IL CUORE


Ho imparato a raccontare la mia storia sorridendo, scherzando e ironizzando.

Riesco a buttarla sul ridere e a parlare per ore di un tema che mi è caro e che, forse, se trattassi da subito in modo serio mi costringerebbe al mutismo dopo pochi minuti.

Non è facile parlare di una determinata parte della mia vita.

Il momento più duro è sempre quella fase di oscurità che non lascia via di scampo, quegli anni passati ad attendere di capire, ma senza alcuna promessa, senza alcuna speranza di vedere le cose cambiare.

Ho passato anni della mia vita a sentirmi dire che era colpa mia se non leggevo come gli altri e sapere in cuor mio che non era vero mi distruggeva ... no, credo di non riuscire a trovare le parole giuste, mi affido a quelle che scrissi parecchi anni fa per raccontare in un libro tutto questo.


Demone Bianco : Capitolo 11 : JACK


La consapevolezza fece migliorare i miei voti, ma i professori interpretarono quel mio miglioramento nel peggiore dei modi.

“È riuscito a prendere Buono, ciò significa che se studia ci riesce”.

Quello sforzo per migliorare la mia esistenza si rivelò, paradossalmente, come specchio crudele sulla realtà.

Compresi che i miei professori non erano assolutamente in grado di valutare ciò che realmente sapevo.

Erano esaminatori ciechi ed erano sordi quando mia madre diceva loro quanto studiavo.

Lo sconforto riprese rapidamente il sopravvento e, con esso, la stanchezza di chi ha dato tutto per tre

anni, senza ricevere nulla.

Mia madre premeva particolarmente su questi ultimi voti, perché non voleva che venissi presentato alle superiori con la valutazione Sufficiente, e il Buono appariva una meta raggiungibile.

Io ero stanco, ma fortemente motivato e non avrei ceduto di fronte a niente e a nessuno.

Sapevo che non potevo contare sui professori e non potevo fare affidamento sulla famiglia, ma credevo di potercela fare, o meglio, speravo di farcela.

Le mie speranze vennero infrante ai piedi del solito patibolo, durante la consegna di una verifica che credevo di aver completato correttamente.

Insufficiente, una parola che in italiano significa “non abbastanza”, seguita dal solito commento che nel mio cuore si tramutava in “ne ho abbastanza”.

Ne avevo abbastanza di quell’ingiusto accanirsi, di quel pretendere da me solo ed esclusivamente ciò che non potevo fare, di quell’insufficiente posto come una colpa.

“Ne ho abbastanza” pensai stringendo i pugni con tanta forza da far tremare i miei gomiti.

Un urlo esplose dentro di me e quella forza risuonò nella mia gola come un respiro strozzato.

La professoressa passava tra i banchi, mi guardò e richiamò: - È inutile fare quei versi Cutrera - mi disse - cosa vuoi dire? -

“Ne ho abbastanza” pensai.

- Sono scocciato - dissi - …non ce la faccio più -

La professoressa non capì:- Sei scocciato… e questo cosa c’entra? -

Ormai ero come un nuotatore che si getta dal trampolino e non potevo più tornare indietro, quindi proseguii: - Ho preso un’ insufficienza… mi pare di avere tutti i motivi di questo mondo per essere scocciato - risposi mantenendo basso il capo, come mio solito.

La professoressa raggiunse la cattedra come se non avessi parlato e mi rispose nel consueto modo: - Se tu avessi studiato di più…-

“Ora basta” furono le due parole che martellarono il mio cuore in quel decimo di secondo e, la loro forza fu tale da scollegare quel freno che mi ero imposto per tre lunghissimi anni.

Di scatto mi alzai, facendo leva sulle mani, tese dagli stessi nervi che nuovamente raddrizzarono la schiena e fecero sollevare il mio capo.

- Io ho studiato!- urlai - …ho studiato per più di sei ore, ho perso la serata e la nottata a studiare e questa stramaledetta verifica l'avrei saputa fare ad occhi chiusi, se solo ne avessi avuto il tempo, ma ogni volta lei me la strappa via prima che io riesca a finirla! -

Questo era solo un millesimo di tutto ciò che avrei voluto gridare in quel momento, erano le parole più confuse e sconclusionate che io potessi dire, ma non erano le parole a contare, ma il modo in cui le avevo proferite.

Con la schiena ritta, gli occhi rossi dal rancore, la voce chiara e vigorosa mi ero alzato.

Cercavo un urlare che esprimesse tutto ciò che avevo da dire, un urlo per convincere tutti che i torti che avevo subito non intendevo subirli mai più.

La professoressa mi rispose mantenendo il suo distacco:- Se hai studiato, allora non so che dirti – rispose spacciando quella insignificante frase per una risposta.

- Non dica nulla allora - conclusi io - … preferisco il silenzio.-

È assurdo, buffo e triste ripensare a ciò, ma i miei compagni ricordano tutti questo avvenimento.

Nelle loro menti non c’è il ricordo di un ragazzo che è rimasto in silenzio per tre anni, ma quello di uno che per un minuto ha avuto il coraggio di alzarsi in piedi e parlare.

Ho odiato i miei docenti per il loro menefreghismo e la superbia che li spingeva a non ascoltarmi, ma oggi so che non è in loro l’origine del male che ha distrutto la mia vita. L’ignoranza ha forgiato quegli anni terribili, dall’ignoranza dei miei professori sono nate quelle frasi assurde che mi sono state affibbiate e, purtroppo, quell’ignoranza esiste ancora. Io non urlai contro la mia professoressa, ma contro l’ingiustizia che lei non riusciva a vedere e capire.

