meglio per noi studenti, capendo che la nostra istruzione sarebbe stata danneggiata e i nostri diritti a questa calpestati, ha studiato con attenzione il decreto ed è riuscita a trovare un modo per far partecipare in presenza almeno le classi quinte e prime, che per motivi diversi (gli uni per prepararsi all’esame di maturità, gli altri per ambientarsi e capire quale sia la vita di un liceale) hanno bisogno di “vivere” la scuola. 

Fin qui, credo che tutti conosciate i fatti. Forse però non vi hanno messo al corrente di ciò che è successo dopo la pubblicazione della circolare che stabiliva i turni di partecipazione alle lezioni in presenza per le classi prime e quinte.

Molti studenti (e genitori) hanno pensato di mandare svariate mail al dirigente scolastico, dicendo di non essere d’accordo con ciò che era stato deciso dal Collegio Docenti perché comportava un rischio di contagio troppo alto per gli studenti e le loro famiglie. Fortunatamente (o meno, a seconda di quale sia il vostro parere), la preside Boracchi è rimasta ferma sulla decisione presa. 

Per rassicurarvi, vi posso dire che sono stati fatti degli studi che dimostrano che la scuola, ormai, è il posto in cui le persone vengono meno, se non per nulla, contagiate dal virus: questo grazie alle varie precauzioni che vengono prese quali l’uso del disinfettante all’ingresso dell’edificio scolastico, il distanziamento tra i banchi, l’uso della mascherina e, per ultimo, lo scatto della quarantena per tutta la classe, non appena un compagno risulta positivo al test.   

Ora, capisco che alcune persone, che magari vivono con nonni o familiari stretti che hanno patologie particolari, abbiano reali motivi per cui preoccuparsi ma, sinceramente, penso, anzi so, che chi va a scuola a piedi o in macchina dovrebbe preoccuparsi ben poco. E purtroppo sono proprio quelli che appartengono a questa categoria che si stanno lamentando di più del “rientro” a scuola. Dico purtroppo perché queste loro lamentele significano due cose: o non hanno voglia di capire che la scuola è un posto sicuro, oppure non vogliono tornare a scuola per poter continuare a farsi i fatti loro mentre giocano a Clash of Clans durante le videolezioni. Delle due l’una. 

Tra l’altro non riesco ancora a capire come mai a Milano i ragazzi stiano manifestando per chiedere di poter tornare a frequentare le lezioni in presenza, mentre da noi si parla di scioperare perché si vuole l’esatto contrario.

Inoltre, coloro che si sono lamentati di questa decisione del Collegio Docenti ne parlano come se fosse una punizione che ci viene inflitta, quando l’unica punizione consiste nel vedere i propri diritti calpestati ed io vedo questa negazione di diritti solo nel non poter andare a scuola, nel non guardare i professori negli occhi, nel non vedere i miei compagni, nel non chiacchierare al cambio dell’ora o all'intervallo… e vi assicuro che una videochiamata non è la stessa cosa. Ma immagino lo sappiate già. 

Non so come voi, che ora state leggendo questo articolo, la pensiate sugli avvenimenti che hanno riguardato la nostra scuola negli ultimi giorni. Qualunque sia la vostra posizione su ciò, sappiate che non è mia intenzione offendere nessuno ma solo far riflettere su cosa sia meglio per noi.

Nagorno-Karabakh

Quando la religione non c'entra

di Federico De Martino - 30 ottobre 2020

Ultimamente sta passando sottaciuto il conflitto scaturito il 27 settembre nell'Alto Karabakh tra forze armene e forze azere.

E quindi dopo esserci occupati delle bollenti questioni afgane e turche, oggi cercheremo di capire: cos'é la guerra del Nagorno-Karabakh, da cosa si origina, quali sono gli sviluppi, gli interessi geopolitici in campo e la posizione delle superpotenze. 

Iniziamo con il definire il contesto storico-geografico.

La repubblica autoproclamata Nagorno-Karabakh nacque nel settembre 1991, con i cittadini che mediante la legislazione sovietica dell'epoca poterono dichiarare la nascita della nuova repubblica in concomitanza con l'uscita dell'Azerbaigian dall'Unione Sovietica. La decisione fu confermata poi mediante un referendum e si procedette all'elezione del primo governo del nuovo stato.

Bastò solo un anno per rimettere in discussione l'indipendenza a seguito del manifestarsi di dissapori interni all'Azerbaigian, restio a voler cedere definitivamente un così vasto territorio in seno al suo stato pari al suo 8-9%.

Questi sfociarono in un vero e proprio conflitto con la vicina Armenia, garante dei diritti dell'autoproclamata repubblica a causa della presenza di una corposa maggioranza etnico-culturale armena. 

Il conflitto durò due anni dal 1992 al 1994 e portò alla situazione di stallo che abbiamo conosciuto fino a poche settimane fa con forti tensioni portate avanti da trent'anni e una repubblica che praticamente non ha riconosciuto ancora nessuno. 

Ma allora cosa ha fatto riaccendere la miccia del conflitto?

Due cause: una in misura minore e una in misura maggiore.

Da un lato ci sono i forti interessi economici presenti in quell'area, motivo per il quale sono scese in campo al fianco di questi due stati relativamente piccoli e poco allettanti, due pesi massimi nella scena geopolitica globale, Russia e Turchia.

Il mantenimento delle tensioni nella zona è da sempre stato negli interessi dei russi: in origine lo stesso Stalin lo dimostrò con il semplice gesto di affidare il Karabakh a maggioranza armena all'Azerbaigian. Insomma un Azerbaigian debole stimola gli appetiti di Mosca per due ragioni: gas e petrolio di altissima qualità.

Il gasdotto che, partendo da Baku avrebbe rifornito la Turchia nella sua interezza e poi l'Italia e il resto d'Europa (mediante il TAP) rappresenta per i russi una condanna che rischia di diminuire la dipendenza degli europei dal proprio gas nazionale.

L'Azerbaigian possiede uno dei più grandi giacimenti di gas naturale al mondo, mai sfruttato in autonomia per la mancanza delle tecnologie necessarie, e che rende il Paese un fornitore affidabile per i prossimi cent'anni (2,6 trilioni di metri cubi).

In secondo luogo vi è lo scontro religioso: l'Armenia, vicina alla Russia, ha una fortissima tradizione religiosa legata alla cristianità di carattere estremamente ritualistico e orientale che la rende più vicina alla chiesa ortodossa rispetto a quella romano-cattolica. Al contempo il 96% della popolazione azera è di religione musulmana e non può essere un caso che il suo principale alleato sia la Turchia - Paese di cui ho parlato in un articolo passato - sulla carta laico, ma in pratica fortemente islamista che Erdogan ha deciso di portare ai fasti dell'impero ottomano estendendo, tra le altre cose, la propria influenza culturale e religiosa ovunque potesse.

Socrate affermava: "tutte le guerre sono combattute per denaro".

La guerra è un investimento. 

Ma ciò non toglie che anche questo conflitto avviene in zone che hanno una forte identità culturale che aiuta a velare, mediante una fitta propaganda che esaspera le differenze tra i due Paesi, i soli interessi espansionistici ed economici delle due nazioni.

Per gli armeni il Karabakh rappresenta un'ingiustizia storica che disonora l'antico passato del Paese mentre per gli azeri le ingiurie armene rappresentano un'occasione per rivendicare un territorio condiviso tra le due nazioni da tempo immemore. 

Ora la via più probabile sembra essere quella dell'accordo tra i due Paesi con Erdogan e Putin che confermano la necessità di una soluzione a lungo termine, ma è innegabile che il Nagorno-Karabakh resta uno dei fronti più caldi del panorama mondiale.

Toc-toc! Italia se ci sei, batti un colpo!

Come marionette

di Camilla Testa - 27 ottobre 2020

“Non ragioniam di loro, ma guarda e passa”: nel terzo canto dell’Inferno è questa la frase pronunciata da Virgilio a Dante mentre i due attraversano la schiera degli Ignavi. Questi ultimi sono colpevoli di uno dei peccati più gravi che possano esistere, anzi forse si macchiano della peggior colpa in assoluto: quella dell’indifferenza.

La peggiore delle scelte infatti è senza ombra di dubbio quella di non scegliere affatto, quella di lasciarsi trascinare passivamente dalla corrente, quella di lasciarsi sballottare da una parte all’altra senza sosta dal vento senza mai andare in cerca di un qualcosa a cui ancorarsi per proteggersi da questo movimento senza fine.

Tale categoria di individui viene definita da Dante come coloro “che mai non fur vivi”; essi infatti non possono affermare di avere vissuto veramente, in quanto hanno sempre consegnato il  timone della loro esistenza in mano ad altri. Dante riserva agli Ignavi il trattamento che si meritano: non si cura di loro passando oltre. 

Questo, infatti, è proprio l’atteggiamento che i terribili peccatori  solevano tenere nei confronti del resto del mondo mentre erano ancora in vita, essi mostravano totale noncuranza rispetto a tutto ciò che non rientrava nella loro piccola cerchia di competenza, a tutto ciò che, almeno all’apparenza, non li riguardava direttamente. Essi purtroppo non si sono estinti al tempo di Dante nel terzo canto dell’Inferno ma sono in mezzo a noi e spesso nemmeno ce ne accorgiamo, nemmeno ci rendiamo conto di quanto sia proprio il silenzio di fronte alle ingiustizie che essi ostentano a spegnere sempre di più ciò che ancora è rimasto di buono nel nostro mondo, fino a seppellirlo sotto i tanti strati di una spietata indifferenza . 

Martin Luther King disse che “la nostra vita comincia a finire il giorno che diventiamo silenziosi sulle cose che contano”; infatti è proprio il restare indifferenti ad annullare la nostra persona giorno dopo giorno rendendoci come tristi marionette appese ai fili della vita, senza più un’anima, esseri che si vedono passare davanti un’intera esistenza senza mai interrogarsi su cosa sia moralmente corretto e su cosa invece non lo sia e che abbassano lo sguardo davanti al terrore e al sangue, ma nonostante ciò non perdono il coraggio di alzare gli occhi di fronte ad uno specchio probabilmente orgogliosi della loro persona e incuranti del dolore che il loro silenzio genera, incuranti della differenza che una loro semplice parola a volte potrebbe fare per una persona.

Essi risiedono in un Limbo e mancano completamente di  empatia nei confronti di tutto ciò che precede e nei confronti di tutto ciò che segue il loro piccolo mondo, e, fin quando le mura che li circondano rimangono solide, non osano nemmeno alzare lo sguardo in direzione di tutti i cadaveri che hanno lasciato per la strada. 

L’indifferenza è quindi un male radicato nell’umanità ormai da secoli e la cui estinzione sembra risultare impossibile. Quest’estate mi è capitato di vedere un’immagine diffusa sui social che penso faccia veramente rabbrividire e che dovrebbe fare luce su quanto sia immenso e terribile il suo potere e su quali estreme conseguenze esso possa arrivare a portare. L’immagine a cui mi riferisco è stata scattata nel 2000  da Javier Bauluz a Playa de Zahara de los Atunes. La fotografia in questione è stata chiamata da Bauluz “l’Indifferenza dell’Occidente” ed è un'immagine estremamente forte dal momento che mostra in primo piano un uomo annegato, morto nel vano tentativo di attraversare il Mediterraneo, e  non lontano dal suo cadavere ci sono dei bagnanti che trascorrono la loro giornata come se nulla fosse, totalmente incuranti del terribile spettacolo proprio di fronte ai loro occhi. 

La fotografia scattata da Bauluz mostra un atteggiamento tristemente reale che molti ostentano ancora oggi di fronte alle ingiustizie che si verificano intorno a loro, voltandosi semplicemente dalla parte opposta e “passando oltre”.  Essi decidono di fingere di  non fare caso a tutto il male che li circonda per passare la loro vita nella più totale tranquillità senza caricarsi dei problemi degli altri, ma non hanno né mai potranno avere un’esistenza piena; infatti si costruiscono una realtà fittizia di cui possono essere gli unici protagonisti, ma  la  realtà in cui si ostinano a vivere è costruita sul dolore di tanti e prima o poi, proprio come nel terzo canto dell’Inferno Dantesco, anche agli Ignavi del presente toccherà pagare per tutto il male da loro causato.

"Non sono il tuo animale domestico"

L'incubo delle molestie sessuali

di Sofia Testa - 23 ottobre 2020

“CATCALLING” - termine che allude a un padrone che chiama amorevolmente a sé il proprio animale domestico, ma il cui significato odierno è una molestia sessuale verbale o fisica indirizzata praticamente sempre a donne quando camminano tranquillamente per la strada. Fischi, urla, clacson, commenti, sguardi più che prolungati, a volte aggressioni fisiche, effusioni non consenzienti, tentativi di portare via con sé la vittima eccetera 

Che qualcuno fischi per strada a una bella ragazza è assai frequente, considerato quasi normalità dato che lo abbiamo visto accadere spesso. A volte, però, anche se osserviamo un episodio particolare frequentemente, non diventa normale. E non lo dovrebbe mai divenire.

La vittima può non dare peso a un gesto del genere, certamente, ma rimane brutale perché la sensazione è di essere mercificate, giudicate e involontariamente al centro dell’attenzione. In alcuni casi, purtroppo, la molestia costringe la vittima a modificare il suo modo di porsi, credendosi obbligata a non mettere abiti troppo succinti per evitare l’imbarazzo e la paura. La paura anche di muoversi in solitario di notte, persino in luoghi relativamente trafficati, tanto da rendere necessaria la creazione di un’applicazione per aiutare le donne a muoversi la notte senza sottoporsi a pericoli: tale app si chiama “Wher” ed ha lo scopo principale di farle sentire sempre al sicuro, poichè propone la selezione (fatta da altre donne) delle strade più consigliate  per muoversi, in ogni zona e città. Sicuramente un’idea innovativa, come anche l’idea di Mariachiara Cataldo e altre due amiche di creare l’hashtag “breakthesilence” per far conoscere a un numero sempre crescente di persone lo scandalo del catcalling.

Svariate ragazze hanno postato video taggando l’hashtag sopramenzionato e raccontando un episodio personale, a volte anche video ove si possono udire le molestie stesse pronunciate ripetutamente dagli aggressori. Ciò che risulta più grave è la convinzione da parte di alcuni uomini che sia qualcosa di corretto, banalmente divertente per passare il tempo in giro con gli amici, oppure addirittura un complimento che dovrebbe compiacere le ragazze. Esiste però una differenza abissale tra una molestia e un complimento, e bisognerebbe insegnarlo ai propri figli e spiegarlo ai propri amici: le donne non devono essere trattate come giocattoli o merce al mercato ove si grida per ottenere ciò che si desidera, basterebbe fare un apprezzamento educato per far sorridere una persona, anziché umiliarla.  

In Francia il catcalling è un reato multato, anche se a precise condizioni, ovvero si viene multati solo se un ufficiale di polizia si trova nei dintorni. Purtroppo si tratta di una restrizione stringente che comporta che la maggior parte delle molestie vengano ancora ignorate, ma è un ottimo inizio, quasi un segno di libertà. Su http://www.change.org (un sito che presenta petizioni su problematiche di varia natura) si può trovare una petizione per far sì che il Parlamento italiano consideri di renderlo un reato anche in Italia, raggiunte le 50.000 firme. Ma cosa si può fare nel frattempo?

Purtroppo viene ancora ritenuta una questione scomoda e su cui si è disinformati, ma se si uniscono le forze si riuscirà a garantire l’uguaglianza, luminosa come il sole, che allontanerà ogni ombra di paura e umiliazione.

Un filo

Riflessione sulla scuola, ottobre 2020

di Valeria Bertino - 16 ottobre 2020

Sono l'ansia e la paura di non farcela. Ti svegli la mattina e inizi la videolezione con un bruciore nel petto. Un bruciore che senti anche quando pensi alle interrogazioni, alle verifiche. E' un bruciore che conosci bene, ma che è molto più amplificato ora.

Ora, che sei quasi arrivato al traguardo. Un traguardo sudato su un filo. Perché è questo un percorso scolastico, un filo: un equilibrio, un cercare di non cadere mai. A volte traballi, poi ti rialzi. E' un'incertezza e devi essere forte per non perdere tutto. E' un filo di stress, di trepidazione, di ansia.

Un filo che è rimasto teso anche durante una pandemia mondiale.

Ma è giusto? E' giusto che ciò che è per te, a beneficio tuo, ti faccia sentire in questo modo? E' giusto vivere uno dei momenti più belli della tua vita così?

E' facile organizzare un piano teorico, facile stabilire che è necessario alternare una settimana a scuola e una a casa. Ma è altrettanto facile viverlo? E' altrettanto facile non vedere mai quindici dei tuoi compagni?  Magari dei tuoi amici? E' facile avere una settimana piena di cose da fare e una completamente  vuota? E' altrettanto facile arrivare a casa tardi e dover studiare? E' facile alzarsi comunque ogni giorno alle sei anche se sai che dovrai aspettare due ore prima di entrare a scuola?

Riusciremo a trovare una routine? Riusciremo a vivere la scuola e le materie da studiare come abbiamo sempre fatto? Riusciremo? 

È facile dire che dobbiamo abituarci, è facile dire che tanti condividono questa fatica, è facile dire che dobbiamo impegnarci comunque.

Ma non è altrettanto facile farlo, soprattutto quando uno dei momenti più belli della tua vita lo stai vivendo così. Andare a scuola è diventato un continuo rinfacciare, sbatterci di fronte agli occhi che c'è un nemico: un nemico che non conosciamo poi così bene, anche se ne parliamo da mesi, un nemico di cui non capiamo se dobbiamo avere paura o no, un nemico che ci ha tolto la spensieratezza.

Un nemico che ha condizionato ogni nostro piccolo gesto e che per questo non possiamo dimenticare in nessun attimo della nostra giornata.

Ma questo rimane uno dei momenti più belli della nostra vita. 

E mentre ti sforzi di camminare su quel filo, forse, ogni tanto, alzi anche la testa e guardi il panorama. 

E ti ricorderai sempre di ciò che hai visto. 

