Struttura costitutiva di sedia
Vero, verosimigliante, Ventrone
di Raffaella Vaccari
Per struttura costitutiva si intende quella specie di stampo creato dalla nostra mente che permette il riconoscimento delle cose che stanno attorno a noi; è la prima fase del processo di figurazione.
Solitamente viene vissuta come un condizionamento e limite della visione e chiamata stereotipo, la nostra idea più semplice e spoglia di quella cosa che è fondamentale nel riconoscimento, ma condiziona la nostra visione.
Lo stereotipo universalmente ha dunque una connotazione negativa in quanto legato a semplificazioni e generalizzazioni, è un concetto che definisce le opinioni precostituite scevre da valutazioni critiche.
Spesso gli artisti lavorano sul concetto di stereotipo e di figurazione stereotipante in quanto motivo di trasgressione.
In questo caso è fuorviante attribuirvi una connotazione negativa in quanto la struttura costitutiva è, sì legata all’accezione di stereotipo, ma da esso si trae ispirazione per creare forme essenziali e audaci che non si accontentano più della fedeleriproduzione di quello che c’è attorno a noi. Un esempio classico è l’opera di Henry Matisse che utilizzando forme prese dagli stereotipi, crea figure ed ambienti poetici e sognanti. La caratteristica condizionante dello stereotipo viene sfruttata e fatta diventare poesia.
Chi pratica il disegno dal vero si sarà accorto che se si vuole riprodurre, nella maniera più fedele possibile, ciò che si sta osservando inevitabilmente sarà preda dello stereotipo che limita e condiziona la visione del mondo, imponendo una sorta di lotta contro tale vincolo. Nell’osservazione del soggetto e nella sua riproduzione tendenzialmente riproduciamo sempre ciò che è nella nostra mente e non quello che c’è di fronte a noi: riproduciamo la nostra idea di quella cosa.
Riprodurre in maniera verosimigliante ciò che si sta guardando significa tentare di superare lo stereotipo cercando di ascoltare in modo differente, ossia, osservando in maniera diversa e implica osservare attivamente.
La Desemantizzazione, ovvero togliere il significato della cosa che si sta riproducendo è una tecnica per ovviare a queste problematiche legate al fatto che vediamo solo la versione di quello che c’è attorno a noi creata dalla nostra mente, considerando poi che anche le parole condizionano moltissimo la nostra visione [1] .
Scrive il neuro scienziato Beau Lotto: “Non vediamo la realtà – vediamo soltanto ciò che il nostro cervello seleziona fra tutto ciò che lo “spazio di mezzo”, lo spazio delle interazioni, produce”[2]
L’Iperrealismo è quella corrente artistica nata alla fine degli anni 60 negli Stati Uniti in cui realtà e rappresentazione tendono sempre più a confondersi.
Gli artisti che vi aderiscono utilizzano fotografie e proiezioni per tentare di riprodurre il mondo reale con una tale perfezione tecnica che spesso i dipinti vengono confusi con le fotografie e le sculture con persone in carne ed ossa.
Queste rappresentazioni più vere del vero, forse a causa dei colori forti e brillanti risultano spesso inquietanti, probabilmente per la fissità dei volti, per le composizioni delle nature morte o per la scelta delle inquadrature dei paesaggi.
L’Iperrealismo si può ricondurre a quella spazzolata generale dell’attenzione che utilizziamo nell’osservazione di un’opera d’arte.
Quando si osserva un dipinto sappiamo, dagli esperimenti di Alfred Yarbus sul movimento degli occhi, che si utilizza l’attenzione rivolgendo uno sguardo sommario vincolato però all’osservazione di alcuni elementi del primo piano che vengono isolati dal contesto[3].
I movimenti oculari si possono considerare le nostre finestre sul mondo[4] al punto che se si impedisce agli occhi di muoversi non riusciremmo più a vedere. Le informazioni dal mondo visivo vengono dunque estratte tramite il movimento degli occhi.
Un interessante esperimento degli scienziati David J. Kelly e Roberto Caldara nel 2010 ha portato alla luce che la cultura riesce a condizionare tali movimenti: movimenti oculari diversi plasmano in modo incisivo la percezione, dato che ciò che “guardiamo” vincola il genere di informazioni che il cervello usa per produrre senso[5]
Per entrare in una visione di tipo estetico, una visione onnicomprensiva, si può utilizzare quella che il modello operativa chiama modalità di Compresenza, ovvero l’attitudine dello sguardo acquisita culturalmente, di osservare ogni parte di un’opera nell’insieme, considerando i rapporti che esistono fra primo piano e sfondo, in pratica la relazione osmotica della materia cromatica fra figura e sfondo.
Abbiamo la consapevolezza che la visione e quindi l’osservazione cambia a secondo delle modalità con cui l’attenzione viene diretta.
Possiamo da questo punto di vista considerare l’Iperrealismo come l’insistenza protratta dell’attenzione ed un modo di portare, in senso esagerato, la Compresenza a tutti gli elementi del riquadro.
