La mappa
Fino agli inizi della seconda metà del secolo scorso la nostra valle si presentava suddivisa in tanti appezzamenti di terreno di modesta estensione derivanti storicamente dalla centuriazione romana, dunque ben squadrati, delimitati da fossi camperecci e a volte da siepi, con al centro lunghi filari di aceri campestri, le cosiddette ‘bianchelle’, e di olmi che sostenevano possenti viti.
Tra un filare e l’altro il terreno era utilizzato per praticare un’agricoltura povera, essenziale per la sopravvivenza delle famiglie contadine che abitavano questa terra.
Si coltivavano grano, legumi e foraggi per gli animali; in questo modo ogni metro quadrato del poco terreno che ciascuna famiglia possedeva, o che comunque poteva coltivare, era sapientemente utilizzato, al punto tale che anche le fronde degli aceri campestri e degli olmi non andavano sprecate e venivano utilizzate come foraggio per gli animali. Le viti così allevate, ‘maritate agli olmi e alle bianchelle’, appartenevano a un particolare ecotipo locale chiamato ‘Trebbiano spoletino’.
Questo vitigno sta ora suscitando nuovo interesse tra i viticoltori locali perché da esso si ottengono ottimi vini bianchi, freschi, aromatici, corposi ed equilibrati, che racchiudono tutti i profumi e i sentori di questa terra; caratteristiche che di recente hanno valso loro il riconoscimento della DOC.
Il trebbiano spoletino è un vitigno tipicamente di pianura, che sembra smentire il luogo comune che colloca in collina la migliore viticoltura. La pianta del trebbiano spoletino è vigorosa.
Necessita di spazio per la crescita e di sole per la maturazione del frutto. Per questo motivo, gli agricoltori in passato pensarono bene di ‘maritarla’, in particolare all’acero campestre o all’olmo, ma anche al bagolaro e in qualche rarissima occasione al salice.
Potevano, così, garantire una sufficiente distanza dei tralci dal suolo e scongiurare le insidie delle gelate tardive tipiche della pianura. Al contempo, riuscivano ad assicurare un buon soleggiamento dei grappoli che pendevano abbondanti dai lunghi tralci, legati in coppia ai fili di ferro tesi tra un albero tutore e il successivo, realizzando in questo modo le cosiddette ‘tirate’.
Oggi di quelle piantate restano pochi filari residuali (molto spesso si tratta solo di poche piante).
Girando per le campagne, o seguendo gli itinerari ciclopedonali proposti per conoscere questa viticoltura d’altri tempi, ci si può accorgere che le poche piantate rimaste sono quasi completamente caratterizzate da viti maritate all’acero campestre: questo perché circa 20-30 anni or sono gli olmi sparirono quasi completamente dalle nostre campagne (e non solo) a causa della grafiosi, malattia provocata da un fungo ascomicete.
Alla fine degli anni Sessanta (del secolo scorso) l’Europa fu raggiunta da un ceppo particolarmente virulento di questa malattia, che in una ventina di anni ha distrutto quasi completamente il patrimonio arboreo rappresentato dai grandi olmi del vecchio Continente, lasciando solo le piccole piante che risultano effettivamente indenni all’attacco fungino.
Questa morìa generalizzata ha certamente accelerato la fine delle nostre ‘piantate’, destinate comunque a soccombere per la modernizzazione dell’agricoltura sempre più meccanizzata e intensiva.
«Il trebbiano, chiamato nelle altre plaghe dell’Umbria lo Spoletino (da non confondersi con le altre varietà di trebbiano ovunque diffuse), è il vitigno più coltivato nella nostra pianura; le sue buone qualità lo rendono preferito da tutti i nostri agricoltori.
È un vitigno robustissimo e resistentissimo alle malattie crittogamiche, in specie alla peronospora; ama terreni di piano, profondi, fertili, freschi, ma produce bene anche in collina.