Forse in un momento della tua vita che non ti aspetti ti salteranno in testa i versi di Leopardi, e ti renderai conto di quanto siano belli o ti ritroverai a parlare in tedesco, quella lingua che tanto hai fatto fatica studiare e... ti capiranno! o rimarrai a bocca aperta di fronte alla grandiosità delle stelle e del firmamento, ti sentirai piccolo, e allora ti verranno in mente le lezioni noiose di scienze e di fisica, e allora quell'immensità non ti sarà poi così sconosciuta oppure ti fermerai a pensare e  ti renderai conto che le domande a cui non riesci a trovare risposta sono le stesse che i filosofi hanno avuto prima di te, anni fa.

E allora sì che ti stupirai. 

Capirai di fronte a un tramonto o a un paesaggio, che cosa significa infinito.

E forse sarai contento che durante una pandemia, l'occasione di stupirti non ti è stata tolta.

Anche se farai tutt'altro.

Caspar David Friedrich, Il mare di ghiaccio

Il tamburello perpetuo

di Giacomo Gallazzi - 13 ottobre 2020

“Piove, senti come piove, guarda come piove, senti come viene giù” Jovanotti dedicó questa canzone alla precipitazione più ispiratrice o demoralizzante che il mondo abbia mai conosciuto: la pioggia. E sentire la pioggia autunnale sulla pelle dopo tanto tempo mi regala un misto di sensazioni che vanno al di là del “bagnato”. L’odore stesso dona uno stato d’animo che si muove tra il malinconico e lo speranzoso, il presente viene cancellato dal tamburellare perpetuo delle gocce sul tetto, sulla giacca o sui capelli, lasciando spazio ai pensieri, che vanno avanti o indietro nel tempo. 

E allora ripenso alle giornate ottobrine degli anni scorsi, dove le foglie colorate mi piovevano dolcemente addosso quando tornavo da scuola, quella stessa scuola che oggi mi ritrovo a frequentare come fossi di passaggio, che non mi consente più di lasciare le mie radici in quelle aule, in quei corridoi, come facevo un tempo. Non sono più bagnate dalle gocce della bellezza d’imparare insieme, non sono più curate dal rapporto che tenevo col mio compagno di banco, non sono più alimentate dalla comunità di ragazzi che incontravo ogni giorno, all’intervallo, e così, si spegne lentamente la mia voglia di entrare in classe.

Mi rimane solo il tamburellare perpetuo della mano sul banco, per rimanere acceso. La scuola tutta è come avvolta in una nuvola bassa, grigia, triste, fredda. E freddi lo stiamo diventando anche noi studenti: siamo più attenti, siamo più efficienti, siamo più concentrati sul nostro lavoro, però diventiamo meno uniti, meno socievoli, meno condivisori, meno estroversi. E la scuola è fatta di persone e parole, non da silenziosi automi mascherati che ricercano il voto migliore. 

Fuori piove ancora, inizio a pensare al futuro, a quello che sarà, a quello che potrebbe essere. E immagino che il mio rapporto con i compagni sarà salvato, che i banchi torneranno ad essere doppi e che la scuola tornerà ad essere quel terreno fertile che è sempre stato. Tuttavia, le notizie che sento ultimamente non sono confortanti, i numerini sputati dagli speaker dei telegiornali parlano chiaro, e io comincio ad avere un po’ di paura. Ma assieme alla paura ho una speranza, riposta tutta in chi può determinare la direzione del proprio futuro: l’umanità. Le persone hanno il potere, se unite, di cambiare tutto questo. Come? già lo sapete, è una filastrocca che ci ripetono da marzo ormai, ma a qualcuno ancora non è entrata in testa. E senza usare tutte quelle noiosissime parole che abbiamo sentito in questi mesi, chiedo solo di poter continuare a uscire fuori, a sentire il tamburellare perpetuo della pioggia, perché alla fine, anche se sacrificata, anche se non libera come prima, anche se mascherata, la vita l'è bèla... basta avere l’ombrèla.

Le fake news

di Laura Fontana - 8 ottobre 2020
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A tutti è capitato una volta nella vita di essersi imbattuti in una fake news, ma forse è meglio se partiamo dal principio.

Cosa sono le fake news?

Le fake news sono delle notizie inventate, ingannevoli, o distorte scritte apposta per ingannare il lettore e per sembrare notizie legittime.

Secondo uno studio accademico e giornalistico, condotto dall’istituto di ricerca Nieman Journalism Lab dell’università di Harvard, le persone più propense a crederci sono i paranoici, i dogmatici e i fondamentalisti religiosi, a mio avviso, però, anche chi non è esperto di social media, magari perché “nuovo” del giro, può sentirsi frastornato dalle tante notizie da cui si viene raggiunti e ciò porta a credere a gran parte dei post che vengono pubblicati.

Come e perché le notizie fake diventano virali?

Le notizie fake diventano virali grazie agli algoritmi dei vari social, che decidono cosa debba essere messo in evidenza sulla base delle condivisioni e quindi delle interazioni che un post riesce a ottenere, quindi è proprio lo stesso lettore che contribuisce alla diffusione della notizia falsa, anche solo cliccando sul post; le persone sono propense a leggere le notizie che si trovano in alto nella bacheca e il meccanismo che si innesca è vizioso e pericoloso, perché spesso vengono influenzate da esse. Le bufale non diventano virali solo per questo motivo, ma anche a causa del “passaparola” tra famigliari e amici, dei titoli accattivanti ma il più delle volte ingannevoli, dei giochi di parole che puntando sulla distrazione di chi legge portano a confondere le fonti, dell’utilizzo improprio di immagini.

Cosa succede se una notizia fake si divulga?

Se una notizia non vera si divulga crea un allarmismo generale, disinformazione, distorsione della realtà, pregiudizi e può portare quindi a conseguenze molto gravi. Quando la notizia diventa virale l’autore ci guadagna in termini di visibilità, che potrebbe addirittura procurargli sponsorizzazioni a pagamento.

Ora vi starete chiedendo “come faccio a capire se una notizia è fake”?

La prima cosa da fare è riflettere sul titolo: poiché le persone sono attratte immediatamente da titoli sensazionali, chi crea una falsa notizia usa questa attitudine a suo vantaggio: molto spesso il titolo di una fake news è scritto in maiuscolo e con l’uso eccessivo di punti esclamativi.

La seconda cosa da notare sono gli errori grammaticali che a volte commettono anche gli autori più accreditati, ma solitamente gli articoli fake ne sono pieni zeppi.

Certamente una delle cose più importanti da fare è controllare le fonti: se il sito è autorevole o molto conosciuto allora c’è meno possibilità che la notizia sia falsa, ma se non lo è, allora la notizia ha più possibilità di essere fake.

L’ultimo passaggio da fare per distinguere una bufala da una notizia vera è controllare se viene riportata su altri siti, se lo è, con buona probabilità non ci si trova davanti a una fake news.

Al giorno d’oggi tutti utilizzano i social e cadere nella trappola delle fake news è più facile di quanto si pensi, perché siamo alla ricerca di qualcosa di intrigante, a volte navighiamo velocemente e con poca voglia di andare a verificare quanto abbiamo sotto gli occhi. E voi, dite la verità, ci siete mai cascati?

Il nostro settimo giorno

di Camilla Testa - 16 giugno 2020

Ci sono determinate parole che si incollano alla nostra mente e una volta lì non si staccano più. Esistono concetti che ci colpiscono così violentemente da stravolgerci e da farci vedere la vita sotto una luce differente. Uno di questi mi cammina accanto da anni ormai,  mi ha aiutata a crescere e penso faccia parte un po’  della vita di ognuno di noi: il concetto del “Sabato del villaggio” di Giacomo Leopardi. L’idea che sta alla base di questa poesia è il fatto che spesso l’attesa di un determinato avvenimento risulta essere più speciale del realizzarsi dello stesso. Nella poesia Leopardi descrive un villaggio che lavora e  si prepara in funzione della domenica,  ma alla fine, arrivato il tanto atteso settimo giorno, pare che sia stato più speciale vivere i preparativi, piuttosto che la giornata tanto desiderata. 

“Cotesta età fiorita E' come un giorno d'allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno, Che precorre alla festa di tua vita” : l’autore decide di accostare la giornata del sabato alla nostra fragile adolescenza.  Insomma forse noi giovani più di tutti perdiamo di vista ciò che ci sta capitando, perché troppo concentrati a pensare a quello che potrebbe succederci un domani. Ma io penso che in fondo ognuno di noi si stia preparando alla sua domenica, al suo settimo giorno. 

Lessing, scrittore tedesco del XVIII secolo, scrisse “l’attesa del piacere è essa stessa un piacere” ed io penso che non fosse per nulla lontano dalla verità. A volte mi sembra che, nonostante viviamo in un mondo che si muove senza dubbio velocemente, alla fine noi passiamo molto tempo aspettando, aspettando un qualcosa che vorremmo accadesse, attendendo che la clessidra si giri dall’altra parte, come a dirci che ”l’attesa è finita”, per poi accorgerci che in fondo non era quello che nel profondo volevamo. Solo quando ci ritroviamo a non aspettare più quel qualcosa, ci rendiamo conto di quante cose siano rimaste celate sotto al velo di quell’attesa; ma non si possono portare indietro gli orologi del tempo: quegli istanti non torneranno e vivranno solo nei ricordi, ma forse proprio nell’attendere il loro ritorno ne capiteranno altri di migliori, di altrettanto speciali o significativi.

”La vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri programmi”: John Lennon con questa frase rese bene l’idea di quanto spesso quei momenti che possiamo definire “vita” si trovano tra istanti durante lo scorrere  dei quali noi magari ci aspettavamo dalla “vita” qualcosa di completamente diverso. Insomma spesso viviamo aspettando, ma questa attesa è parte stessa della vita e forse persino la più imponente parte di essa. Nell’attesa si nasconde l’inaspettato, gli inaspettati momenti che si uniscono a comporre pezzo per pezzo la nostra esistenza. È questo periodo a determinare cosa catturerà la nostra attenzione poi, cosa faremo poi. Ma la parola attesa va anche al di là di tutto questo. Il  verbo “attendere” deriva da “ad tendere” ed è quindi legato all’idea del distendersi, del tendersi verso un qualcosa e io penso che proprio nel corso di questa stessa azione , oltre ad avvicinarci magari a quella cosa che cerchiamo, più che altro finiamo per trovarci mano nella mano con cose che nemmeno immaginavamo e che prima di “distenderci” non erano neppure visibili alla nostra vista.  

La cosa che mi colpisce è che quando stavamo tirando le somme del nostro 2019 forse molti di noi “attendevano” il loro 2020 e ora che lo stiamo vivendo vorremmo tanto ritornare alla “nostra vita” di prima. Quindi forse, quando torneremo alla “normalità”, per la prima volta non saremo colti dalla fretta di abbandonare qualcosa per abbracciare qualcosa di diverso, non saremo soffocati dal fastidioso suono della frenesia, ma riusciremo a dare tempo al tempo e a lasciare ad ogni istante il suo spazio, ad essere spontanei e a vivere il presente. Questo non credo stia a significare che non aspetteremo più nulla,  perché forse farlo è inevitabile: “ieri” aspettavamo di uscire, oggi desideriamo la completa libertà e domani chissà cosa attenderemo. È come se fossimo in una specie di labirinto e , una volta buttata giù una parete, non siamo mai soddisfatti così ne cerchiamo un’altra e così via fino a perdere di vista l’uscita. Ma chissà magari ora qualcosa è cambiato. Insomma non si può rimanere impassibili di fronte a mesi di attesa. Non si può, sicuramente non nella nostra realtà. 

Viviamo in un mondo di secondi recisi dal vento, in una dimensione spezzata, incompiuta, in cui le cose finiscono ancora prima di essere iniziate per davvero. Siamo abituati ad ottenere tante cose nell’arco di pochi secondi o meglio siamo soliti accontentarci di quello che in pochi secondi possiamo prendere per mano. Ma non poter avere più niente di quello che avevamo prima per mesi interi cambia la situazione. 

Prima era facile abbattere la realtà, insomma era semplice affermare che qualcosa non era determinante, ma ora le cose di cui soffocavamo nel silenzio l’importanza sono quelle che gridano più forte dentro di noi. Ed è impossibile non sentirle, è impossibile se si è soli. Forse è questo il vero problema: siamo costretti ad ascoltare noi stessi, come mai prima d’ora. La nostra voce più intima si fa strada dentro di noi e pervade il nostro petto. Stiamo cambiando più che mai o forse stiamo scavando a fondo tra gli angoli delle nostre mura in quello che siamo sempre stati. Per la prima volta non aspettiamo qualcosa che crediamo di volere, ma aspettiamo di volere qualcosa o di riavere qualcosa che faceva già parte della nostra vita.  

Quindi voglio essere positiva e dire che magari  vivremo meglio il nostro “sabato “ e, quando arriverà il nostro “settimo giorno” , ci lasceremo trasportare un po’ dalla corrente, che quel giorno sarà davvero un giorno di festa  e che forse avremo la nostra prima ”domenica del villaggio”.  

L'equitazione ai tempi del Covid-19

di Greta Latte  - 12 giugno2020

In questi mesi di quarantena, tutti ci siamo trovati in una situazione piuttosto difficile; oltre alle complicazioni legate alla salute della popolazione, lo scenario che si è configurato ha messo in crisi anche l’economia italiana. Non da meno, anche i centri ippici hanno affrontato numerose difficoltà. Questo perché il sostentamento di istruttori, collaboratori e degli stessi animali dipende interamente dal loro lavoro; l'approvvigionamento di beni primari si è reso piuttosto complesso in conseguenza all'assenza totale di introiti derivanti dall'attività con gli allievi.

Il lavoro di maneggi, centri equestri e scuderie è basato sulla scuola. La finalità è l’insegnamento dell’equitazione, cioè la capacità di montare a cavallo e di prendersi cura dell'animale. Declina poi sull’ippoterapia e l’agonismo. Le entrate da esse derivanti costituiscono il sostentamento agli equidi e al personale addetto. 

A differenza di altri sport, dove moto, palloni o racchette da tennis sono facilmente parcheggiabili in garage e non richiedono una grande cura, i cavalli sono esseri viventi che hanno necessità imprescindibili quali cibo, acqua e movimento quotidiano.

Per far fronte a queste difficoltà contingenti e non derogabili, molti centri ippici hanno scritto appelli accorati affinché i soci e le persone sensibili aiutassero le loro realtà con donazioni. Inoltre, molte scuderie sono ASD, ovvero Associazioni Sportive Dilettantistiche senza fini di lucro. Per questo motivo si sono ritrovate senza alcuna entrata, con la necessità urgente di provvedere al sostentamento dei loro “collaboratori a 4 zampe”. La situazione ha generato profonda crisi, alimentando paure per la gestione del presente e timori sul destino incerto delle loro attività. 

Il presidente della FISE (Federazione Italiana Sport Equestri), Marco di Paola, ha scritto un lungo post su Facebook ed effettuato un intervento a Striscia la Notizia in cui chiedeva che i circoli ippici fossero i primi a riaprire, con le dovute cautele, spiegando che l’equitazione è un’attività all’aperto, in spazi ampi e senza possibilità di contatto fisico. Si è lamentato di come il Governo avesse ignorato la richiesta di un contributo per i cavalli che in quanto esseri viventi, necessitano di essere accuditi tutti i giorni, un’agevolazione sull’IVA e sui contributi dei dipendenti. Onde evitare fraintendimenti, ha specificato che ringrazia particolarmente i medici e gli operatori sanitari che ogni giorno rischiano la loro stessa vita per combattere questa pandemia. Successivamente ha aggiunto che è consapevole che molte persone stiano piangendo la perdita dei loro cari, che tutti i settori produttivi sono in grande difficoltà economica e le risorse pubbliche sono insufficienti. Tuttavia ha chiesto che non vengano richiesti ulteriori sacrifici da parte della FISE e dei suoi affiliati. Purtroppo la sua richiesta non è stata accontentata nel giro di poco tempo, in quanto il Governo ha dato la precedenza ad altri settori come le attività manifatturiere, il commercio all’ingrosso e le costruzioni.

Nonostante questi disagi e limiti, l’attività equestre è ripartita dai primi giorni di maggio: i proprietari dei cavalli hanno avuto accesso alle scuderie in via prioritaria, per soli 90 minuti. In seguito coloro aventi il brevetto (patente che si prende in seguito ad un esame, pratico e teorico) hanno avuto la possibilità di riprendere l'attività equestre. Per ultima, la scuola è riuscita a riprendere la sua attività in maniera più contenuta, con gruppi di massimo quattro persone a lezione e disinfettando tutti i finimenti utilizzati dagli allievi. Il supporto ottenuto dai soci è stato fondamentale per la sopravvivenza di queste ASD. Il sostegno ricevuto ha permesso che i cavalli continuassero ad avere tutto ciò che fosse necessario alla salvaguardia del loro benessere. 

In conclusione, speriamo che tutto ritorni definitivamente alla normalità, permettendoci di trascorrere del tempo con i nostri amati cavalli senza limiti e preoccupazioni.

Il principe consorte

di Sofia Testa - 10 giugno 2020

Nella data di oggi, esattamente 99 anni fa, nasceva un uomo di nome Filippo, un uomo il cui nome avrebbe fatto la storia, un consorte, un uomo su cui (sotto alcuni punti di vista) ci si informa troppo poco.

Tutto il mondo lo conosce come Filippo di Edimburgo, marito della Regina Elisabetta II. Ma quali sono i pezzi mancanti per ricostruire la sua storia? 

Philip Mountbatten nasce principe di Grecia e Danimarca a Corfù il 10 giugno del 1921 e durante la sua giovinezza comincia una carriera militare promettente. Inizia così la storia d’amore con la regina, con un rapporto epistolare tra i due quando entrambi hanno circa vent’anni e lui è un soldato; ma nonostante sia chiaramente un nobile, al tempo viene mal visto dai parenti di Elisabetta, che avrebbero preferito maritarla con altri. Il loro amore però resiste tanto che si sposano nel 1947 con la benedizione di Re Giorgio,  pur dovendo  tollerare l’imposizione a Filippo di rinunciare ai suoi titoli greci e danesi, divenendo “semplicemente” il Duca di Edimburgo.

