37- Un po' di ostrogoto

Corrispondenza tra P.P.Pasolini e Alberto Moravia su Cinema e Dialogo. Da il Caos (1969)

Umiliare

Ci sono certe occasioni in cui le cose hanno una forza invincibile (per chi non è santo). Una di queste occasioni sono i festival (parlo di occasioni naturalmente, che io conosco). Le "cose" dei festival sono i loro "riti" o "cerimoniali", con lo stato d'animo che comportano. Prima che il Festival di Venezia "aprisse i battenti", i suoi "riti" erano già cominciati. Come? Creando schemi e partiti presi nei cervelli dei critici, mettiamo. Ecco per esempio Pietro Bianchi: egli fa un articolo di "anticipazioni" sul Festival, e subito, come dicono i veneziani (e perché non avere il coraggio di dirlo anche per scritto), "va a cagàr nel mucio", come il diavolo. Parla del "Satyricon" di Fellini come dell'indiscusso e unico possibile Leone d'oro, che non c'è. Il film di Fellini sarà sicuramente una meraviglia: ma Pietro Bianchi lo umilia dandolo con tanta leggerezza e spensieratezza - meccaniche e aprioristiche - come cavallo vincente (di un premio che non c'è). Umilia il "Satyricon" e umilia tutti gli altri film: perché, insieme al "Satyricon", li impacchetta tutti dentro una convenzione giornalistica, dentro l'apriorismo dell'opinione pubblica, che non vuole sorprese: che vuole l'ordine. Questo lo dico oggettivamente. Soggettivamente, ecco, su di me, la triste forza delle cose. Sono cioè costretto a pensieri e dispiaceri meschini: per cinque minuti sia pure. So io quello che ho dato di me per fare "Porcile": un film povero, girato in un mese, con una cifra irrisoria. É stato meraviglioso, si capisce. Perché l'esprimersi - anche attraverso i disagi più angosciosi - è sempre meraviglioso. E poi, ci sono le avventure umane della lavorazione, il cui valore nulla poi può togliere: come amori di un giorno, subito lontani ma indelebili, ci sono i rapporti degli attori - il disperato Pierre Clementi, l'angosciato Jean-Pierre Léaud - per cui il lavorare era come per dei bambini sperduti l'essere accarezzati dalla madre; lo smarrito Lionello, che con una volontà struggente ha vinto le impossibilità del suo ruolo, riuscendo gioiosamente vittorioso; l'adorabile Anne Wiasemsky, sempre perfetta e invulnerabile, lei, come una preziosa bestia di razza (o come Marco Ferreri); Ninetto – Ninetto Davoli - che per la prima volta, nella sua esperienza un po' comica di "attore per forza", ha avuto coscienza di quello che faceva, e ha recitato l'ultima scena con le lacrime agli occhi; e Tognazzi, infine, uno degli uomini più buoni e intelligenti che io abbia conosciuto. E poi le avventure naturali. Credo che nessuno abbia mai patito tanto freddo come noi, prima sull'Etna, con vento, nebbia, neve, pioggia, e poi in gennaio in una villa veneta neoclassica vicino a Padova, che deve essere gelida anche d'estate... Lì la forza delle cose era una forza interiore: eravamo dominatori della tanto difficile e imprendibile realtà, che recalcitrava maledettamente, ma solo sul suo livello pragmatico! Come era dolce possederla, cioè essere fusi con essa! Ecco, ora il film è finito, è alle mie spalle. Lo considero il più riuscito dei miei film, almeno esteriormente, se il mio atteggiamento verso cose e casi tanto brucianti non aveva potuto essere che contemplativo. Quello che penso io del mio film, lo pensano certamente tutti gli autori dei film presenti al Festival di Venezia, per la maggior parte appunto autori di film "poveri", come il mio. E tutti avranno passato i loro cinque minuti di meschinità, sproporzionati col loro lavoro, nel leggere che il film più ricco e più forte è dato, senza nemmeno l'ombra del dubbio, così brutalmente, come il migliore.

13 settembre 1969

" Un po' di ostrogoto "

Anche Moravia si è occupato del "Satyricon", con un articolo grande come un lenzuolo steso ad asciugare. Vi fa le sue consuete osservazioni acute, vive, intelligenti e convincenti."L'Espresso" dice, annunciando l'articolo, che Moravia ha visto in "anteprima mondiale" il film: in realtà, come egli mi ha detto, si è trattato semplicemente di una delle solite visioni private (di cui Fellini è maestro), e d'una copia ancora non doppiata in cui gli attori, come mi diceva appunto Moravia, parlano in romanesco, in svedese, in ostrogoto. Ora, io sostengo e ho sempre sostenuto che il cinema è una "tecnica audiovisiva". Per spiegarmi, la prendo un po' alla larga. A dimostrare che il linguaggio del cinema è autonomo e ha una sua convenzione, o codice, un ricercatore riportava l'esempio di un film fatto vedere a un pubblico di selvaggi o quasi (non ricordo se esquimesi o bantú): ebbene, questi selvaggi non avrebbero capito il film - secondo quel ricercatore - perché essi non sarebbero stati in possesso delle chiavi del codice cinematografico.