I suoi tralci sono di mediocre grossezza ad internodi lunghi, le foglie piuttosto piccole.
I grappoli hanno una forma caratteristica, cilindrica, con ingrossamento alle due estremità; se maturati bene assumono un bellissimo color d’oro, ma la maturazione si compie tardivamente alla fine di settembre.
La pianta preferisce la potatura lunga e vuole molto sfogo nei tralci; si adatta bene alla formazione delle tese che sono quei tralci lunghi che collegano un albero con un altro.
Il grado gleucometrico del mosto (gleucometro Babo) oscilla dai 17½ ai 21; l’acidità 9-11; è ricchissimo di sostanze albuminoidi talché i vini fatti con solo trebbiano sono per lo più grassi e vanno soggetti a filare»
un altro importante impiego del vitigno che ci piace ricordare: «[…] con il Trebbiano appassito si fabbrica il famoso vin santo di Trevi che ha acquistato una certa e meritata celebrità nella categoria dei vini liquorosi […]» [Francolini 1908, pp. 90- 91].
Il ‘vinsanto di Trevi’ è un altro esempio di prodotto di nicchia del nostro territorio che sta scomparendo e che è ormai vinificato solo da pochissime cantine.
Ricordiamo che un tempo moltissime famiglie trevane producevano il vinsanto per il proprio consumo.
Nelle soffitte e nelle cantine di vecchie case della nostra campagna è ancora possibile trovare i ‘telarini’ per appendere l’uva, il torchietto e il prezioso ‘caratello’ che trasmetteva al vino l’aroma caratteristico che lo rendeva unico e inconfondibile.
Queste caratteristiche lo rendono interessante per essere valorizzato come tale, ma anche per essere usato come base nella vinificazione degli spumanti.
Diverse istituzioni pubbliche, da alcuni anni, stanno lavorando perché tali pregevoli caratteristiche siano sempre più apprezzate dal mercato e per favorire una maggiore diffusione del vitigno tra i viticoltori.
Se l’omonimo vino bianco ottenuto dal trebbiano spoletino si presenta con ottime caratteristiche organolettiche, pure degno di considerazione è il vinsanto, un passito dall’aroma inconfondibile ottenuto dalla stessa uva.
Un tempo, nel territorio trevano, il vinsanto era prodotto e confezionato per la vendita da pochi grossi proprietari terrieri, ma moltissime famiglie lo preparavano nel fresco delle proprie cantine per il consumo diretto.
Nelle soffitte e nelle cantine si possono ancora trovare i ‘telarini’, dove l’uva era messa ad appassire, il torchietto e i preziosi ‘caratelli’, per l’invecchiamento del vino: ognuno di questi oggetti gli trasmetteva una parte importante del suo caratteristico aroma, per noi (ma siamo di parte…) unico e incomparabile!