La sua vita è piena di difficoltà, vivere “nell’ombra” di colei che diviene nel 1952 regina d’Inghilterra non è affatto semplice da gestire. Gli viene negato il permesso di trasmettere il suo cognome ai figli (come invece previsto dalla legge) e le sue decisioni sono continuamente soggiogate da regole ma Filippo ci viene presentato come un uomo vivace, che sa il fatto suo, riservato e allo stesso tempo con un ruolo cruciale nel Regno d'Inghilterra e la sua modernizzazione. Filippo aiuta sua moglie nel reagire agli scandali in cui è coinvolta la sorella e poi il figlio Carlo, cerca di “tirar su il morale” a corte quando ci sono situazioni di lutto e affronta momenti bui come la vicenda della morte di Diana che è un caso ad oggi archiviato per mancanza di prove.

Inoltre ama lo svago: il suo matrimonio risulta talvolta chiacchierato per via degli hobby come l’automobile e le lezioni di volo, tutte attività considerate “inadatte” a un principe, ma Elisabetta (soprannominata Lillibet) acconsente a tali svaghi. Viaggiano insieme in tutto il Commonwealth e danno alla luce 4 figli (Carlo, Andrea, Anna, Edoardo). Trascorrono più di 70 anni di matrimonio e la loro unione è d’esempio per chiunque: vivere in un “castello” non è come ci viene raccontato nelle fiabe, perciò si manifestano anche dissapori e situazioni spiacevoli con cui avere a che fare prima di diventare coloro che vediamo protagonisti di libri e film.                                                                                                          

Nel 2008 Filippo ha problemi polmonari e viene ricoverato in ospedale per un breve periodo , successivamente gli viene diagnosticato un tumore alla prostata ma ad oggi lo vediamo in forma smagliante. Invece il 10 giugno 2011 in occasione del suo novantesimo compleanno Elisabetta lo nomina “Lord High Admiral della Royal Navy” dato che aveva dovuto abbandonare la sua carriera alla Royal Navy per entrare a far parte della Royal Family. 

Nel 2017 il principe si ritira dagli impegni ufficiali di Stato e nel 2019 smette di guidare a causa di alcuni piccoli incidenti dovuti all’età avanzata; con il coronavirus (a dispetto delle fake news che lo credevano morto) ha trascorso del tempo con sua moglie nel castello di Windsor. Abituati a essere in due dimore separate per i rispettivi impegni, in quarantena vivono  insieme nel castello di Windsor, quasi come avessero ancora venticinque anni e fossero ignari di tutto ciò che li attende. La loro storia somiglia ad un film e lei stessa lo definisce “la sua roccia”, su cui fa affidamento in qualsiasi circostanza. Per quanto riguarda i festeggiamenti del suo compleanno, si organizzeranno videochiamate con tutta la Royal Family e un semplice pranzo con la sua metà...Gli auguriamo il meglio ed auspichiamo un futuro ancora splendente per questa coppia straordinaria. 

George Floyd

di Alice Pizzini - 3 giugno 2020

George Floyd, un uomo afroamericano di 46 anni è morto una settimana fa. George Floyd era accusato di falsificazione di alcuni documenti ed era disarmato. È morto durante un arresto, a seguito della violenza immotivatamente esagerata di due agenti della polizia di Minneapolis. Il video girato dai passanti che assistevano impotenti alla scena ha ormai fatto il giro del web, diventando virale. Nel video si vede chiaramente uno dei due agenti che tiene il ginocchio premuto contro il collo di Floyd, incurante dei suoi 'per favore, non riesco a respirare'. L'uomo, dopo circa dieci minuti sotto la violenza dell'agente ha smesso di muoversi e di respirare, morendo. In tutto ciò i poliziotti impassibili. La gente che per strada li pregava di smettere, di lasciarlo andare, è stata totalmente ignorata. Anche dopo l'arrivo dei soccorritori, ormai totalmente inutile, i poliziotti si mostrano indifferenti, anzi aggressivi nei confronti dei passanti. 

Un'ennesima vita portata via prematuramente dal mondo per colpa di abuso di potere da parte di questi "uomini" che sostengono di essere difensori della legge. Per rendere più chiara la problematica di questo fenomeno, che purtroppo qualche volta avviene in America, ecco alcuni dati ricavati da una ricerca di Mapping Police Violence: nel 97% dei casi di afroamericani uccisi dalla polizia, i colpevoli non sono stati incriminati. Il 30% degli uomini afroamericani uccisi dalla polizia era disarmato, contro il 19% degli uomini bianchi. Nel 2016 meno di un terzo degli uomini uccisi dalla polizia era sospettato di un crimine violento o ritenuto armato. Alcuni hanno puntato il dito contro la criminalità violenta dei soggetti in questione, ma i dati dimostrano che i  livelli più o meno alti di criminalità nelle varie città americane non sembrano rendere più o meno probabile l'uccisione da parte dei Dipartimenti di Polizia. 

Tra le innumerevoli persone che hanno protestato per il fatto ci sono vari giocatori dell'NBA, tra cui LeBron James che si sfoga "adesso capite perché protestiamo?". Quello delle forze dell'ordine è un ruolo fondamentale nella società, proteggono i cittadini facendo rispettare la legge e la maggior parte delle forze dell'ordine nel mondo agisce eroicamente tutti i giorni, ma ormai troppe volte negli Stati Uniti è successo che queste abusassero del proprio potere per ragioni immotivate. In questi giorni sta avendo luogo una vera e propria rivoluzione, i cittadini americani e non stanno protestando a milioni, chi pacificamente e chi in modo esageratamente violento. 

Nonostante i media mostrino praticamente solo le proteste violente, la maggior parte dei manifestanti sfilano in cortei pacifici e qualche volta vengono aggrediti dai poliziotti, che lanciano spray urticante, usano proiettili di gomma e addirittura si fanno spazio tra la folla con le loro auto, ferendo i manifestanti. A Houston un paio di giorni fa, ad esempio, una donna che stava protestando ferma con un cartello in mano è stata investita da un agente di polizia a cavallo, che le è passato sopra senza alcuna motivazione apparente. Ad Atlanta, una coppia di afroamericani, che erano fermi in macchina, è stata arrestata violentemente, i poliziotti hanno spaccato le finestre dell'auto e usato il teaser contro l'uomo, per poi costringere la donna ad uscire. D'altra parte, molti poliziotti si stanno dimostrando sostenitori della protesta, e in alcuni video possiamo vederli abbracciare dei manifestanti e aiutarli. Purtroppo alcuni manifestanti, come succede quasi sempre durante le proteste, stanno decisamente esagerando, spaccando le vetrine dei negozi per poi derubarli e mettendo a ferro e fuoco le varie città, un comportamento chiaramente controproducente e pericoloso. 

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nel frattempo, è stato fatto trasferire in un bunker, e continua ad insultare i manifestanti attraverso Twitter, mentre viene accusato dal gruppo di Anonymous di traffico e abusi di minori. Ciò che è successo a George Floyd è vergognoso ed è successo a molti altri, per questo è giusto protestare, è giusto tentare di sovvertire una mentalità del tutto sbagliata, è giusto scendere in strada e urlare al mondo quanto sia sbagliato il razzismo, quanto sia ignorante pensare che il colore della tua pelle ti renda migliore o peggiore di un'altra persona che non è del tuo stesso colore. La vita ha un valore inestimabile, a prescindere dalla nazionalità, dall'orientamento sessuale, dalla religione e da migliaia di altri fattori. Nessuno ha il diritto di togliere la vita a qualcun'altro. George Floyd è stata la scintilla che ha fatto divampare l'incendio, e penso che l'unico modo per spegnere questo incendio sia fare finalmente giustizia.

Lo studente è solo un numero?

di Antonio Catalano - 25 maggio 2020

“Inserito il voto 10 in Scienze e Motorie Sportive”. La sentenza di Mastercom Pro è positiva, l’alunno viene prosciolto dalle sue ansie e corre entusiasta senza meta, cercando dall’euforia di non andare a sbattere contro qualche muro o qualche spigolo. I commenti con il gruppo della classe sono necessari e ovvi, anche se si tratta solo di motoria. Anzi, è l’ultima ancora di salvezza in un periodo che vede spesso troppo buio e pochissima luce. 

“Inserito il voto 5 in Fisica”. Il morale dello studente subisce un tracollo inaspettato e sembra di rivivere le montagne russe di Gardaland quando ancora ci potevamo permettere di vederci e provare l’adrenalina di quelle giostre. Spesso lo studente, visto il voto negativo, tende ad abbattersi e rovinarsi un’intera giornata, crogiolandosi su quella valutazione che assume le sembianze di una sentenza inesorabile. Eppure è qui che sta l’errore più grande che un adolescente possa fare. 

La scuola ha la sua importanza e questo è innegabile. Eppure bisogna riconoscere che non è il voto a fare la persona e che lo studente non è solo un numero. Sebbene questa frase possa sembrare l’ultimo appiglio di una scalata infinita verso la quinta superiore, invito lo studente ad aggrapparsi forte perché la salita diventa man mano più ostica. E siamo noi che, per renderla più agevole, dobbiamo imparare a reinterpretare le situazioni difficili.  

Immagina di camminare su un filo, sospeso ad un’altezza da brividi. Basta poco e ti ritrovi davanti alla porta dell’inferno con Dante che da ormai più di 700 anni ripete sempre la stessa frase: “Lasciate ogni speranza voi che entrate.” Serve invece uno sforzo maggiore per rimanere in bilico ed arrivare alla fine di questo filo con Beatrice che ti attende per consegnarti le chiavi del paradiso. 

Possibile che a 16 anni credi che la vita sia la scuola e la scuola sia la vita? Che l’inferno siano i prof e il paradiso i giorni di vacanza? Che i voti siano il giudizio universale? È possibile che a 16 anni il mondo abbia il diametro del cortile della scuola?”. Sono le 22, dopo aver finito un altro capitolo di “Ciò che inferno non è” di Alessandro D’Avenia, tento di addormentarmi. Una notifica appare sul mio cellulare: “Inserito il voto 7 in Scienze”. La luce dello smartphone mi acceca leggermente e allora richiudo subito gli occhi. Crollo in un sonno profondo, senza nemmeno accorgermene. La sentenza anche oggi è stata positiva, sono stato ancora prosciolto dall’ansia del voto. Anche se il giudice mi ha riferito che ci rincontreremo ancora molte volte. L’importante è che io sia sempre me stesso…

Il diritto alla salute... Ma a che costo?

di Federico De Martino - 19 maggio 2020

Così recita l’articolo 32 della nostra Costituzione “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

Siamo tutti d’accordo che il diritto alla salute, come esprime continuamente il nostro Presidente della Repubblica, costituisca il caposaldo essenziale della comunità.

Nella Costituzione non è prevista però una gerarchia di diritti; non esiste un diritto “più uguale’’ degli altri, sebbene una sentenza (numero 58) del 2018 della Corte Costituzionale sancisca che tra i diritti “(…)Il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro (…)”.

È inevitabile però che questa proporzionalità stia mancando.  

Cuore pulsante per il benessere di una nazione è senz’altro l’economia che inevitabilmente è messa a repentaglio dalle recenti misure restrittive; si pensi che le stime sul prossimo PIL (Prodotto Interno Lordo) si aggirano intorno al 

-9,5% e la produzione industriale è calata del 29,3%. Ciò significa che, al ritmo di perdite di 10 miliardi alla settimana, ci si vedrà meno ricchi e sempre più indebitati.

Gli italiani infatti sono costretti sia per legge, che per obblighi etico-morali a rimanere in casa per fronteggiare la pandemia da Covid-19. Non metto in dubbio anche qui l’utilità di tali misure: ma quando lo Stato può vietare di poter lavorare, se non è in grado di garantire a tutti forme di sostentamento alternative?

Nella testa di tanti italiani risuona, rimbomba una frase martellante: “E adesso come faccio?” E la risposta spesso non c’è, perché ti accorgi di essere dannatamente solo.

Si pensi ad esempio che per la Cassa Integrazione in Deroga (ossia un intervento straordinario di integrazione salariale per lavoratori che non possono usufruire, per una serie di ragioni, dello stipendio) siano state esaminate solo 33 mila domande, a fronte di una domanda ben più ingente. 

Forse per burocrazia o forse perché mancano (secondo “il Giornale”) i 2,8 miliardi per finanziarla, sta di fatto che i soldi non sono arrivati, sebbene servano in tempi rapidissimi se non si vuole che la situazione già precaria degeneri definitivamente.

Per darvi l’idea invece della drammaticità che molte famiglie italiane stanno vivendo al di là delle proiezioni sull’aumento della povertà e dei dati sui suicidi tra imprenditori e disoccupati (per Link Campus 42 decessi, di cui 25 nel periodo di lockdown e 16 solo nel mese di aprile), vi riporto la testimonianza di Maria Grazia Buzzi, che con l’iniziativa del “negozio solidale” della mia parrocchia (un’opportunità nuova di impegno attivo verso i più poveri per l’intera comunità sia civile che parrocchiale, della quale parlerò in un articolo a parte), cerca di venire in aiuto dei cittadini più bisognosi quando “lo Stato non c’è”.

“(…) le famiglie dotate di tessera per l'accesso al negozio sono 82. Di queste, in periodo di coronavirus, una dozzina non usufruisce del servizio di consegna al domicilio del pacco con generi di prima necessità  per vari motivi. (…) Alle restanti 70 famiglie già in carico si sono aggiunte  famiglie segnalate da altre Associazioni, dalle catechiste, dalle insegnanti del plesso scolastico del rione, o dai Servizi Sociali del Comune per un totale di 109 famiglie. (…) ogni giorno arrivano nuove richieste di presa in carico di famiglie che mai, in tempi normali, si sarebbero rivolte alla Caritas per chiedere aiuto e che ora si trovano in grande difficoltà economica.

Sappiamo però che le organizzazioni non governative, cattoliche e non, riescono solo in minima parte a soddisfare la sempre crescente mole di richieste che in questo periodo ha assunto proporzioni impressionanti.

E le rapine o le razzie nei supermercati potrebbero addirittura essere prese in considerazione come un quasi legittimo esercizio della disperazione.

E’ giusto, qualora non sia possibile usufruire di forme di sostentamento alternative né per l’impossibilità economica dello Stato né per mancanza di risparmi da parte della famiglia, impedire ai cittadini di lavorare?

Il diritto alla salute (in questo caso, tiranno su tutti gli altri) può precludere il dovere da parte dei genitori di “mettere un piatto in tavola” per sé e per i propri figli?

Il 29 Marzo, Conte affermò: “Nessuno sarà lasciato solo”. 

E così sia.

L'insensata retorica delle mani rubate all'agricoltura

di Federico De Martino - 10 maggio 2020

Una delle problematiche più discusse durante questa prima ondata di Corona Virus è senza ombra di dubbio quella legata al settore agro-alimentare.

Se infatti nelle prime settimane di lockdown c’era il timore che cessasse totalmente l’attività produttiva, non potendo dunque più garantire la fornitura di beni di prima necessità ai supermercati - generando il panico tra le famiglie che come un fiume in piena si riversava su di questi per fare incetta dei prodotti alimentari rimasti -, ora Coldiretti (la Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti) lancia l’allarme perché nei campi mancano oltre duecentomila braccianti e la stagione è seriamente a rischio.

Il problema è la chiusura dei confini che non consentirebbe ai tantissimi lavoratori che arrivavano in Italia solamente per il periodo estivo di prestare servizio nei campi, che ultimamente sono diventati teatro di impressionanti scorribande per animali d'ogni specie. 

La politica si divide: e se c’è chi cerca soluzioni razionali come l’inserimento di voli charter per importare manodopera dagli Stati dell’Est, c’è chi coglie l’occasione per portare avanti inutili battaglie politiche e campagne di regolarizzazione di braccianti immigrati (ma quali, se quasi 1/3 di quelli totali arriva dall’estero?) e chi rievoca il passato, affermando di poter risolvere il problema - pensate un po’ - inviando nei campi persino gli studenti! 

L’ultima di queste trovate si basa su un'opinione molto comune che tende a mettere in contrapposizione il virtuosismo della parte più anziana della popolazione con la presunta inettitudine delle nuove generazioni che spesso sprecherebbe (secondo i più sterili stereotipi) il proprio tempo invece di dedicarsi ad attività più produttive.

“(...)Se guardiamo i nostri figli ci preoccupiamo ancora di più, se guardiamo i nostri nipoti chiudiamo gli occhi perché i nostri figli a nostra volta non hanno fatto nient’altro che erodere la ricchezza accumulata, dai padri e dai nonni: questa è stata la loro funzione perché non sanno far niente(...)” - Umberto Galimberti, filosofo e sociologo, in una delle sue tante interviste che si può trovare su Youtube. 

Quante volte abbiamo sentito frasi come: “siete mani rubate all’agricoltura”?

Come detto prima, ultimamente torna di moda l’idea di inviare nei campi gli studenti al fine di fronteggiare la carenza di manodopera. Si tratta certamente di una mossa demagogica di una parte della classe politica italiana volta a rievocare quanto accadde negli anni del boom industriale quando fiumi di ragazzini spesso molto giovani si spaccavano la schiena nei campi o come scaricatori di porto per paghe da fame.

Attenzione: non sto affermando che sarebbe la stessa cosa, considerato che siamo comunque nel 2020 (sebbene le paghe orarie di un bracciante si aggirino comunque soltanto sui 7 euro) e il nostro sistema legislativo non permetterebbe un ritorno di quegli scenari, ma è come se ci fosse un desiderio di far pagare il conto anche alle nuove generazioni delle sofferenze e delle fatiche dei propri predecessori per un progresso che negli anni si è ottenuto proprio grazie ai loro sacrifici.

L’Italia, pur nelle sue difficoltà, è il settimo Paese più ricco del mondo, secondo Credit Suisse, che permette a quasi tutti i cittadini di attuare un percorso di studi regolare non caricando sui i giovani la preoccupazione, almeno nella minore età, di doversi trovare un'occupazione per mantenere la famiglia. Ma questo ripudio del progresso di civiltà e dello sviluppo da parte della parte più anziana della popolazione, questa incapacità nel saper apprezzare il benessere dei nostri tempi e le potenzialità delle nuove generazioni è decisamente preoccupante. 