Si può pensare così all’Iperrealismo come ad una operazione di guida e vincolo dell’attenzione. Dato che non esiste una realtà iperrealista di per sé, questo modo di dipingere si può anche ritenere una modalità di osservazione.
[1] Non vediamo la realtà – ma soltanto la versione della realtà creata dalla nostra mente. Cfr. Beau Lotto - Percezioni pag. 24
[2] . Cfr. Beau Lotto - Percezioni pag. 58
[3] negli anni 1950/60 lo studioso russo di psicofisica Alfred Yarbus si era occupato dei percorsi che opera lo sguardo quando si osserva un’immagine e nel 1967 pubblicò un interessante studio sul movimento degli occhi e l’immagine osservata: notò che l’occhio umano tende a concentrarsi solo su alcune zone dell’immagine, che appaiono per l’osservatore particolarmente importanti, indipendentemente dal tempo in cui ci si sofferma. Vedi A.L. Jarbus, I movimenti degli occhi nella percezione di oggetti complessi, Casa ed. Scienza, Mosca 1965, Accademia delle Scienze dell’U.R.S.S. Istituto per i problemi della Diffusione e delle informazioni
[4] I movimenti oculari, che sono le nostre finestre sul mondo, occultano i nostri assunti Cfr. Beau Lotto - Percezioni pag.75
[5] Nel 2010 David J. Kelly e Roberto Caldara hanno scoperto che il movimento degli occhi è diverso in base alla società in cui si è nati. “la cultura condiziona il modo in cui la gente muove gli occhi per estrarre informazioni dal proprio mondo visivo”. Gli asiatici estraggono informazioni visive in maniera più olistica, mentre gli occidentali lo fanno in maniera più analitica (non si riscontravano differenze nella capacità complessiva di riconoscere i volti. Le culture occidentali si focalizzano su elementi distinti o “oggetti salienti” con i quali possono poi agevolmente elaborare le informazioni come si addice a una visione del mondo spiccatamente individualista. Le culture orientali, di converso, assegnano più valore ai gruppi e alle finalità collettive, tendenza che induce gli individui a essere attratti da una “regione” piuttosto che da uno specifico tratto di un viso. (..) .Cfr. Beau Lotto - Percezioni pag. 164
la tautologia in Joseph Kosuth
Luciano Ventrone fa parte di questa corrente artistica e da metà degli anni 70 per realizzare i suoi dipinti utilizza scatti fotografici della fotografa professionista nonché moglie Miranda Gibilisco. L’artista proietta la fotografia sulla tela e ne disegna i tracciati. Il disegno così ricalcato a matita, acrilico, pastelli o tempere all’uovo viene poi dipinto ad olio utilizzando una specifica lampada al neon che non proietta mai ombre sulla tela (questo tipo di lampada abitualmente usata per la crescita delle piante ha una luce molto somigliante alla luce del giorno)[1].
Capire il significato che ha nel nostro tempo dipingere in modo così verosimigliante da non riuscire a distinguere il dipinto da una fotografia è alla base per comprendere il lavoro di Ventrone ma anche la corrente degli Iperrealisti.
Un modo per apprezzarne il lavoro può essere il concetto di tautologia, la ripetizione di uno stesso pensiero con parole diverse.
Viene usata in campo estetico per descrivere una uguaglianza stabilita fra le cose: oggetti diversamente percepiti a cui viene attribuito un significato equivalente.
Nella tautologia come concetto estetico troviamo il pensiero che rimanda a se stesso; [2] il lavoro di Joseph Kosuth una e tre sedie ne è un esempio significativo. Opera del 1965 viene considerata appartenente alla particolare forma di arte concettuale che utilizza a queste idee.
Se accantonassimo il concetto di tautologia nell’osservazione del lavoro di Luciano Ventrone rimarrebbe solo il senso egotistico[3] dell’artista. A prima vista sembra che voglia affermare la sua bravura tecnica al mondo: guarda quanto sono bravo e guarda quanto è bello il mondo che vedo oppure, sono bravo io che dipingo il mondo che vedo tale e quale e meglio di una fotografia.
Che senso ha la riproduzione pittorica alla stregua della riproduzione fotografica?
Leggere l’opera di Luciano Ventrone sul piano della tautologia ci spinge subito ad affrontare il problema della realtà.
Io rappresento quello che vedo, dice l’artista, ma quello che vedo non è assoluto. È un assoluto relativo a chi osserva: come sappiamo dalle neuroscienze la nostra visione del mondo è limitata (vedi la scala dei colori visibili all’occhio umano e il condizionamento dato dalle parole).