CARATTERI DEL TREBBIANO SPOLETINO
• APICE: medio, cotonoso, verde-biancastro
• FOGLIA: media, pentagonale, pentalobata; seno peziolare a lira aperta, seni laterali superiori ad U, quelli inferiori a V poco profondi; pagina superiore verde, glabra, quella inferiore verde chiaro, aracnoidea, lembo ondulato e bolloso
• TRALCIO LEGNOSO: lungo; sezione ellittica; corteccia di colore marrone con nodi più scuri
• GRAPPOLO: medio-grande, 250-450 g. cilindrico, alato (1 ala) compatto
• ACINO: medio, sferoidale; buccia verde-giallastra, spessa, pruinosa, ombelico evidente; sapore neutro
• GERMOGLIAMENTO: tardivo (20 – 30 aprile)
• FIORITURA: media (10 – 20 giugno)
• MATURAZIONE: tardiva (10 – 20 ottobre)
• VIGORIA: notevole
• PORTAMENTO: semieretto
• FERTILITÀ DELLE GEMME BASALI: media
• PRODUTTIVITÀ: media-elevata
• POTATURA: si adatta anche alla potatura corta (speronatura)
• VENDEMMIA MECCANICA: media difficoltà
Suscettibilità alle fitopatie, ai parassiti animali e alle virosi
• PERONOSPORA, ESCORIASI, MAL DELL’ESCA, ACARI: media
• OIDIO, ARRICCIAMENTO, ACCARTOCCIAMENTO: sensibile
• BOTRYTIS, MARCIUME ACIDO: scarsa
Adattabilità
• GELATE PRIMAVERILI: ottima
• VENTO: media
• SICCITÀ: buona
• CLOROSI: scarsa
• DISSECCAMENTO DEL RACHIDE: scarsa
Una rara notizia sull’esistenza della coltivazione della vite nel territorio tipico del Trebbiano spoletino, risale al 5 giugno 1221 quando il Priore del monastero benedettino di S. Maria di Turrita (comune di Montefalco) prese in possesso una vigna sotto Fabbri di Montefalco, in località “Arsicciali” nel territorio del comune di Trevi … “TERRAM ET VINEAM EXISTENTEM IN VOCABOLO DE ARSICCIALI IN TERRITORIO TREVANO” (Spoleto, archivio del Duomo, perg.153).
La località “Arsicciali” viene menzionata anche da Pietro Bonilli (1841 – 1935) in “Cannaiola, memorie storiche raccolte negli anni 1873–74”, ricordando uno dei nomi storici con i quali, in passato, veniva chiamato il paese di Cannaiola, ovvero “S. Angelo in Arsicciali”.
Il trebbiano spoletino: curiosità in cantina
A cura di Alvaro Paggi, Giampaolo Filippucci, Tiziana Ravagli
Durante la vendemmia i grappoli più dorati e più sani venivano raccolti con un pezzo di tralcio, quindi venivano riuniti in mazzi e conservati appesi nei magazzini o nei granai.
L’uva serviva come frutta durante le festività natalizie.
Nei pomeriggi d’autunno, un grappolo d’uva e una fetta di pane erano una gradita merenda per i ragazzi.
L’uva di trebbiano spoletino era utilizzata, in tardo autunno, per il “governo” del vino nuovo.
Dopo aver separato i chicchi dal raspo, questi venivano macinati e torchiati.
Il mosto ottenuto, lo si faceva bollire brevemente (per evitare che gli zuccheri tendessero a caramellare) in paioli di rame (i callari o le callare) ed ancora caldo, lo si versava nelle botti contenenti il vino nuovo.
Si stimolava così una nuova, lenta fermentazione che trasformava in alcool i residui zuccheri ancora presenti nel vino, aumentandone la gradazione alcolica e rendendolo gradevolmente frizzante, per la modesta presenza di anidride carbonica prodotta dalla lenta fermentazione naturale.
I grappoli migliori di trebbiano spoletino…
I grappoli migliori di trebbiano spoletino venivano appoggiati, uno accanto all’altro, su dei graticci, “le seccaiole”, realizzati intrecciando vimini o su delle tavole di legno, quindi si mettevano nel forno appena caldo ad asciugare.
L’operazione veniva ripetuta più volte fin quando, nel giro di qualche giorno, l’uva non era completamente asciutta.
Si conservava quindi in sacchetti di cotone o in ceste di vimini, con l’aggiunta di qualche foglia di alloro o di menta, i quali avevano la funzione di facilitarne la conservazione, allontanando eventuali parassiti.
Veniva poi utilizzata nella preparazione di dolci (in particolare per la “‘ntorta o rocciata”) oppure per la tradizionale “pizza sotto lu focu della Venuta” cucinata il 9 dicembre, giorno in cui, secondo la tradizione cattolica, è avvenuta la traslazione della santa Casa di Loreto dalla Terra Santa.
Inoltre, insieme ai fichi secchi, era un’ambita ricompensa per qualche piccolo servigio reso dai bambini.