La mancanza di occupazione non può essere imputata al parassitismo della fascia giovanile e al “non saper far niente” (tipica tendenza a trovare una soluzione semplice ai problemi complessi) ma è dovuta al fatto che la gioventù di oggi è inserita in un modello economico già imposto con una classe dirigente sempre più disinteressata del problema e che cerca di aggirarlo con sussidi alla disoccupazione, redditi di inclusione e altre misure di assistenzialismo che si sono rivelate totalmente fallimentari. Per farvi un esempio: più ragazzi hanno la possibilità di studiare (e per più anni) meno saranno disposti ad accettare mestieri decisamente più gravosi e che non richiedono particolari competenze. E questo è uno dei tanti problemi a cui bisognerà trovare una concreta soluzione.

Smettiamola di mettere continuamente il presente in relazione al passato perché la storia biografica della nostra Ministra delle Politiche Agricole Teresa Bellanova (che vi invito a leggere anche su Wikipedia), ce lo ribadisce quotidianamente che sono due mondi completamente diversi e non comparabili.  

Reclusione

Istruzioni per l'uso

di Francesca Minoja - 1 maggio 2020

Ultimamente pensavo al fatto che non credo fosse proprio nei nostri sogni più profondi quello di ritrovarsi alle cinque del pomeriggio a rivedere fino allo sfinimento la stessa serie tv che conosciamo a memoria. Perciò ho pensato potesse essere utile condividere alcune idee su alcune attività da provare per rendere produttivo questo periodo (in cui abbiamo effettivamente il tempo che aneliamo per tutto l’anno aspettando l’arrivo delle vacanze estive).

COLTIVARE UN ORTO SUL BALCONE

Evitare di rubare la verdura dal frigorifero per fare esperimenti e, possibilmente, cercare di non scambiare erroneamente la terra col caffè del papà.

IMPARARE GIOCHI DI MAGIA CON LE CARTE

Mio fratello ha ben pensato che, per esercitarsi, fosse una buona idea fare i trucchi con le carte, nel giardino del nostro palazzo, alle bambine che scendono a giocare: il risultato è che ora, se lui non si presenta entro le cinque, le si sente gridare disperate il suo nome...

LEGGERE IL LIBRO CHE PRENDE POLVERE SUL COMODINO DA ANNI

Non possiamo più mentire a noi stessi dicendo che non abbiamo il tempo per iniziarlo. Ma, se un tomo alto quanto Guerra e Pace non vi alletta, i fumetti vanno sempre bene: il vostro gatto non lo dirà a nessuno!

IMPARARE FINALMENTE A CUCINARE

Così l’anno prossimo, alla gara di torte dell’ultimo giorno di scuola, la vostra vincerà sicuramente.

SCRIVERE IL FANTOMATICO LIBRO CHE OGNUNO HA NEL CASSETTO 

Almeno così mi dicono, ma credo che anche un “diario di bordo” sia accettabile. Io lo avrei intitolato “I miei fratelli e altri animali”, ma ho sentito che ormai hanno già usato un nome simile per un altro libro...

TERMINARE IL DIPINTO CHE RESTA DA MESI INCOMPLETO SU QUELLA TELA NELLO STUDIO

Il nostro non è un liceo artistico, ma so per certo che ci sono nelle nostre classi talenti anche di quel mondo fatto di tavolozze in legno, baffi arricciati e cappello alla francese. Ah, come?! Non è quella l’uniforme dei pittori. Poco male: potete sempre portarvi avanti con la prossima locandina per la Notte Nazionale del Liceo Classico.

STUDIARE UNA NUOVA LINGUA

Nel prossimo giro del mondo, sarete capaci di battere Google Traduttore sul tempo! Pare, tra l'altro, che in molti l’abbiano trovata una buona idea, anche perchè so di alcune applicazioni che stanno proponendo un abbonamento gratuito di trenta giorni proprio per sollevare il morale in questo periodo.

CREARE UN NUOVO BLOG

Non sono un’esperta in materia, ma, volendo, potreste anche diventare famosi! 

STUDIARE TUTTE LE RAZZE DI CANI (O GATTI)...

...in modo da sapere esattamente quella che vi farete regalare a fine quarantena, come premio per non aver imbavagliato nessun famigliare nello sgabuzzino.

Questo è il mio ultimo e, forse, più sincero consiglio: fare approfondite ricerche sul primo luogo che vorrete visitare una volta “liberi” di farlo. Prendetevi il tempo necessario (tranquilli che ce n’è) e pensate a dove vorreste assolutamente andare o  tornare e organizzate il viaggio della vostra vita! Con l’augurio che leggere questo articolo sia stato un passatempo migliore di contare quante volte al giorno viene usato il termine “coronavirus” al telegiornale, spero davvero che sfrutterete almeno uno dei miei consigli.

Perso per strada

di Alice Pizzini - 29 aprile 2020

“Signori, devo premettere che a me nei libri piace leggere solo quello che c’è scritto; e collegare i  particolari con tutto l’insieme; e certe letture considerarle come definitive; e mi piace tener staccato un libro dall’altro, ognuno per quel che ha di diverso e di nuovo; e soprattutto mi piacciono i libri da leggere dal principio alla fine. Ma da un po’ di tempo a questa parte tutto mi va per storto: sembra che ormai al mondo esistano solo storie che restano in sospeso e si perdono per strada.”

Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Sono passati tre anni da quando ho letto questo libro, ma credo di aver capito a fondo questa frase solo ultimamente. Il periodo che stiamo vivendo è incerto, confuso e a volte sembra sopraffarmi la paura di perdere me stessa. Mi sono sentita senza più punti di riferimento, senza sapere dove guardare e ho trovato rifugio, ancora una volta, nei libri. 

Parlando con i miei amici tuttavia mi risulta chiaro che non sia così per tutti, anche se in comune abbiamo tutti il bisogno di trovare una via d’uscita da questa surreale realtà.

E’ fin troppo facile sentirsi persi alla nostra età, perché dobbiamo interfacciarci con vari cambiamenti, con le prime responsabilità, dobbiamo iniziare a capire come gira il mondo, in una maniera più realistica, senza  idealizzarlo come facevamo da bambini. 

Ma diventare adulti in questo periodo, restando chiusi in casa senza vedere i nostri amici e professori, le persone che probabilmente hanno più influenza sulla nostra crescita, è davvero difficile. Siamo sottoposti, come tutti del resto, ad un grande stress, dobbiamo seguire tutte le regole che ci sono state giustamente imposte e temo che sia difficile trovare lo spazio per fare quei piccoli sbagli che ci aiutano a crescere. Dobbiamo imparare a conoscere noi stessi, capire se ci stiamo relazionando nel modo giusto con gli altri, e questo lungo periodo di riflessione ci sta senza dubbio dando modo di farlo, ma sono convinta che in questo caso la pratica sia più utile della teoria.  E mi chiedo quando sarà possibile applicare ciò che stiamo imparando su di noi in questo momento, mi chiedo se non sarà troppo tardi. Il tempo sembra scorrere così velocemente in questi anni di adolescenza, normalmente abbiamo giusto qualche mese per abituarci a noi stessi, perché l’anno dopo saremo cambiati e dovremo imparare a conoscerci di nuovo, quindi questi mesi rubati alla nostra vita normale, anche se sembrano pochi, influiranno di certo su questo percorso di crescita.

“Lei crede che ogni storia debba avere un principio e una fine? Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l’eroe e l’eroina si sposavano oppure morivano. Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte.”

Cosa ci attende? Qual è la fine di questa storia? Sarà davvero quando potremo uscire di nuovo, abbracciare i nostri cari e divertirci insieme che sarà finita? 

Non credo. Credo che anche tra un anno, due, tre o cinquanta questa storia non sarà ancora finita. Continuerà ad esistere dentro ognuno di noi, dentro quelli di noi che si ricorderanno delle persone che hanno perso, dei sacrifici che hanno fatto, del modo profondo in cui questa esperienza ci ha cambiato. Le nostre vite andranno avanti, noi riprenderemo a fare le cose che facevamo tutti i giorni, ma saremo ancora noi? O saremo una diversa versione di quelli che eravamo prima?

Vorrei poter rispondere a questa domanda, perché me la sto ponendo da più di un mese. Chi sarò io quando uscirò da questa casa? E chi sarete voi?

Esco o non esco?

di Ronny F. Zea Cedeno - 27 aprile 2020

Esco o non esco? Questo è l’inizio di una celebre canzone del noto cantante indie Calcutta e che in questi giorni mi ha fatto riflettere aspettando le nuove dichiarazioni di Giuseppe Conte. Scrivendo ai miei amici su whatsapp, ho notato il gran desiderio, nei loro messaggi, di poter finalmente uscire il 4 maggio, di incontrarci dopo più di cinquanta giorni di quarantena tra le mura di casa. Tutti noi non vediamo l’ora di poter mettere piede fuori casa, di incontrare la migliore amica, la fidanzata e di parlare con qualcuno che non siano i propri genitori o  la propria sorella. Tutti avremmo voluto uscire il 4 maggio, ma il premier ha parlato ieri sera: “Se ami l’Italia mantieni le distanze.”Il desiderio, quindi, di uscire come se non fosse successo niente è svanito, si è vaporizzato. 

Ricordiamoci che il virus è ancora dietro l’angolo, miete ancora vittime, per questo non possiamo allentare la presa. Dal 4 maggio, inizio della Fase 2, potremo visitare i nostri congiunti, con l’utilizzo della mascherina e rispettando le distanze, ma non per recuperare la grigliata di Pasquetta: gli assembramenti sono ancora vietati. E con congiunti si intendono i nonni, gli zii, i fratelli e i coniugi; quindi amici e fidanzati, dovete ancora aspettare. Potrete uscire a fare la catartica corsetta mantenendo sempre le distanze, potrete fare sport nei parchi; non potrete andare in un’altra regione, ma potrete dare un ultimo saluto a un caro che è venuto a mancare durante questa tragedia (basta che al funerale non si superino le 15 persone). I ristoranti potranno riaprire, ma solo per l’asporto: beati i crespiani bustocchi, perché potranno godere della cucina di da Mammà e degli altri locali che solitamente occupiamo dopo il suono della campanella. Dal 18 maggio, invece, apriranno le mostre, i musei, i negozi di vendita al dettaglio; dal 1 giugno potremo finalmente andare dal nostro parrucchiere di fiducia, al bar o al ristorante. Dopo il discorso di Conte molti hanno criticato la mancanza di novità, affermando che il nuovo dpcm fosse identico a quello precedente. Identico significa completamente uguale, perfettamente somigliante a qualcosa: la possibilità di far visita ai parenti, ad esempio, non c’era. Le novità e le differenze, quindi, ci sono.

L’Italia ha chiamato ancora e noi dobbiamo rispondere con più fermezza, passi indietro non sono accettabili. Certo, chiedono, chiedono e chiedono ancora, noi cosa ci guadagnamo? La tutela della nostra salute e di chi amiamo e la consapevolezza di aver dato un aiuto concreto a questo splendido paese, qualcosa che in molti non si sarebbero aspettati di fare. Una mia professoressa ha detto in videolezione che se c’è un momento per cui la metamorfosi da adolescente ad adulto può e deve avvenire è proprio in questo momento.  Per quanto sia difficile accettare di non poter ancora uscire, è in questo periodo di chiusura e di riflessione che noi ragazzi possiamo dimostrare di essere maturi e di essere cambiati nel profondo, è in questo silenzio della nostra cameretta disordinata che noi possiamo ascoltare il rumore della nostra metamorfosi, è questo momento in cui il quesito “esco o non esco?” non sussiste.

Un buon libro e una tazza di tè...

di Sofia Testa - 21 aprile 2020

Ivan Nikolaevič Kramskoj, Reading Woman (ritratto di Sofia Kramskaya, sua moglie), 1866

Siate onesti, da quanto non prendete un po’ di tempo per finire quel libro che vi appassionava ma eravate troppo impegnati per leggere? Potrebbe essere il momento giusto per finirlo o, se preferite, per voltare pagina e aprirne un altro.

La lettura è un’attività di svago ma anche di allenamento per la nostra mente, e per molti è una vera e propria passione, ma ultimamente è stata anche parzialmente abbandonata poiché spesso ritenuta noiosa o “poco di tendenza”. Con l’innovazione e la tecnologia che possediamo oggi, non mancano infatti coloro che sostituiscono alla lettura un episodio di una serie tv o una partita a un videogioco. Ecco invece i motivi per cui immergersi nella lettura può essere la chiave giusta per affrontare questa quarantena (e non solo).

In conclusione, mentre bramiamo la nostra libertà e l’uscita da casa possiamo trovare nei libri uno svago allontanandoci almeno con la mente.

Esistono solo Europa e Stati Uniti?

di Ronny F. Zea Cedeno - 17 aprile 2020

Sulla Terra i continenti sono sei: America, Africa, Antartide, Asia, Europa e Oceania. Eppure in questi giorni ci sembra che telegiornali e quotidiani ci spaccino l’Europa e l’America (il Paese governato dal biondo che conquista tutti col suo sguardo, non il continente) come le sole zone dove, oltre i contagi, ci sono, ahimè, anche i morti. Esistono solo Europa e Stati Uniti? Perché vorrei sapere com’è la situazione in Africa, in America Latina, in India, zone popolate, ma anche povere, che non hanno la fortuna di avere ottimi presidi sanitari, con igiene scarsa e con poca informazione. 

In questo articolo vorrei parlarvi, quindi, di quelle zone del globo escluse come Ecuador, Kenya e India,  purtroppo zone marginali, poco conosciute e, ad oggi, sembra che lo siano ancora di più.

Se viaggiassimo in Ecuador, paese del Sudamerica e, per altro, terra che mi ha dato i natali, la situazione è macabra. Passeggiando per le strade di Guayaquil, città portuale con circa tre milioni di abitanti, troviamo fuori dalle porte delle case cadaveri. Ovviamente avvolti da lenzuola o messi in sacchi, non sono così crudeli. In Ecuador abbiamo circa cinquemila casi confermati di Covid-19 e 272 morti, ma le salme di queste povere anime non trovano la pace sotto terra, la trovano per le strade. Ci sono video che mostrano come famiglie stiano fuori di casa per la puzza emanata dal corpo di un caro nonostante l’uso di qualche ventilatore. Ci sono immagini di bare davanti le case che aspettano solo di essere portate via, come si fa qui per la spazzatura. Ci sono video dove si vedono corpi bruciare per strada, speriamo che sia solo un montaggio come dicono alcuni. Vicino alla mia casa di Guayaquil era presente un corpo, avvolto da un sacco blu, sopra una panchina che per giorni è stata sola al sole. Un’anima buona ha messo un ombrellone per coprire quel solitario corpo dal cocente sole equatoriale.

In Kenya, bellissimo Paese dell’Africa dalla ricchezza naturalistica, abbiamo per ora 184 casi confermati e 12 decessi. Sembra poco, ma siamo sull’orlo del collasso. Parliamo di un Paese di cinquanta milioni di abitanti, ci saranno un bel po’ di posti letto, no? 155 posti di terapia intensiva su cinquanta milioni di persone. A preoccupare sono gli slum, le baraccopoli densamente popolate e con misere condizioni igieniche. Si dice “lavatevi le mani”, ma dov’è l’acqua? I rubinetti mancano. Alcuni esperti dicono che se il virus di Wuhan arrivasse negli slum, scoppierebbe, non solo in Kenya ma nell’Africa tutta, una “bomba sociale”. E pensare che in quelle baraccopoli, dove le case non sono altro che mattoni, pezzi di legno e lamiere, le persone muoiono per una polmonite.

Passando per il vasto subcontinente indiano, terra del Taj Mahal e di Gandhi, ci ritroviamo circa 6400 casi e cinquecento morti. L’India è uno Stato con poco più di un settimo della popolazione mondiale ed è una crescente potenza internazionale. Mettere in lockdown più di un miliardo di persone ha delle conseguenze che poco c’entrano con la sanità. E’ vero che anche qui ci sono baraccopoli, il sapone può essere un privilegio per pochi e i morti potrebbero aumentare da un giorno all’altro. Ma è anche vero che chi aveva un lavoro, seppur misero e faticoso, l’ha perso. Nei giorni scorsi migliaia e migliaia di lavoratori sono scappati dalle città verso i villaggi natali perché, senza stipendio, non possono permettersi di vivere dentro delle mura di cemento. Ciò che fa paura è il fatto che coloro che sono scappati dalla giungla di cemento verso le piccole comunità di campagna potrebbero avere il virus, perché di tamponi se ne sono fatti pochi, e, quindi, potrebbero averlo portato in aree difficilmente accessibili per i medici.

Il lato positivo nell’occhio del ciclone? La natura, in tutto il mondo, ha ripreso il suo territorio senza rumore, silente. In India, con la diminuzione dello smog, si può vedere la catena dell’Himalaya da 200 km di distanza, o possiamo osservare animali come elefanti e pavoni che occupano stabilmente  villaggi e città; in Galles si è visto un gregge di caproni vagare per un borgo e brucare l’erba dei parchi, per non parlare delle papere in Darsena a Milano o di un puma che passeggia per le strade della capitale del Cile. Per una volta siamo noi gli animali in gabbia.  

Spero di avervi fatto compiere un lungo viaggio per il mondo con la mente, perché anche rinchiusi in casa si trova un modo per viaggiare e per riflettere. 

La più bella storia d'amore...

di Antonio Catalano - 16 aprile 2020

Di uomini come Luis Sepulveda ne nascono uno ogni mille anni. E con questa frase non ho intenzione di acclamare generalizzando, come si fa in genere con i più grandi della letteratura non più in vita, né voglio sminuire quello che è realmente stato per tutti noi. Perché di fatto la tua vita è incompleta se non hai incontrato almeno una volta nella tua vita una sua frase, una sua citazione, un suo libro o una sua poesia. 

La storia di Luis Sepulveda è di quelle che, non appena ne vieni a conoscenza, fatichi a scordare. Per visualizzare la mappa dei suoi spostamenti, dovresti tenere davanti a te una mappa del pianeta e provare, come un bimbo ingenuo appena nato, a camminarci sopra, tanto... paese che vai, Sepulveda che trovi.