Per questo motivo non odio i miei professori, perché non è colpa loro se nessuno gli ha mai detto che esiste la dislessia. Tutto ciò che rimprovero loro è di non avermi ascoltato, di non aver avuto l’umiltà di ammettere che anche un ragazzino delle scuole medie può intuire qualcosa che i docenti ignorano. Ciò che mi renderebbe veramente felice, sarebbe rincontrare questi miei vecchi professori e poter spiegare loro ciò che ora vi ho scritto.


[Tratto da Demone Bianco "Una storia di dislessia" 2007]


Questo simbolo che vedete emergere dallo sfondo scuro è l'emblema di quello che ho scritto.

è un cuore trafitto da una spada, simbolo di quella sofferenza profonda.

Sopra quella ferita si intrecciano strade, strade di altre persone che hanno in comune con me quella sofferenza che può diventare odio o opera.

Le ali che emergono dalla ferita sono quelle che mi spingono in alto e che mi permettono di raggiungere molte persone, sono il lato positivo del dolore la possibilità di trasformare in bene.

Sono il Gruppo Giovani e tutto ciò che di buono è nato da quel giorno in poi.


Ora per salutarvi e ringraziarvi voglio citare il racconto di una corsa che rappresenta quel momento di svolta in cui tutto cambia e voglio proprio che questo possa essere un augurio per tutti.



[Demone Bianco: LO SCATTO B/H1]


Per i ragazzi di cui mi occupavo io ero un grande, ma, per il mondo, restavo un piccolo studente che aveva ancora molto da dimostrare.

Dovevo lottare ogni giorno contro i voti da recuperare e gli argomenti spinosi, ma lo facevo con una nuova forza, perché la mia motivazione non era più ristretta ad una soddisfazione personale, ma derivava dalla

consapevolezza che i miei successi avrebbero donato speranza ai miei ragazzi.

Le mie mattinate iniziavano con una sveglia

strategica, impostata ai limiti delle possibilità umane, per consentirmi di dormire più a lungo possibile.

Avevo esattamente 5 minuti per: scendere le scale, percorrere la via traversa e prendere il pulmino che si fermava all'incrocio con la via principale.

Ho detto prendere? Scusatemi, intendevo perdere, perché, come avrete capito, non riuscivo mai ad essere alla fermata in tempo. Scendevo dalle scale sparato come un proiettile, mi aggrappavo al corrimano per effettuare la curva a U in velocità e, una volta uscito dalla porta, cominciava la corsa. Tre erano le cautele da tenere in conto:

1- Ogni rettilineo è un'occasione per controllare se hai dimenticato l'abbonamento del pulmino.

2- è sconsigliabile allacciare le scarpe in corsa.

3- se credi che dietro all'angolo che stai per superare non ci sia una simpatica vecchina... beh ti sbagli di grosso, ogni angolo ha la sua vecchietta.

Una volta raggiunto la stradina che conduce alla fermata, l'autobus arancione sfilava davanti ai miei occhi. In quel secondo, la crudeltà delle cose, vuole che siano due le linee che attraversano quella via e che, il tuo spirito positivo ti inviti a pensare che l'autobus sia l'altro, quello che porta dall'altra parte della città; ma trenta secondi dopo raggiungi la

fermata e hai giusto il tempo di chiedere: “era l'H1?” e ricevere la sconfortante risposta positiva.

Ricordo che, la prima volta che persi il pulmino, mi venne naturale prendere l'altra linea che percorreva tutta la via principale prima di svoltare dalla parte opposta. La linea “B” passava 40 secondi dopo e l'autista aveva il pedale facile, e riusciva sempre a raggiungere l'H1 prima del bivio.

Il mio autobus stava li davanti a meno di un metro di distanza. Io scendevo dalla B per prendere l'H1, ma quel lasso di tempo era troppo breve per raggiungere la parte anteriore e, di conseguenza, mi trovavo con le porte chiuse in faccia. Senza perdermi d'animo, partivo in scatto schivando passanti e lampioni e superando in salto gli scatoloni dell'edicola, infine raggiungevo la fermata successiva, tagliando la curva del semaforo che mi consentiva di arrivare prima del pulmino. In conclusione “Jack 1, pulmino 0”

E, per quanto riguarda il riscaldamento di educazione fisica, ho già dato. Ora, la domanda che ogni soggetto dotato di senno porrebbe è:

“Che stradiavolo centrano le gare con l'autobus con la dislessia?” la risposta è ovvia: “Niente, cosa volete che c'entri”,

ma sono sicuro che non vi accontentereste di una conclusione simile, quindi sarò costretto a svelarvi il motivo che mi ha spinto ad imprimere questo ricordo nella mia mente.

L'autobus è come la scuola: corre veloce, più veloce di te e, da piccolo, questa velocità ti coglie di sorpresa e l'autobus ti passa davanti, ti sfugge di mano.

In quel caso puoi arrenderti e aspettare quello successivo o continuare a correre.

La B, l'autobus dietro, è la strada alternativa che noi dislessici troviamo per raggiungere la velocità degli altri e, lo scatto B/H1, è la nostra più grande vittoria.

In quel tratto, gli altri, fanno i conti con il semaforo e con l'impossibilità di tagliare la curva, fanno i conti con i propri limiti. In quel momento la tua vera forza si manifesta e avviene il sorpasso.

Si parla spesso di grandi inventori dislessici e di scienziati che hanno visto dove altri non potevano;

beh, queste sono persone che hanno fatto quello scatto, mentre tutti gli altri erano bloccati al semaforo rosso dei limiti.


[Tratto da Demone Bianco "Una storia di dislessia"]