[1] Dal catalogo Luciano Ventrone, meraviglia ed estasi: piccolo dizionario ventroniano a cura di Cesare Biasini Selvaggi pag. 34
[2] (..) Ciò a cui si assiste, in epoca moderna, è quindi il sottile disgregarsi dei canoni della tradizione figurativa e plastica, una lenta erosione che ha i suoi mentori riconosciuti in Renè Magritte e Marcel Duchamp. Una veloce implosione che, in poco più di cinquant’anni, ha portato il fare arte ad una radicale implosione su sé stessa, mentre Pavel Florenskij, tra il 1923 ed il 1924, inizia la sua personale indagine analitica alla ricerca di un limite estetico entro cui definire l’arte, dove la purezza è data dalla sua stessa ragione di essere arte. È in questo solco che fa la sua comparsa la tautologia, come concetto estetico, come proposizione artistica ben definita, come atteggiamento concettuale precipuo, come nuovo modo di costruire l’arte. In particolare, la tautologia diventa cifra stilistica e vera e propria poetica di due artisti che, seguendo modalità diverse, seguono entrambi la corrente concettuale: Joseph Kosuth e Luciano Fabro. Tautologia diventa, così, un mezzo per leggere il reale ed il contemporaneo, i suoi spazi ed il suo tempo, la sua lingua e la sua sintassi e, non da ultimo, la relazione che lo spettatore, fruitore dell’opera istituisce con l’opera stessa. Leonardo Chiappini – Identità tautologica dell’arte, 2008/2009 Tesi di laura presentata all’Accademia di Brera.
[3] “Eccessivo compiacimento con cui ci si guarda, connesso con la tendenza a fare di se stessi l'oggetto privilegiato di ogni riflessione” vocabolario Treccani
Il neuro scienziato Beau Lotto afferma: la percezione non deriva affatto in maniera esclusiva dai nostri cinque sensi, bensì dalla rete di comunicazione infinitamente sofisticata del cervello, che conferisce senso all’insieme delle informazioni che vi entrano.[1]
Le nostre percezioni non corrispondono dunque alla realtà, quando si suppone di per sé data, perché sono legate prima di tutto alla conformazione dei nostri organi di senso, alle nostre esperienze e alle interazioni che abbiamo avuto con gli altri, con lo spazio e quindi con il mondo. Però noi abbiamo l’impressione che quello che osserviamo corrisponda a quello che c’è fuori di noi, (si suppone esista bell’è fatta fuori di noi). Invece tutto quello che vediamo esiste solo dentro alla nostra mente e non ce ne rendiamo conto perché il nostro cervello proietta tutte le percezioni che abbiamo esperito nel corso della nostra vita su tutto ciò che ci circonda, e sono esperienze comuni. [2]
Tutte le informazioni che ci arrivano da fuori non hanno significato intrinseco, è il nostro cervello che quando le intercetta le elabora per darvi significato. [3]
Tenere in considerazione queste osservazioni porta a leggere e ad apprezzare il lavoro di Ventrone e degli Iperrealisti in un modo diverso.
Tra gli stralci critici sul suo lavoro appare alquanto illuminante quello di Edward Lucie-Smith a proposito del reale: quello che vediamo in un quadro di Ventrone non è “reale”, poiché non è quello che potremmo vedere se guardassimo a occhio nudo, vediamo di più. Ventrone ci mostra le cose più pienamente e più chiaramente di quanto ci appaiono in realtà; tutto è a fuoco, tutto può essere esaminato.
Dipingere la realtà, intensificarla, sopravvalutarla come si ritiene facciano gli Iperrealisti significa partire dal presupposto che la realtà riusciamo a vederla, che esiste di per sé, mentre le neuroscienze affermano il contrario.
Questa iperbole dell’artificio[4] quindi, caratteristica degli Iperrealisti diventa una intensificazione non della realtà che non vediamo, ma di quello che pensiamo sia, nella nostra interazione con quello che c’è fuori.
Rimini, 2019
[1] Cfr. Beau Lotto - Percezioni pag. 14
[2] Il fatto che la percezione sia incarnata nel nostro cervello e nel mondo è la ragione per cui abbiamo l’impressione di vedere la realtà, benchè le nostre percezioni, come adesso sappiamo, non corrispondano affatto alla realtà. Tutto quel che vedete – tutto – esiste unicamente in un posto: dentro la vostra testa. Tutte le vostre esperienze hanno luogo nel vostro cervello e nel vostro corpo, costruite nello “spazio di mezzo”, emergenti dall’ecologia dell’interazione fra voi e il mondo degli altri, e nello spazio tra voi e il mondo di voi stessi. Non si ha la sensazione che sia così perché proiettiamo le percezioni che abbiamo cercato nello “spazio di mezzo” (cioè quelle che scaturiscono dalle interazioni fra le cose) su tutto ciò che ci circonda. Cfr. Beau Lotto - Percezioni Pag. 312
[3] (..) le informazioni provenienti dal mondo esterno che vengono intercettate dai nostri sensi, di per se stesse non significano letteralmente niente. Non sono altro che energia o molecole. Cfr. Beau Lotto – Percezioni (..) la realtà che le nostre percezioni vedono è il significato delle informazioni insignificanti ricevute dal cervello e poi elaborate. pag. 56
[4] (..) “dipingere la realtà, intensificarla, sopravvalutarla, è un iperbole dell’artificio, sua sontuosa catalessia, ostentata reticenza (..) esaltazione della bravura tecnica, della destrezza che quanto più dissimula l’Io tanto più ingrandisce lo stile” (..) Marco di Capua