Luis, a causa del suo pensiero politico, delle sue idee fortemente sostenute e del suo ruolo come scrittore che denunciava i soprusi e le ingiustizie in Cile, terra natale, ha dato sempre fastidio ai potenti tanto che più volte l’hanno costretto all’esilio. Lui però non ha mai conosciuto la resa, perché un uomo non si arrende mai, nemmeno di fronte alla più alta delle montagne. 

Ma anche di fronte ad una montagna di ostacoli, Luis ci insegna con la sua disarmante semplicità a superare tutte le difficoltà. E calza a pennello uno dei dialoghi più famosi costruiti dallo scrittore cileno attorno a due figure normali come quella di un gatto e quella di un umano. “- Bene, gatto. Ci siamo riusciti - disse sospirando - Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante - miagolò Zorba - Ah sì? E cosa ha capito? - chiese l’umano - Che vola solo chi osa farlo - miagolò Zorba.”

Nella straordinaria semplicità e nell’immensa saggezza della risposta del gatto - “Vola solo chi osa farlo” - riconosciamo il più grande insegnamento che, soprattutto gli adolescenti, dovrebbero tenere in conto: nella vita per raggiungere un obiettivo, dobbiamo osare. Senza perdersi dietro a troppe parole. Senza ricercare artifici stilistici, retorici o perdersi nelle difficoltà che ci creiamo all’interno della nostra mente. 

Forse però l’eredità più importante Luis ce la lascia quando parla d’amore. Con la moglie Carmen, lo scrittore cileno supera qualsiasi ostacolo, aiutato dall’immenso amore che unisce i due coniugi. Un amore che non può essere vinto nemmeno dalle diverse separazioni dovute, come sottolineavo prima, ai regimi dittatoriali e agli esili che Luis ha dovuto affrontare nel corso della sua vita. E allora decide di dedicare all’unica donna della sua vita quanto di più puro e speciale ha, oltre al suo amore, scrivendole così una poesia. Già dal titolo – “La più bella storia d’amore” - si intuisce quanto egli sia innamorato della sua Carmen, la donna paziente, permissiva e affettuosa che lo ha accompagnato in tutte le lotte, anche quella contro il Coronavirus, che si è conclusa oggi. Qui lascio il finale cristallino e magico di quella poesia, che non potrà mai essere vinta da nessun virus. E Luis questo l’ha sempre saputo. 

“Così, ancora una volta

facilmente come nasce una rosa

o si morde la coda ad una stella cadente,

seppi che la mia opera era scritta

perché La Più Bella Storia d’Amore

è possibile solo

nella serena e inquietante

calligrafia dei tuoi occhi.”

Così se ne va uno degli ultimi pilastri della letteratura contemporanea. L’uomo che non ha conosciuto ostacolo che non fosse superabile nella sua vita. E che ci ha insegnato a volare. Oltre ogni distinzione. Oltre ogni difficoltà. Oltre anche questo maledetto virus. Uniti, tutti insieme, nella più bella storia d’amore. 

Diamoci un taglio!

di Giacomo Gallazzi - 15 aprile 2020

La ricevuta dell'ultimo pagamento al mio parrucchiere recita la data 5 Marzo 2020, ore 14:22.

Per un maschio coi capelli rasati ai lati e il ciuffo lungo, stare lontani da quel magico locale significa una cosa sola: disastro chiomato.

Nella vita non mi era mai capitato di invidiare i calvi come Marco Montemagno, ma c’è sempre una prima volta, suppongo.  Massimo Gramellini non ha ancora dedicato alcun articolo nella sua rubrica “Il Caffè” a questa piaga sociale, mi chiedo da giorni il perché…

Famosi giornalisti pelati a parte, il mio pensiero va a tutti coloro che, come me, avevano programmato in maniera certosina il percorso da intraprendere per ottenere una piega perfetta in tempo per l’estate. Percorso che, come tutti possiamo ben immaginare, è stato ostacolato irreversibilmente da cause di forza maggiore.

Ormai anche il mio specchio ride guardandomi armeggiare con phon, gel e pettine nel tentativo disperato di sistemarmi per un video in diretta dal sicuro ed abbondante seguito.

Il mio pensiero va anche a  tutte quelle donne, come mia madre, che dalla parrucchiera necessitano di andare almeno due volte al mese. Messa in piega, tinta, permanente, chatouche, colpi di sole e ossigenatura non si fanno certo da sole...

Alcuni maschi hanno invece deciso di lasciarsi crescere la barba fino alla fine della quarantena. Ciò offre alla vista, durante le videochiamate ma non solo, diverse varianti o controfigure di Tom Hanks in Castaway, fino ad arrivare, ma solo nei casi più estremi, alle copie del simpatico amico peloso di Ian Solo in Star Wars, ossia Chewbecca.

Speriamo che tutto torni alla normalità il prima possibile, perché insomma, che barba questa quarantena!

L'Italia, malata di burocrazia

di Federico De Martino - 11 aprile 2020

160 mila norme, 71 mila di queste promulgate a livello centrale, le altre a livello regionale o comunale.

Una piaga, quella della burocrazia, tutta italiana e che non lascia scampo, travolge e trafigge ogni libera iniziativa d'impresa.

Neppure il materiale sanitario come mascherine e ventilatori, fondamentale per fronteggiare l’immane crisi sanitaria, riesce a svincolarsi da questo grande groviglio di leggi, ordinanze, autorizzazioni, decreti...

Tutto questo sfiducia quanti desiderano offrire supporto al proprio Paese riconvertendo la produzione oppure, per i Paesi esteri, di poter inviare quanto serve in tempi ragionevoli e congrui all'emergenza. 

Partiamo da un primo esempio che può sembrare lontano (ma che non lo è, specie se avete genitori coinvolti in questi settori): recentemente gli Stati europei stanno progressivamente versando somme di denaro di variabile entità ad imprenditori e liberi professionisti almeno per fronteggiare le prime spese in questo primo  periodo di “lockdown”.

Per ciò che in Svizzera viene elargito con un documento che arriva per posta e che invita il privilegiato a dirigersi in banca, in Italia occorre lo SPID di livello 2 o superiore, la Carta di Identità Elettronica 3.0, la Carta Nazionale dei Servizi e il PIN dispositivo INPS da inserire all’interno del sito (qualora funzioni) non per intero, solo la prima parte (dunque i primi 8 caratteri).

Per non parlare delle circolari che dovrebbero dare linee interpretative e tradurre il burocratese dei precedenti decreti (DPCM). Questa ad esempio è un estratto della circolare del ministero degli Interni che dovrebbe (almeno in linea teorica) chiarire qualcosa in merito al jogging e alle passeggiate: 

“Nella medesima ottica, per quanto riguarda gli spostamenti di persone fisiche, è da intendersi consentito, ad un solo genitore, camminare con i propri figli minori in quanto tale attività può essere ricondotta alle attività motorie all’aperto, purché in prossimità della propria abitazione. La stessa attività può essere svolta, inoltre, nell’ambito di spostamenti motivati da situazioni di necessità o per motivi di salute”.

Capito qualcosa? Molto probabilmente no. 

E poi a scuola, dove basta fare un salto al primo piano per accorgersi che la segreteria rigurgita di carte di ogni tipo – si pensi che per l’attività motoria servono un’autorizzazione generale e un’altra per ciascuna uscita dal complesso scolastico (piscina, pista di pattinaggio o Museo del Tessile).

Ma il termine burocrazia non ha da sempre connotato qualcosa di negativo.

 L'introduzione sistematica di un sistema amministrativo suddiviso in numerosi uffici e basato su procedure in qualche modo unificate risale già all’epoca romana, rappresentando un grande elemento di novità al sostanziale accentramento del potere nelle mani del Senato. 

L'articolazione e l'importanza della burocrazia continuarono a crescere ed espandersi in epoca imperiale, di pari passo con il potere ed il peso politico dei burocrati.

Essi infatti divennero una classe di funzionari con il compito di legare a sé il potere e la società romana. 

Fu Bonaparte che sul finire del diciottesimo secolo dette vita ad una delle più snelle e ben funzionanti burocrazie della storia, fondata su un’amministrazione piramidale, accentrata e coesa, e sulla figura dei prefetti che, nominati dal governo centrale, avevano il compito di attuare in ogni dipartimento le direttive in ambito sia amministrativo sia politico.

La totale inefficienza dell’apparato burocratico italiano si palesò inevitabilmente sul finire della Seconda Guerra Mondiale quando si dovette far fronte alla ricostruzione e alla riorganizzazione dell’intero sistema statale e ancor di più nel periodo di “Mani pulite” (1992) dove a seguito del più grave scandalo di corruzione della storia della Repubblica si rese necessario avviare un processo di trasparenza ma allo stesso tempo di controllo sempre più capillare e micro manageriale per tutto ciò che riguarda l’amministrazione dello Stato.

Ma una volta gettato il seme, si fa molta fatica a controllarne la crescita. Come una pianta rampicante cresce, si districa e sfugge dal controllo, paralizzando qualsiasi iniziativa. 

Un domani però dovremmo far i conti finalmente con questo grande “mostro di carta” che con l’arma della sfiducia, rischia di minare profondamente le nostre libertà.

Live... non siamo la D'Urso

di Giacomo Gallazzi - 9 aprile 2020

Giorno XYZ della quarantena. Ormai credo di aver perso il conto dei giorni passati recluso in casa mia. Nessuno sa cosa fare, dicono. Eppure, mentre i più si distendono sui loro sofà provando con la forza del pensiero a far girare le lancette un po’ più in fretta, numerosi intrattenitori contemporanei si spremono le meningi per offrire a tutti la possibilità di trascorrere serate diverse: sto parlando dei Live Streamers.

Facciamo peró una piccola digressione rispondendo a una domanda: in cosa consiste essere un live streamer? In poche parole, possiamo dire che chi fa live stream produce un contenuto di intrattenimento (di qualità variabile, molto variabile) trasmesso in diretta, proprio come fa la televisione, su Facebook, Instagram, Youtube o altre piattaforme. Noi de La Voce del Crespi abbiamo deciso di essere tra questi. Ogni settimana prepariamo due dirette per approfondire svariati temi d'attualità e per intervistare le personalità più interessanti del Crespi e dintorni, nella speranza di continuare a farlo nella vita reale.

Alcuni live streamers, dopo aver annunciato a tutti i loro followers l’imminente video in diretta, si dilettano nella contemplazione del proprio schermo, ossia di sé stessi, mostrando a tutti gli interessati la miglior versione di loro che... non fa nulla. Ragazzine con gli occhi stanchi che parlano a bassa voce e salutano le amiche, ragazzotti bellocci che biascicano parole sconnesse seduti in poltrona, influencers ben vestiti e curati nella parte superiore che girano però in casa coi pantaloni del pigiama...ce ne sono per tutti i gusti. In pratica, potremmo definirli dei vanitosi perditempo che, gigioneggiando davanti allo smartphone, sperano di ricevere un’ispirazione divina che li motivi a fare qualcos’altro. Ispirazione che, ovviamente, non arriva mai.

Abbiamo poi altri tipi di live streamers, come i tuttologi, i gamers, gli showman, i ballerini, gli attori, e per finire i musicanti. Quest’ultima categoria è quella che ha guadagnato più spazio, ed è forse ciò di cui abbiamo più bisogno: sana e buona musica “Live” proposta dai nostri artisti preferiti, che ci distoglie dalla ormai monotona realtà in cui viviamo e ci regala un sorriso.

Insomma stasera tutti su instagram che siamo live… con buona pace di Barbara.

Ma è veramente colpa tua?

Lo scandalo del gruppo Telegram

di Valeria Bertino - 7 aprile 2020

Finalmente sei riuscita a comprare quel vestito che ti piaceva tanto. Quel vestito un po' diverso dal solito. Quel vestito che ti fa sentire diversa dal solito. Quel vestito che finalmente sembra valorizzare il tuo corpo, le tue forme. Quel vestito con cui ti vedrà la tua cotta alla festa. E' un po' scollato a livello del decolleté, la gonna è un po' corta, non in maniera volgare, ma accentua comunque il fisico. Lo provi la sera prima e ti piace così tanto che decidi di farti una foto. Scatta, scatta, scatta, scegli quella che ti piace di più, metti un filtro, la carichi su Instagram. I complimenti delle tue amiche, il like della tua crush. Sei felice.

Qualche settimana dopo su Instagram esplode lo scandalo di Telegram. Migliaia di foto di ragazze finite in un canale di 50.000 "uomini" (capirete ora perchè uso le virgolette). Circolano gli screen dei media: ogni tipo di foto e video, quasi tutti non fatti al preciso scopo di essere diffusi, ma presi e venduti da quelle bestie in cui le ragazze avevano riposto la loro fiducia: foto e video intimi che le ragazze avevano riservato ai propri fidanzati, con i quali la storia poi è finita, e che costoro hanno deciso di condividere nel canale. Sto parlando proprio di revenge porn. Non ci sono solo ex fidanzatini, però, ma anche padri, mariti, fratelli: foto di donne, ragazze o bambine in costume...e non è finita qui. Girano anche foto di ragazze semplicemente con dei vestitini o delle tutine estive, che magari sarebbero adatte a una foto profilo di Facebook.  I partecipanti a questo canale vogliono sapere i nomi di queste donne per cercarle sui loro profili social e scaricare altre foto. Chiedono chi sia di una determinata città perché evidentemente hanno materiale cinematografico per loro.  

Insomma questo canale è un mercato: un mercato nascosto, che esiste da anni, dove questi utenti  vendono le proprie ex fidanzate, figlie, le donne che conoscono. Un mercato la cui merce proviene da social media usati quotidianamente come Facebook, Instagram; foto di ragazze che potrebbero essere le tue, o di tua madre, o di tua sorella. 

Finito su Twitter, il link per questo canale è stato utilizzato da alcune persone per entrare e fare lo screen di tutte le oscenità che vi si trovavano. Queste persone, per lo più ragazze, hanno ricevuto insulti e commenti sessisti semplicemente per aver fatto notare che ciò che stava succedendo non era corretto. Hanno ricevuto risposte come:

"Queste donne se la sono cercata."

“ Sono loro che fanno certi video e certe foto. è una scelta loro. "

"Qualsiasi foto tu metta sui social, è pubblica, ciascuno può farci quello che vuole."

Circola voce che siano stati hackerati anche gli archivi Icloud di certe ragazze. Sarà vero? Le donne, insomma, sono oggetti. Pensavi che, nel 2020, le donne fossero finalmente considerate persone e non oggetti. Invece, a quanto pare, sono solo merce di scambio e, fra l'altro, inconsapevolmente.

Riguardi quella foto, riguardi le tue foto. Potrebbero averle prese. Pensavi non potesse mai accadere, non ci vuoi credere. Eppure potrebbero già essere nelle loro mani sporche. Ti senti violata. Violata nel tuo intimo, anche se quelle foto sono normalissime per te. Volevi solo condividerle sul tuo profilo, mostrarti al mondo. Inizi a sentire uno strano fastidio, dentro. Lo avevano detto, a quell'incontro con la Polizia Postale a cui avevi partecipato, alle medie: 

"State attenti, ragazzi, perché Internet è pericoloso. Qualsiasi persona, nel momento in cui postate una foto, può avere accesso ad essa e anche già tre secondi dopo potrebbe essere su chissà quale sito, magari dall'altra parte del mondo. Ragazzi, ad un certo punto diventa impossibile cancellarle. Ciò che voi postate su Internet rimane lì per sempre."

Ecco cos'è quello strano fastidio al petto. E' un senso di colpa. Un senso di colpa per aver fatto qualcosa che fanno tutti: è ormai così banale, così quotidiano, postare una foto su Instagram. Ti penti di non aver ascoltato quei consigli. Ti penti di essere stata te stessa. Ti chiedi perché da donna tu debba sempre preoccuparti così tanto: di come ti vesti quando esci di casa, quale tipo di biancheria intima usi, e attenta al costume d a bagno! Perché qualsiasi violazione della tua intimità è colpa tua, te la sei cercata, e chissenefrega se è estate, chissenefrega se fa troppo caldo. Non è un insulto al decoro pubblico, ma quella scollatura non va bene. Ti senti solo un pezzo di carne, quando dalla strada ti suonano il clacson e fischiano. 

Ma è veramente colpa tua? Essere te stessa? Voler valorizzare il tuo corpo? 

Ma è veramente colpa tua? Postare una foto su Instagram?

Ma è veramente colpa tua? Voler essere donna? 

Ma è veramente colpa tua? Voler essere libera?

Ai fornelli con Iginio Massari

di Francesca Minoja - 5 aprile 2020

Le uova scompaiono, il lievito si volatilizza… un problema nelle scorte o nei fornitori dei supermercati? No, no: sono proprio gli Italiani che pare abbiano deciso di iniziare una sfida all’ultimo dolce con Iginio Massari in persona. Da quando siamo stati costretti a restare chiusi in casa, tutti abbiamo più tempo per dedicarci ai nostri passatempi preferiti… o per cimentarci in alcuni nuovi. Pare, in particolare, che in tutti gli Italiani sia improvvisamente nata una passione irrefrenabile per il “bake off”.

Da qui la famosa caccia alle uova.

Ormai, tra l’altro, non è nemmeno difficile stanare i nostri “cacciatori”: basta aprire un qualsiasi social per trovare decine, centinaia di foto dei capolavori culinari realizzati in questi giorni. Dalle case si sollevano leggeri i profumi dei dolci nel forno, portando, per un momento, il sorriso sui nostri volti.

La questione dei dolci, però, mi permetto di criticarla un po’: io per prima mi diverto molto a sbizzarrirmi con ricette sempre diverse e ammetto che anche nelle prime due settimane di chiusura in casa ne ho sperimentate un paio, ma secondo me bisogna analizzare la questione un po’ più attentamente. E’ doveroso pensare al fatto che non facciamo più movimento, se si escludono gli esercizi che i più ricchi di forza di volontà si impongono di fare nella propria stanza, quando invece prima soprattutto noi studenti eravamo abituati a percorrere tratti di strada non insignificanti per raggiungere la scuola (o perlomeno la fermata dell’autobus). Per non parlare dello sforzo che compievamo per portare sulle spalle zaini strabordanti di libri (anche se, a proposito di questo, immagino siamo tutti contenti di non avere più mal di schiena). E poi, diciamocelo, stare tutta la mattina a scuola, seguire i corsi pomeridiani, alzarsi presto… tutto ciò fa sicuramente consumare un’enorme quantità di energia che ora resta invece inutilizzata e accumulata nel nostro corpo.

Dalla parte opposta, invece, c’è chi ha deciso di rispolverare un vecchio hobby: il jogging. E’ quasi divertente come, in questi giorni e, per essere precisi, in questo periodo in cui ci è chiesto di stare a casa per fare un favore a noi stessi, la maggior parte delle persone sembra volersi danneggiare da sola.

Dobbiamo stare a casa per non ammalarci e non far ammalare i nostri familiari, eppure, pur di violare le restrizioni emanate, molti hanno deciso di improvvisarsi atleti mettendo a rischio tutti quanti stanno loro vicino. Perciò, a conclusione di tutto, senza alcuna offesa per i neo-pasticceri, personalmente sconsiglierei la combo “divano e torta al cioccolato”, a meno di non volerci ritrovare tutti ben rinciccioniti.

Maturità, t'avessi preso prima...

di Antonio Catalano - 3 aprile 2020

La notte prima degli esami è un punto cardine nella crescita dello studente. Lì, in quel lasso di tempo che precede le prove di stato, si addensano tutte le più svariate emozioni, sensazioni, domande, dubbi e paure. In quella notte si diventa un po’ più grandi, distaccandosi sempre di più da quella “culla” che è la scuola. In quella notte si rivivono nella mente e nel cuore intere carriere scolastiche che hanno formato l’individuo sotto ogni sua forma. Dai bigliettini nascosti sotto l’astuccio o nella calcolatrice per copiare, alle “secchiate” del giorno prima per coprire un intero programma di due mesi di spiegazione, dai momenti passati nella più totale disperazione perché in fondo nessuno sa veramente quello che sostiene Hegel nella sua filosofia e in compenso persino un mattone gode di maggior logicità, alle gite scolastiche di quinta, per chiudere in bellezza un percorso che ha segnato ogni studente.

Un percorso che ha come culmine la maturità. È una parola importante: maturità. Spesso il significato viene banalizzato, ridotto al semplice foglio di carta che ti viene dato nemmeno in loco, al termine degli orali, bensì qualche mese dopo. Ridotto a delle righe in cui si attesta come l’alunno Catalano Antonio (e non uso Mario Rossi per questione di privacy, chissà, magari qualcuno in Italia si chiama davvero così…) ha frequentato brillantemente (devono aver sbagliato persona) il Liceo, svegliandosi alle sei di mattina tutti giorni, compreso il sabato ed ha ottenuto come punteggio XX.

Ecco, tutto questo procedimento è visto dai maturandi come qualcosa di ovvio, un vademecum che bisogna rispettare e al quale tutti quanti dobbiamo sottoporci, per questo spesso viene svilito del suo significato. Eppure ad oggi non ho nemmeno la certezza di quando si faranno gli esami. Non so quante prove farò. Non so se le farò da casa o meno. Non so se ho già vissuto il mio ultimo giorno di liceo a scuola, oppure ci tornerò a metà maggio. Non so niente. E questa volta questa frase non la uso all’interrogazione a sorpresa di matematica. Questa perdita totale di ogni certezza accelera, se possibile, il percorso che fa la memoria per scartare ogni ricordo futile e riportare alla luce solo quanto di bello e formativo ho passato nella mia carriera scolastica.

Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare. Il rimando a questa famosa, celeberrima citazione dall’Infinito di Leopardi è il segno che per me è importante la scuola e la letteratura italiana, come tutte le altre materie. Avvalersi delle proprie conoscenze scolastiche per descrivere il valore di questi anni è anche un segno di riconoscenza nei confronti di chi mi ha guidato in questo percorso. Così, mentre scorro nella mente i dettagli felici della miei anni di scuola, mischiandoli a quelli tristi che però mi hanno sicuramente aiutato a crescere, mi auguro anche io di vivere la mia notte prima degli esami.

In tv qualcuno si avvicina ad un microfono e non è l’ennesima conferenza stampa di Giuseppe Conte. Movesi un vecchierel canuto et biancho che afferra il microfono e comincia a cantare “Notte prima degli esami”. È Antonello Venditti, che per fortuna (al contrario del Vecchierel di Petrarca) ha ancora tutto il fiato per ricordarmi la bellezza della notte prima degli esami. E per non obbligarmi a dire, nella situazione che stiamo vivendo, “maturità t’avessi preso prima…”

L'insorgere dell'inaspettato

di Irene Beonio Brocchieri - 1 aprile 2020

Egon Schiele, Seated child, 1918

Da bambina credevo che le guerre non esistessero più, che fossero una cosa del passato, di milioni di anni fa. 

Poi, quando sono cresciuta un pochino, mi sono accorta che le guerre esistevano ancora, però erano lontane lontane, in terre sconosciute, dai nomi strani: Afghanistan, Siria, Palestina, Israele.

A partire dal 2015 ho iniziato a capire che forse in qualche modo la guerra ancora ci riguardava; sono iniziati gli attentati in Paesi vicini, vicinissimi: Francia, Belgio, Germania, Regno Unito, Spagna. Erano morti degli italiani. Mi ricordo le mamme degli amici che non si fidavano a lasciarci andare in centro, in piazza Duomo, dopo quello che era successo a Parigi. C’erano i militari per strada, la difesa aumentava. Però non avevo paura.

Quando si è saputo del virus in Cina molte mie amiche erano più spaventate di me. Le notizie erano confuse, si parlava di tante cose diverse e si usavano tanti nomi diversi: influenza, malattia, pandemia. In quel momento si cercavano ancora le cause, il paziente 0.

Sono passate settimane: inizialmente i voli che arrivavano dalla Cina venivano controllati, poi hanno iniziato a cancellarli. Sono iniziati i rimpatri degli italiani, le quarantene per coloro che tornavano.

Poi, un giorno, il primo caso positivo: un italiano che non era stato in Cina. Quella mattina la professoressa di italiano ci disse che era pronta a fare videolezione se ce ne fosse stato bisogno: era sabato, lunedì chiusero le scuole in Lombardia.

Durante i primi giorni a casa ero preoccupata, per la prima volta; eppure davo quasi per scontato che la settimana dopo sarei stata a scuola. E anche la settimana successiva pensai: devo sfruttare questo tempo, magari lunedì prossimo sarò interrogata in latino. Oggi la mia cecità di quei primi giorni pare assurda, insensata.

Ieri notte ho fatto un sogno un po’ bislacco: un professore ci faceva spostare i banchi e insegnava a tutta la classe a ballare il tango. Divertente, vero? Però quando mi sono svegliata la prima cosa che ho pensato è stata “non sarebbe mai possibile”; non perché di solito a scuola non si balla il tango nelle ore di matematica o filosofia e nemmeno perché giudichi i miei professori inadatti al ballo (anche se per ora non hanno dato alcuna dimostrazione di questo loro talento nascosto), ma perché io a scuola non ci posso andare, e questo non mi ha divertito per niente.

Oggi sono arrabbiata per le cose frivole e ho paura per le cose importanti.

Sono arrabbiata perché non posso andare in gita in Sicilia con i miei compagni di classe, sono arrabbiata perché non posso fare gli auguri di persona agli amici che compiono gli anni, sono arrabbiata perché non so se potrò fare la festa di fine anno in piscina, sono arrabbiata perché non riavrò mai indietro la mia quarta liceo.

Ho paura per la mia famiglia, per i miei nonni e i miei prozii, ho paura perché non so quanto durerà questa situazione, ho paura perché non so quanto tempo ci metteremo a rialzaci, ho paura del futuro, ma spero che arrivi presto.

Ultima chiamata per l'Europa

di Federico De Martino - 28 marzo 2020

Vai in questura, porta il modulo di richiesta, fai due foto, acquista il contrassegno telematico, effettua il pagamento…

Questi, che possono parere spezzoni di un banale e noiosissimo tutorial, sono solo alcune delle procedure che bisogna eseguire per ricevere il passaporto, il documento indispensabile da possedere quando si è decisi a svolgere un bel viaggio verso qualche posto ameno del nostro pianeta.

Quando la tua destinazione è un Paese membro dell’Unione Europea, a questo sopperisce la semplice carta di identità valevole per l’espatrio.

Ciò è possibile solo grazie a Schengen, il trattato che dal 1990 ci permette la libera circolazione di merci e persone.

E potrei citarvi migliaia di esempi, in cui quotidianamente l’Unione Europea semplifica la nostra vita.

Ultimamente qualcosa non va…

E il campanello d’allarme arriva dai dati sull'euroscetticismo, ossia l’orientamento di critica e opposizione al processo di integrazione politica europea che tra la popolazione comune è in costante crescita negli ultimi anni.

E la “locomotiva d’Europa” in questo ambito, siamo proprio noi Italiani, con una quota fissata al 59%. Intendiamoci: non sono un economista o un politologo, ma trascurare questi dati adducendo il fatto che il problema risieda solamente nell’ignoranza e nell’ottusità della popolazione italiana mi sembra quantomeno riduttivo senza considerare che non dar peso a tali posizioni farebbe venir meno il concetto stesso di democrazia.

E non può essere un caso che tra gli altri Paesi che primeggiano da questo punto di vista compaia la Grecia che dopo poco l’entrata nell’Unione Europea rischiava la bancarotta.

Insomma quando c’è crisi, cala la fiducia.

Per troppo tempo, l’Italia è rimasta sola ad affrontare problemi mastodontici e – non lo metto in dubbio – di difficile risoluzione. Ultimo per ordine è sicuramente la crisi migratoria iniziata nel 2013 nella quale sebbene sia stata bloccata la rotta balcanica, in 7 anni non si è mai riusciti ad ottenere un accordo sulla ricollocazione automatica degli arrivi sulla rotta mediterranea.

Ricorderete tutti il ripugnante episodio del novembre scorso nel quale la gendarmeria francese aveva di fatto “scaricato” decine di migranti di notte al confine italiano.

Insomma un’evidente assenza di solidarietà che relegarono Italia e la vicina Malta alla stipulazione di discutibili accordi con i singoli stati di provenienza con conseguenze umanamente parlando drammatiche.

Inoltre un’Unione Europea che ricopre solo l’aspetto più marcatamente economico, guardiana tecnocratica dei trattati e degli accordi stipulati a Bruxelles, non può far altro che apparire minatrice della sovranità popolare dei singoli stati. E se uniamo questo ad una comunicazione trasandata ne esce un “cocktail” letale.

Dichiarazioni quali: “I mercati porteranno gli italiani a non votare più a lungo per i populisti” o “ridurre gli spread non è compito nostro” o “siamo tutti italiani” come se l’emergenza riguardasse solo la nostra penisola (1784 contagiati in Francia e più di 2000 in Germania) non sono tollerabili poiché non fanno altro che storcere il naso ai cittadini e alimentare i sovranismi.

Venendo ad oggi, serve una comunicazione ponderata, intelligente che sia vicina empaticamente ai cittadini nelle loro necessità e bisogni.

In Italia non ci sono partiti dichiaratamente separatisti: simbolico del fatto che nella nostra realtà politica ci sia una forte consapevolezza dell’essenzialità dell’Unione Europea che rappresenta l’unica istituzione che ci permette di avere voce in capitolo nelle questioni internazionali senza cadere in subordinazione alle tre superpotenze del nostro tempo.

Oggi serve una svolta e mai come ora esiste una forte opportunità di riscatto per la nuova commissione.

L’Italia si prepara ad affrontare un’altra grave crisi, i mercati vanno a picco e l’Unione Europea giocherà un ruolo centralissimo per le sorti di questa nuova catastrofe economica che si abbatte sul nostro Paese già tanto fragile e proveniente da un ultimo trimestre negativo, e che per molti è considerata ancor peggiore di quella del 2008.

Un’occasione per l’Unione ed i relativi paesi membri di manifestare ora più che mai la propria vicinanza e il proprio sostegno ai cittadini italiani con risposte univoche concrete, grande flessibilità e riforme di ampio respiro.

Un nuovo piano Marshall europeo che coinvolga tutti gli stati, nuova linfa di vita per alimentare nuovamente nel cuore degli Italiani, il “Sogno Europeo”.

“Whatever it takes” come avrebbe detto Mario Draghi.

Palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea

Chrisitne Lagarde, Presidente della Banca Centrale Europea 

La paura di sentirsi giudicati influenza la nostra vita?

di Sofia Testa - 26 marzo 2020

Pablo Picasso, Femme aux Bras Croisés, 1901-02

“Ogni persona sta combattendo una battaglia di cui tu non sai nulla, per cui sii gentile, sempre” Platone

Rivedendo da poco il film “L’Attimo Fuggente” mi sono soffermata su una scena, in cui gli alunni avrebbero dovuto leggere le proprie poesie e uno di loro (Anderson) temeva che ciò che avesse da dire non fosse abbastanza interessante o che sarebbe stato giudicato dai compagni, ma quando il professore lo sprona ad esprimere le proprie emozioni, manifesta sentimenti più che profondi. Credo che questa scena risulti familiare a tutti noi, è qualcosa in cui ci possiamo identificare. La paura dell’opinione altrui, l’opinione altrui in sé è una costante della nostra vita e (a chi più, a chi meno) spaventa.

MA PERCHÈ CI SPAVENTA?

Lo psicologo e psicoterapeuta Giorgio Nardone parla di “prostituzione relazionale” ove prostituzione non è intesa nel significato usuale, bensì come una tendenza a impegnarsi per gli altri, ad aiutarli ma diversamente dall’altruismo, una tendenza a cercare continuamente di compiacere gli altri e di essere all’altezza delle aspettative altrui; ma se accontentare queste stesse aspettative diviene il nostro scopo principale, oltre quello non ci rimane niente.

Secondo la psicologa e counselor Francesca Minore, specializzata in disturbi di ansia e depressione, la paura di essere giudicati (che può poi trasformarsi in vera e propria ansia sociale) dipende da un effetto specchio. Immaginiamo infatti che qualcuno ci stia per rivolgere determinati commenti negativi perché sono i medesimi che rivolgiamo a noi stessi ed evidenziano il divario esistente tra noi stessi e chi desidereremmo essere.

Il vero problema è che ci risulta difficile riconoscere quando una condizione simile si trasforma in una situazione rischiosa, perché siamo circondati da giudizi. Sin da piccoli conosciamo la differenza tra giusto e sbagliato, il significato di punizione, ci interfacciamo ogni giorno con le valutazioni altrui (scolastiche e interpersonali) e siamo troppo abituati a sentirci giudicati per non accorgerci di quanto le opinioni altrui ci stiano influenzando. Purtroppo nel momento in cui lasciamo che l’opinione altrui modifichi la nostra opinione verso noi stessi, cediamo a qualcuno lo scettro del potere e rischiamo di compiere determinate decisioni semplicemente per essere apprezzati dagli altri.

Dovremmo invece concentrarci su cosa pensiamo noi in prima persona, su cosa desideriamo realmente fare e non su come gli altri giudicheranno le nostre scelte, e dovremmo essere noi stessi ad applicare questo principio sugli altri, a non giudicarli per una nostra singola prima impressione. Ad essere gentili, come insegna Platone.

Ovunque ci voltiamo notiamo sguardi a volte inquisitori per il nostro personale modo di essere o di vestire, di comportarsi o di vivere; ciò che dobbiamo riconoscere però è che questi sguardi non dicono niente su di noi, quanto su colui/colei che ci giudica. È normale temerli, ma dobbiamo essere in grado di farceli “passare attraverso” e proseguire per il nostro cammino.

Charlie Chaplin infatti diceva “Preòccupati più della tua coscienza che della tua reputazione, perché la tua coscienza è ciò che sei, la tua reputazione è ciò che gli altri pensano di te, e ciò che gli altri pensano di te è un problema loro”.

E a te capita mai di temere il giudizio degli altri o di sentirti giudicato? Per darci la tua opinione seguici e rispondi ai sondaggi della nostra pagina @lavocedelcrespi 

L'impresa eccezionale...

di Antonio Catalano - 22 marzo 2022

Spesso a stupirci è lo straordinario. Forse proprio perché nella novità, nel distaccamento dalla realtà abituale, lo stupore prevale sulle altre sensazioni. Eppure ci siamo mai soffermati sull’effetto che fa la normalità? E cos’è la normalità? Spesso questo “valore”, perché di fatto ai nostri giorni è un valore prezioso, viene accantonato perché sinonimo di qualcosa di abituale, qualcosa che sbiadisce i colori della nostra vita e la rende noiosa.

La normalità ad oggi ci manca. E se un mese fa questa frase poteva sembrare un paradosso, oggi più che mai ci scopriamo privi di quella che era la normalità. Riferendomi all’autorevole Marco Travaglio, giornalista del Fatto Quotidiano, il quale ha costruito un ritratto della tanto agognata e richiesta normalità in un articolo uscito oggi sul quotidiano, cerco anche io in qualche modo di dipingere quel “valore” tanto abusato, quanto lontano. 

Abusato perché la normalità stanca, dopo un po’. E stanca perché nessuno di noi ha mai riconosciuto la grandezza del dono della vita. Non è un dogma religioso, non è una frase fatta, è la constatazione che riecheggia nel brano di Fiorella Mannoia “Che sia benedetta” col quale ha partecipato al festival di Sanremo nel 2018. È una constatazione importante, che oggi più che mai ci fa comprendere come possa far male la privazione della nostra routine quotidiana. E adesso il “valore” della normalità ci è più chiaro che mai.

Ma è lontano. Lontano, di una lontananza incommensurabile. Le date papabili di un ritorno alla normalità vengono registrate ogni giorno alla televisione e non vi è alcuna certezza. E anche io, in prima persona, la ricerco questa normalità. Spesso nello scontrarsi con una realtà forte, come quella che viviamo ai nostri giorni, le persone si accorgono di quanto tempo abbiano sprecato alla ricerca di cose vane.

Siamo orfani del contatto con persone che non siano necessariamente quelle all’interno delle mura domestiche o quelle che incontri al supermercato, con una mascherina, che ti squadrano dalla testa ai piedi e magari si distanziano anche più di un metro da te, per essere sicuri.

Siamo orfani di quella stessa normalità che prima denigravamo, facendola passare in secondo piano, sbuffando la mattina alle 8 a scuola tra una lezione di matematica sulle equazioni e una d’italiano su Boccaccio. “Che facciamo scappiamo anche noi in campagna e ci raccontiamo qualche novella?” ho scritto su WhatsApp al mio amico l’altra sera, che ridendo mi ha risposto: “Non avrei mai immaginato di rimpiangere la normalità.”

Tra un biscotto e l’altro che mangio avidamente per ingannare il tempo, un’altra serata è passata, un altro giorno se n’è quasi andato. È come fosse una un conto alla rovescia, lo stesso che ho fatto a Capodanno a mezzanotte, augurandomi che quest’anno potesse essere migliore di quello passato.

In lontananza una canzone risuona nel silenzio della notte cupa e tetra. “Disperato erotico stomp” di Lucio Dalla, lo riconosco forte e chiaro. Una frase si distingue più delle altre: “Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale.” Ha ragione Lucio, seppur spesso a stupirci sia lo straordinario, in questi momenti è persino un’impresa essere normali. È persino un’impresa tornare alla nostra normalità.

La Galleria Vittorio Emanuele affollata prima dell'emergenza virus

Lucio Dalla

Loquis, un'app per ascoltare il mondo 

di Giacomo Gallazzi - 20 marzo 2020

Logo dell'applicazione

Costretto dalla quarantena a restare in casa stavo guardando, tanto per cambiare, l’ennesimo “4 Chiacchiere “di Marco Montemagno, quando è scattata la solita pubblicità che interrompe puntualmente ogni video nel suo momento topico. Tuttavia, sono stato attratto da questa pubblicità, e per fortuna, perché sono entrato nel magico mondo di Loquis.

Loquis è una start-up italiana che, del tutto gratuitamente, (l’unico prezzo da pagare è il consumo sfrenato della batteria del cellulare) consente di ascoltare podcast sui luoghi più importanti della vostra e di tutte le altre città del nostro Bel Paese. Sfruttando il sistema di geo-localizzazione e di podcasting dello smartphone, narra storie o aneddoti dei territori apparentemente noiosi in cui viviamo.

Immaginate di passare per Busto Arsizio e sentire il vostro telefono parlare del Museo del Tessile, (no, non c'è alcun accenno ai test di cooper) del Parco Ugo Foscolo, della piazza Santa Maria, del Liceo Daniele Cres… E invece quello non c’è. Tuttavia, è possibile arricchire la piattaforma con dei podcast registrati da noi e condividere così informazioni utili sui luoghi che quotidianamente frequentiamo.

In attesa di tornare alla nostra vita normale, acquistiamo conoscenza dei posti che poi potremo visitare ed apprezzare con le nostre famiglie e i nostri amici, nella speranza che questo momento arrivi il più in fretta possibile. 

Didattica a distanza: scuola del futuro o necessità eccezionale?

di Eleonora Savino - 18 marzo 2020

Con l’aggravarsi progressivo dell’emergenza di CoViD-19 – ormai ufficialmente dichiarata pandemia dalla autorità dell’OMS – due delle prime istituzioni ad averne subito maggiormente gli effetti sono state proprio quella scolastica e quella accademica, in particolare le categorie di studenti laureandi o maturandi. Ad ogni modo, l’assenza dalle classi per un periodo tanto prolungato non è priva di ripercussioni neanche per gli altri studenti, e pertanto scuole e università sono state costrette a ricorrere a soluzioni alternative.

Da una parte, nelle scuole elementari e medie si sta seguendo, in linea di massima, un’impostazione del lavoro da casa piuttosto leggera: al momento, vengono assegnati compiti supplementari, ma non si discute ancora chiaramente riguardo ad un sistema di valutazione alternativo per tale fascia scolare. Coloro che potrebbero subire la penalità più grande sono gli alunni di prima elementare, i quali – si valuta, ancora solo potenzialmente – qualora non acquisissero le basi necessarie per proseguire nel loro percorso di formazione, sarebbero costretti a ripetere l’anno scolastico; non bisogna dimenticare che l’Italia, insieme ai paesi scandinavi e ad alcuni paesi dell’Est Europa, di base, aderisce a quel modello di istruzione che porterebbe al conseguimento del diploma ai 19 anni, e non ai 18 come gran parte dei paesi occidentali.

Molto diversa è la situazione negli istituti secondari e secondari superiori. In Lombardia, dove hanno attecchito i primi focolai del virus, le scuole superiori, tra cui proprio il Liceo Crespi e l’ITE Tosi di Busto Arsizio, si sono fatte promotrici di una didattica smart, ossia quella che si avvale di dispositivi tecnologici e piattaforme di videoconferenza per seguire le lezioni da casa. Se dapprima le classi digitali sono apparse agli occhi degli scettici e dei detrattori come una mera didattica arrabattata in fase sperimentale, in poco tempo sono divenute ufficiali in molte scuole, compresa la nostra: la frequenza è obbligatoria e le valutazioni assegnate sulle piattaforme risultano ai fini della promozione.

Nelle università, a causa della grande quantità di studenti, l’idea di svolgere videoconferenze non è ancora popolare. Tuttavia, si ricorre, similmente alle scuole superiori e alle già esistenti università telematiche, a sistemi di video-lezioni preregistrate o presentazioni in formato di slide, che risultano meno interattive e coinvolgenti rispetto ad una diretta, ma risolvono quantomeno imprevisti di tipo tecnico e concedono agli studenti universitari maggior flessibilità nella gestione del proprio tempo.

L’interrogativo pare giungere più dalla generazione che è cresciuta senza tecnologia, piuttosto da quella che è nata circondata in essa: può lo smart learning sostituire la didattica faccia a faccia?

Ecco i pareri di ragazzi che provengono da diversi tipi di istituti:

“Credo che, almeno per me, fare scuola a distanza sia peggio che farla in classe. Insegnare è, prima di tutto, trasmettere passione agli alunni per un argomento o una materia. Fare scuola a distanza non funziona, per insegnare serve confronto, passione e partecipazione, elementi che possono esistere online, ma con intensità diversa. Inoltre, in molte classi nella mia scuola è accaduto durante le lezioni "virtuali" che alcuni alunni si connettessero senza seguire minimamente la lezione... e allora a che serve tutto questo? Sicuramente in questa situazione di emergenza è un vantaggio fare scuola a distanza, perché permette di rimanere, per quanto possibile, al passo con il programma, ma viene a mancare l’essenza dell'insegnare”.

Studentessa di 17 anni, Liceo Scientifico

“La didattica a distanza va bene, perché siamo in una situazione di crisi, ma non potrà mai essere la 'scuola del futuro', perché non funziona: sei costantemente distratto, perché sei in casa tua, nel tuo ambiente”.

Studentessa di 17 anni, Liceo Classico

“Le videoconferenze sono, per molti versi, meno fruttuose di una lezione reale: essendo svolte a casa, l'alunno più negligente può essere distratto da vari elementi senza alcun controllo da parte del professore; le stesse piattaforme online, spesso, sono vittime di sovraccarico, e si possono avere delle complicazioni di carattere tecnico che rendono difficile o talvolta addirittura impossibile seguire la lezione; a ciò si aggiunge che la didattica a distanza è presa sottogamba da molti alunni, che entrano nella sessione solo per far presenza.

Però, i lati positivi mi sembrano altrettanto importanti: l'alunno è più libero con gli orari di risveglio e non arriva a scuola già stanco per eventuali spostamenti, la lezione non è soggetta a "elementi di disturbo", e lo stimolo allo studio a casa senza doversi muovere è per me più alto rispetto all'andare a scuola, dal momento che chi vuole ascoltare ha tutte le possibilità di farlo nella più completa pace e serenità (che dovrebbero già essere offerte dalla scuola normalmente, ma spesso ciò non accade).

Non ho ancora una reale opinione a riguardo, ma tendo per ora verso il pessimismo”.

Studente di 17 anni, Istituto Tecnico Informatico

“Teoricamente avrei dovuto conseguire la mia triennale tra luglio e ottobre, ora non so nemmeno quando dovrò dare i prossimi esami, per questo non sono molto stimolata allo studio al momento.

Nella mia università pochi professori hanno aderito per il momento al sistema delle video-lezioni, che, in ogni caso per me risulta molto pesante da seguire e meno incisivo. Strumenti per me molto utili sono le sessioni di studio in biblioteca e in gruppo, ma a causa di questa emergenza sono inutilizzabili.

Forse le lezioni digitali potranno sostituire quelle reali in futuro, ma la tecnologia ha ancora moltissimi limiti e passi avanti da compiere”.

Studentessa di 22 anni, Facoltà di Economia 

Questi soli pareri non sono sufficienti per fornire una visione statistica e universale di quello che è il parere dei giovani sulla didattica smart, tuttavia ne enfatizzano sia i potenziali pregi che i difetti – in molti casi – già in fase di risoluzione.

Enucleati questi, si possono comprendere, almeno in parte, le esigenze di una generazione di studenti volenterosi di imparare, la quale, per cause terze, è stata mandata a tastare il terreno di un campo della tecnologia ancora inesplorato. Inevitabilmente la soluzione didattica ‘smart’, soprattutto nelle sue fasi ‘embrionali’, porterà con sé uno strascico imprescindibile di difetti, ciononostante mantiene un grande potenziale: se sviluppata applicando i correttivi suggeriti dagli studenti stessi, la didattica a distanza sopperirebbe all’impossibilità di spostamento con assai maggiore efficacia durante situazioni eccezionali come quella che stiamo vivendo attualmente ma anche di meno gravi, e – ciò che forse sarebbe il più grande vantaggio – potrebbe essere abbinata alla didattica tradizionale con applicazioni sinora di meno fattibile realizzazione (test digitalizzati più controllati di quelli cartacei, recuperi in caso di indisposizione, lezioni sia in diretta che registrate a disposizione degli indisposti stessi, controllo dei compiti da svolgere per casa ottimizzato, …).

Chi è Recep Erdoğan, il dittatore turco che sta tenendo sotto scacco l’intera Europa

di Federico De Martino - 13 marzo 2020

"Da quando abbiamo aperto i nostri confini, il numero di migranti diretti in Europa è di centinaia di migliaia e presto saranno milioni: pensavano stessimo bluffando, ma quando abbiamo aperto le porte sono cominciate ad arrivare le telefonate..."

Con queste parole Recep Tayyip Erdoğan prosegue la sua lunga tradizione di ricatti ai danni dell’Unione Europea utilizzando come arma nuovamente l’accordo per la riammissione dei migranti siglato con la Commissione europea nel 2016.

Ma chi è Erdoğan? Perché detesta l’Unione Europea? E come fa il suo partito a governare il Paese ininterrottamente dal 2003 ad oggi?

Cominciamo con un po’ di storia. 

Erdoğan nasce ad Istanbul nel 1954; dopo aver coniugato in gioventù la carriera di calciatore con gli studi nella facoltà di Economia e Commercio, intraprende la sua carriera politica sul finire degli anni 70’. 

Dopo un breve periodo in carcere per incitamento all'odio religioso, fonderà l’APK ossia il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, sorto come un partito conservatore di centro-destra salvo poi diventare islamista ed anti-laico. 

Entrato nel parlamento ufficialmente nel 2003, a seguito delle elezioni legislative, l’APK non smetterà più di governare, collezionando mandati su mandati fino ai giorni nostri.

In realtà alla genesi della sua carriera politica, Erdoğan sembrava apparentemente un uomo politico moderato, ben lontano dagli ideali totalitaristi che lo avrebbero caratterizzato: si pensi infatti che nel 2005 lavorava per l’ingresso della Turchia nell'Unione Europea mettendo in atto diverse misure riformiste per portare lo stato turco dentro i parametri imposti. Lavorò per l'abolizione della pena di morte e il riconoscimento della minoranza curda. 

Ma dal 2014 Erdoğan, dopo aver vinto per due volte le elezioni presidenziali, manifestò la volontà di voler trasferire maggiori poteri alla carica di presidente a livello di potere esecutivo e diventò simbolo del successo che può avere un partito politico quando fonda la sua ideologia sull’odio verso una popolazione o l’ostentata adorazione del culto religioso locale.

Da questo momento in poi inizia una sorta di trasformazione della personalità del presidente turco, che interromperà il processo di democratizzazione e ne inizierà un altro che indirizzerà il Paese verso un regime autoritario, cominciando non solo a rallentare le riforme pacifiste ma anche a ridurre la libertà di espressione e l'indipendenza giudiziaria dal governo. 

La distruzione della democrazia liberale passò anche mediante una spietata opera di censura: circa 300 mila libri sparirono dalla circolazione, migliaia di giornalisti persero il lavoro e decine furono relegati al carcere perché ostili al governo.

Recarono scandalo le dichiarazioni del 2016, in cui Erdoğan negò il genocidio armeno del 1915’-1917’, le intimidazioni ai danni della corte costituzionale e l’inasprimento dei toni nei confronti dell’Unione Europea. Le armi e la violenza diventarono la sola alternativa per una legale espressione del pensiero.

Durante la notte del 15 luglio 2016, ad Istanbul frange dell’esercito ostili al governo bloccarono forzatamente i due ponti sul Bosforo, l'accesso ai principali aeroporti del paese e bombardarono l'area del palazzo presidenziale con un elicottero militare. Si trattò del quarto colpo di stato nella storia della Turchia, volto a rimuovere dalla propria posizione il presidente.

Il colpo di stato però si rivelò un fallimento. Le forze governative in poco tempo presero nuovamente il controllo della capitale anche appoggiati dalle manifestazioni di massa in favore del presidente, nelle ore successive.

Le manovre repressive del governo furono spietate: gli scontri infatti portarono alla morte di 290 persone e al ferimento di altre 1.440 oltre che all’arresto massiccio di tutti gli affiliati al “golpe”.

Come esige il copione dei migliori regimi populisti, Erdoğan non ha fatto altro che addossare le colpe delle peggiori sventure del Paese ai canonici nemici giurati del popolo, i Curdi.

Da sempre Erdoğan si è impegnato in mirabolanti prove di forza che non hanno fatto altro alimentare sempre più il sentimento sovranista del popolo turco.

Conflitti che hanno portato negli anni ad una violazione sistematica dei diritti umani: erano prassi comune infatti torture, esecuzioni di massa, rapimenti e detenzioni arbitrarie ai danni della popolazione civile. 

E poi c’è il capitolo Unione Europea. 

Recentemente, Erdoğan con le parole citate ad inizio articolo, ha comunicato a tutto il mondo di aver aperto le frontiere con la Grecia in favore dei numerosissimi migranti presenti nel suolo turco. L’Unione Europea infatti nel 2016 per contenere i flussi migratori della rotta balcanica aveva sborsato una cifra di 6 miliardi di euro, una manna dal cielo per un Paese che insieme all’Argentina è tra i più vicini alla bancarotta.

Ora, finiti i soldi, la situazione è nuovamente precipitata, tanto che gli accordi dovranno essere nuovamente ritrattati se l’Unione Europea vorrà evitare un nuovo tracollo e una nuova crisi umanitaria.

La situazione resta in continuo sviluppo, anche se ci deve far riflettere la metamorfosi del sistema politico turco che in pochissimi anni si è visto distrutto il suo assetto liberale e democratico in favore di un presidenzialismo spietato e totalitarista tra l’omertà europea e il sostegno del popolo. 

Sono quasi le 21:00...

di Antonio Catalano - 11 marzo 2022

Sono quasi le 21:00 di lunedì 9 marzo. Potrebbe essere un giorno qualunque, tuttavia da quando l’emergenza del Coronavirus ha invaso le nostre vite nessun giorno è un giorno qualunque. Decreti, manovre, misure e notizie si susseguono, come i colpi di una mitragliatrice che sembra avere munizioni infinite. 

Sono quasi le 21:00 e su tutte le principali emittenti televisive viene trasmessa la conferenza di Conte. Le sue parole risuonano ancora strane nella mia testa e in quella di milioni di altri italiani. In tutta Italia gli spostamenti vengono limitati alle sole straordinarie necessità. La penisola si colora tutta di rosso; gli effetti del decreto firmato nella notte dal nostro presidente del Consiglio valgono su scala nazionale. 

Sono quasi le 21:00 e da quasi tre settimane non vado più a scuola. Per ora, insomma,  l’emergenza, l’ho vissuta senza troppi pensieri: la mattina lezioni virtuali, il pomeriggio faccio quei pochi compiti che mi sono assegnati e poi esco. La sera ritorno a casa e tra qualche pizzata e qualche riunione con gli amici passo il tempo. Certo, la routine quotidiana è stata completamente distrutta, visto che Sport, Scuola e Svago vengono attuati in maniera completamente diversa rispetto ad un mese fa. I miei amici di scuola li ho visti poco e niente. Gli allenamenti non ci sono più e nemmeno le partite di calcio. Forse per certi versi lo Svago ne ha beneficiato, ma nemmeno più di tanto visto che la paura di essere contagiati ha limitato persino quello. 

Il decreto varato ieri però cambia clamorosamente le carte in tavola. L’appello di Conte è forte e arriva ultimo in ordine cronologico dopo quello di star televisive, personaggi influenti del web, medici, giornalisti, calciatori e chi più ne ha, più ne metta e ci chiede di rimanere all’interno delle mura domestiche. Questa richiesta cambia drasticamente anche la prospettiva di vita da qui al 3 aprile. La maggioranza degli adolescenti si è fatta sopraffare da un’ondata di panico a dir poco esagerata e ha accolto la notizia in maniera pessima, come fosse una sentenza scellerata. 

Non bisogna nascondere che, probabilmente, qui in Lombardia l’abbiamo digerita più in fretta anche perché è stato qualcosa di graduale, con le misure di prevenzione che sono state quasi centellinate lungo queste tre settimane. 

Sono quasi le 21:00 e sono sul divano con in mano la “Coscienza di Zeno” di Italo Svevo. Accendo anche io la tv sollecitato da un messaggio WhatsApp di un mio amico. Mi appare sullo schermo Giuseppe Conte che con parole chiare e sintetiche dichiara quali siano le misure e le restrizioni che sono estese in tutta Italia. Anche il mio amico è preso dal panico di non poter più uscire e non saper come occupare il suo tempo. 

Prima di rispondergli, riprendo in mano per un attimo il libro di Svevo e leggo qualche pagina. Vedo che lui però insiste, e per quel lui non intendo Zeno Cosini che non smette di fumare seppur sappia che gli fa male, per lui intendo il mio amico che in un altro messaggio mi chiede se almeno domani possiamo vederci per l’ultima volta. Nonostante da quando sia scoppiata l’emergenza fossero già minimo sei o sette i messaggi di quel tipo. 

Quasi infastidito rispondo: “Anche Zeno ogni volta dichiarava che non avrebbe più fumato sigarette, eppure non ha mai smesso. Adesso dobbiamo rispettare queste misure, ci rivedremo presto. È vero che quando stai aspettando, un giorno dura un anno. Ma con un libro a fianco…”

Un corridoio deserto della nostra amata scuola 

Il presidente del consiglio Giuseppe Conte 

USA e Afghanistan, cosa sta succedendo?

di Federico De Martino - 3 marzo 2020

Oggi 1° marzo a Doha, Stati Uniti e Talebani hanno firmato uno storico accordo di pace che potrebbe portare alla fine della lunghissima guerra che i due paesi portano avanti da almeno 18 anni.

Visto che quando si parla di Medio Oriente le notizie sono spesso confuse e di difficile comprensione, oggi cerchiamo di capire meglio chi sono i Talebani, come si è giunti a questo accordo e cosa questo comporterà.

Prima però facciamo un piccolo passo indietro, cercando di capire in breve la storia dell'Afghanistan.

L’Afghanistan ha sempre avuto una vita politicamente tormentata, sia per la sua posizione strategica sia perché afflitta, come spesso accade ai paesi del Medio Oriente, da sanguinosi conflitti interni.

A seguito della seconda guerra mondiale infatti, la storia dell'Afghanistan fu caratterizzata dall’alternarsi di fasi repubblicane di apparente stabilità a periodi totalitaristi di fondamentalismo islamico. 

Ma andiamo per gradi. 

Nel 1973, sbarazzatosi della monarchia che durava ormai da più di 200 anni, l'Afghanistan divenne ufficialmente Repubblica,  e grazie al colpo di stato nel 1978 salì al potere Nur Mohammad Taraki e il suo partita comunista appoggiato dall’URSS.

Quello che portò avanti Taraki fu un intenso periodo di riforme che avrebbero accompagnato il Paese verso una discreta prosperità. Taraki tra le altre cose lavorò per garantire il diritto di voto alle donne, legalizzare i sindacati, vietare i matrimoni forzati e lo scambio di bambine a scopo economico. Si avviò anche una campagna di alfabetizzazione e scolarizzazione di massa e nelle aree rurali dove vennero costruite scuole e cliniche mediche.

Sebbene Taraki rifiutò sempre l'idea di definire il suo nuovo regime come "comunista", preferendo aggettivi come "rivoluzionario" e "nazionalista", queste riforme si scontrarono fortemente con le autorità religiose locali e tribali che si opposero alle politiche adottate trasformandosi in un’opposizione armata  formata dai mujaheddin, i santi guerrieri.

Da questo momento in poi, il futuro dell'Afghanistan fu in bilico tra Unione Sovietica e Stati Uniti che entrarono definitivamente negli interessi del Paese per metterlo sotto la propria sfera di influenza. 

Gli Stati Uniti infatti lavorarono, sfruttando il malcontento della parte della popolazione più intransigente, per addestrare militarmente i mujaheddin afgani, rifornirli militarmente e garantire loro sufficienti aiuti economici trasformandoli rapidamente in una potente forza militare.

Taraki fu ucciso e il paese cadde inevitabilmente in una sanguinosa guerra civile che si placò solo nel 1992 quando fu proclamata una nuova repubblica islamica dell'Afghanistan anche a seguito del ritiro dell’Armata Rosso dal suolo afgano dopo il crollo dell’Unione Sovietica. 

Dal canto loro, gli Stati Uniti tentarono il riscatto con il finanziamento di una nuova forza armata, i Talebani,  trasformati in esercito dai servizi segreti pakistani con armi statunitensi e soldi sauditi, che conquistarono Kabul il 27 settembre 1996 rovesciando e mettendo in fuga il presidente Burhanuddin Rabbani, controllando in poco tempo il 90% del Paese e le relative istituzioni. 

I Talebani furono artefici dell’instaurazione di uno dei regimi più cruenti della storia. Basato su un'interpretazione fondamentalista della Shari'a, abrogarono ogni forma democratica di governo e vietarono ogni diritto e ruolo sociale alla donna.

In seguito agli attentati dell’11 settembre e l’invasione americana in Afghanistan il regime fu definitivamente destituito.

Da allora contingenti militari americani presidiano il territorio afgano, tenendo alla larga le truppe Talebane e garantendo allo stato un governo democratico.

L’accordo firmato oggi prevede che i soldati statunitensi in Afghanistan vengano inizialmente ridotti da 13mila a 8.600 entro 135 giorni. Il governo afghano chiederà al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di rimuovere le sanzioni applicate attualmente a diversi leader talebani, ed è prevista anche la scarcerazione di 5mila membri dell’organizzazione attualmente nelle prigioni afghane. In cambio, i talebani dovrebbero liberare mille militari afghani. Come condizione per il ritiro totale dei militari americani, i talebani dovranno impedire agli estremisti di usare il Paese per progettare attacchi contro gli Stati Uniti o i loro alleati.

L’accordo permetterà davvero la pace in un territorio da troppi anni dilaniato? O la riduzione del contingente americano, permetterà una nuova escalation di violenze?

Il buco dell'Ozono potrebbe non essere più un problema

di Federico De Martino - 28 febbraio 2020

Alle medie, studiavamo come il buco dell'Ozono, ossia l'assottigliamento dello strato d'ozono al di sopra delle due regioni polari, fosse uno dei maggiori responsabili del riscaldamento globale. 

Ma è davvero così? Non proprio, ma ci arriveremo. Prima però permettetemi una piccola digressione. 

Viviamo purtroppo in un mondo caratterizzato da un profondo pessimismo che  emerge in modo dilagante specialmente quando si parla di ambiente. La situazione non è felice, è vero. Ma dare la giusta visibilità anche a qualche  buona notizia, come quella che voglio condividere con voi, mi sembra quantomeno doveroso, perché simbolo dell’efficienza che la cooperazione internazionale  e l'impegno della comunità scientifica può generare.

Torniamo a noi. Scoperto negli anni 80', il buco dell'ozono preoccupò non poco la comunità scientifica perché tra le altre cose avrebbe comportato un aumento della radiazione ultravioletta sulla terra ( la riduzione dello strato di ozono  compromette quell'effetto filtrante che lo caratterizza) che, come sappiamo, provoca l’insorgenza di tumori.

Tale preoccupazione portò  USA, Unione Europea ed altri 90 paesi a riunirsi per discutere l'abbattimento della produzione di CFC: prodotti chimici industriali contenenti Bromo e Cloro, presenti ad esempio tra gli  agenti estinguenti negli estintori. 

I risultati sono stati fin da subito sorprendenti. Le misurazioni eseguite in Antartide hanno dimostrato una significante riduzione del buco più precisamente dai 16 milioni di chilometri quadrati ai 10 attuali.  La stessa Nasa nel 2018 confermò il fenomeno della riduzione a partire dal 2005, fissando il 2050 come l'anno della sua completa chiusura.

Lasciamo spazio ogni tanto anche alle buone notizie. 

L'Australia rifiorirà?

I danni del cambiamento climatico

di Sofia Testa - 24 febbraio 2020

Gli incendi che hanno colpito l’Australia negli ultimi mesi sembrano essersi quasi estinti o perlomeno sono ormai periferici e del tutto controllati, ma questi stessi hanno provocato moltissimi danni, che cambieranno per sempre il territorio.

Innanzitutto sono stati bruciati circa 10 milioni di ettari di territorio ed, oltre a circa 33 morti tra la popolazione e numerose evacuazioni dai centri abitati, è stata colpita anche gran parte della fauna. Secondo il WWF potrebbero essere stati uccisi 1.25 miliardi di animali, di cui 8 milioni di koala. Questa realtà ci appare lontana, e a pensarci surreale, ma il rischio anche per altri paesi di dover vivere una situazione del genere è alto. Basta infatti pensare ai numerosi incendi che avvengono spesso in California e in Patagonia, a causa del caldo anomalo dell’ultimo periodo.

E ORA CHE È TERMINATO L’INCUBO DEGLI INCENDI?

Dopo mesi si intravede finalmente un barlume di speranza sul suolo australiano. 

A spegnere gli incendi, infatti, sono state anche delle intensissime piogge verificatosi nelle ultime settimane. Le piogge stesse potrebbero però rivelarsi un danno, in particolare nella zona di Sydney, poiché sono completamente fuori dal comune, con una stima della BBC di 400 millimetri di pioggia in quattro giorni.

Una vera e propria “luce in fondo al tunnel” ci viene mostrata invece dagli straordinari scatti di Darren England che nel bosco di Peregian Beach ha realizzato un servizio fotografico sui germogli degli alberi che cominciano a ricrescere, nonostante moltissimi alberi siano stati bruciati. 

Altre questioni di cui preoccuparsi sono invece la scomparsa definitiva di alcune specie di animali e lo sfollamento di moltissime persone. Bisogna infatti ricostruire gran parte delle abitazioni nelle aree colpite e una conseguenza che si protrarrà sicuramente a lungo è il calo del turismo, perché dopo questi fenomeni i rischi di una ricaduta sono alti e con essi la paura degli abitanti stessi e dei viaggiatori.

NOI COSA POSSIAMO FARE?

Una domanda doverosa è quella con cui chiederci se da lontano si possa fare qualcosa, o se si possa invece prevenire una situazione simile qui. Ebbene, grazie a un’attenta riflessione emergono moltissime opzioni su come dare un contributo.

Italo Svevo nel 1923 scriveva “L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie, ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio” e di sicuro ciò che colpisce è la lungimiranza di questa frase. 

Che fosse in grado di prevedere il futuro? O semplicemente la sua sensibilità straordinaria gli ha consentito di cogliere l’indifferenza delle persone, che dopo aver causato il problema lo ignorano?

foto di Focus Junior 

Monofobia generazionale

di Irene Beonio Brocchieri - 20 febbraio 2020

Ispirata da un articolo di  Pier Aldo Rovatti nel quale si interroga sulla nostra capacità di riflettere in solitudine partendo dai versi di Francesco Petrarca “Solo e pensoso i più diserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti”, anch’io mi sono chiesta come noi giovani affrontiamo (o evitiamo)  la riflessione individuale.

In questo momento sul nostro pianeta vivono quasi 8 miliardi di persone, siamo più numerosi che mai e connessi da reti di dati velocissime. Per quanto ne sanno i millennials o la generazione zeta, coloro che vagavano “a passi tardi e lenti” potrebbero essersi estinti insieme ai dinosauri e, in un mondo in cui anche i nati prima del 1940 e gli animali da compagnia possiedono un profilo sul web, la solitudine sembra davvero, come dice Rovatti, una “malattia endemica” che tutti hanno contratto, ma che ognuno teme, pensando di essere ancora sano.

Tutte le azioni che riguardano la comunicazione in internet, come messaggiare, twittare, chattare, instagrammare e molti altri anglicismi distorti, ci portano a dover dare agli altri risposte immediate, senza avere il tempo di riflettere, tantomeno in solitudine.

Per questo da molto tempo ormai non siamo più in grado di immedesimarci nel protagonista de “Il deserto dei Tartari” che per tutta la vita, aspettando un nemico immaginario, attende in solitudine riflettendo sul tempo che scorre. Siamo piuttosto dei giovani Mattia Pascal che, soli,  cambiamo vita e identità, cercando inutilmente quella perfetta. 

Anche sul fronte amoroso non siamo più Romeo che aspetta sotto il balcone la sua Giulietta o Renzo e Lucia che affrontano mille peripezie pur di sposarsi. L’ideale romantico  “o te o nessun altro” si è perso, perchè rischiare di rimanere soli ci fa paura, quindi preferiamo una lunga serie di tentativi falliti che sfidare la sorte aspettando la persona giusta.

L’unica misura di tempo che conosciamo è l’adesso, i quindici secondi, la durata di una storia su Instagram, e la nostra vita è scandita dai momenti di condivisione, non dalle esperienze o dalle riflessioni: perchè perdere tempo a rimuginare su qualcosa se non per poter comunicare agli altri le nostre considerazioni finali? Su Facebook, per condividere qualcosa, si risponde alla domanda formulata dal sistema “a cosa stai pensando?” che non è affatto un invito alla riflessione, bensì a tradurre in un breve testo un pensiero, una sensazione momentanea, senza necessità di elaborazione. 

Forse abbiamo davvero paura di meditare in solitudine, poiché i nostri flussi di coscienza portano a galla pensieri scomodi, molto personali e a volte tristi, incondivisibili e quindi inutili. Ciò che mostriamo agli altri deve essere positivo, deve avere un contenuto leggero e semplice da comprendere per i nostri ascoltatori o lettori che si spaventano alla vista di un testo più lungo di 140 caratteri.

Quindi, i celebri versi di Petrarca oggi sono meno efficaci di quando sono stati scritti? Secondo me no, anzi la grande letteratura ci obbliga a mettere in dubbio il nostro modo di vivere e di relazionarci con gli altri: proprio da queste parole così cronologicamente e concettualmente lontane possiamo ricominciare a cercare la nostra capacità di pensare in solitudine.

James Ensor, Autoritratto con maschere, 1889

La scuola sta cambiando?

di Giacomo Gallazzi - 11 febbraio 2020

Marco Montemagno, uno youtuber che alcuni di voi conosceranno sicuramente - e se non lo conoscete vi invito a seguirlo perché merita davvero -  in un suo video  racconta di un esperimento che si sta compiendo in alcune scuole cinesi:

I bambini vengono controllati durante ogni singolo istante passato in istituto grazie a dei particolari cerchietti, i quali sono muniti di tre elettrodi, uno frontale e due laterali, che monitorano i livelli di concentrazione degli studenti. In base al livello di attenzione rilevato si accende una luce colorata: rossa se il grado di concentrazione è molto elevato, gialla se il livello è “bene ma non benissimo” e bianca per dire “bravo, ma non si applica”.  Oltre a inviare un segnale visivo, i cerchietti trasmettono direttamente al computer della maestra le informazioni raccolte, che a loro volta sono condivise coi cellulari dei genitori. Un po’ come il nostro mastercom, ma 10 volte meglio (o peggio, fate voi). 

La situazione dei ragazzi delle scuole superiori assomiglia invece molto a quella di Truman Show, o, per chi non conoscesse questo film (che vi invito a guardare), al Grande Fratello.

In ogni aula c’è infatti una telecamera che rileva quante volte ogni alunno controlla il cellulare e per quanto tempo. Anche in questo caso i dati vengono poi comunicati a genitori e professori e gran parte del voto di comportamento viene assegnato grazie a questo sistema.

Secondo voi, cosa accadrebbe se questo sistema venisse applicato qui al Crespi? 

Condividete tutto ciò?

Lasciate la vostra opinione rispondendo ai sondaggi della nostra page instagram, @lavocedelcrespi 

Bambini cinesi sottoposti all'esperimento

Mamma e papà odiano il rap

di Valeria Bertino - 3 febbraio 2020

Siamo alla vigilia della settantesima edizione del festival di Sanremo e il web è costellato di articoli, discussioni e critiche nei confronti di Junior Cally: cantante se non seguito, quantomeno conosciuto da tutti i ragazzi italiani. Ci troviamo di fronte a una di quelle situazioni in cui un testo "scandaloso" diventa il pretesto per inveire contro tutta la musica dei giovani a prescindere da artista o genere.

Il rap è il genere più bersagliato: è ampio ma la sua costante è quella di prendersi una libertà che bisogna saper usare, e qui entra in gioco la bravura e serietà del rapper. Questo modo di far musica, comunque, non verrà mai capito dai nostri genitori: il rap è per i giovani, il rap stesso è giovane.

MA SIAMO SICURI CHE I NOSTRI GENITORI NON SI SIANO TROVATI NELLA STESSA SITUAZIONE?

No. Anzi siamo perfettamente certi che anche i nostri nonni abbiano almeno una volta contestato la musica dei nostri genitori. Un chiaro esempio è la madre fortemente religiosa di Jam in Detroit Rock City, che trovati i biglietti per il concerto dei Kiss nascosti dal figlio, li brucia e lo iscrive in collegio. A prescindere dallo "scandalo" o no che può portare la musica moderna, sembra che risulti sempre più difficile comprendersi di generazione in generazione. Da parte dei Seniores, ogni differenza o evoluzione diventa occasione di critica per quei giovani che sentono completamente estranei a sé.

"La nostra gioventù ama il lusso, è maleducata, se ne infischia dell'autorità e non ha nessun rispetto per gli anziani. I ragazzi d'oggi sono tiranni. Non si alzano in piedi quando un anziano entra in un ambiente, rispondono male ai loro genitori..."

Vi sembrano le parole di vostra madre o vostro padre? Ebbene, in realtà queste sono parole del filosofo Socrate (469-399 a.C.)

Forse, nonostante la nostra "scarsa socializzazione" dovuta ai social, la nostra scarsa voglia di fare qualsiasi cosa, e la nostra "bambagia", non dobbiamo sentirci colpevoli di "rovinare la storia" perché i giovani sono e sono sempre stati così: prepotenti, ribelli, maleducati, irrispettosi e soggetti alle critiche della generazione precedente.

PARLANDO DI GENERAZIONI...

Quando inizia una nuova generazione? Normalmente penseremmo a una media di dieci anni, ma se riflettiamo su di noi, non è proprio così: un ragazzo del 2002 già si sente lontanissimo da uno nato nel 2005 e abbastanza lontano da uno nato nel 1999. Ovviamente crescendo le età si avvicinano, ma la tecnologia avanza sempre di più e comporta una crescita sempre più anticipata. "ma io in prima non ero così..." disse la ragazza di quarta, scandalizzata. Il distacco generazionale e le critiche si sentono anche a pochi anni di distanza.

E voi cosa ne pensate? Quali sono le vostre opinioni riguardo alla nostra generazione? Quali sono i nostri lati positivi e quali negativi? fateci sapere!


Amadeus, il presentatore del Festival di quest'anno, insieme a Junior Cally