Le industrie

Per quel che riguarda l'industria litica l’evidenza attestata per il sito di Isernia La Pineta fa ben supporre che le modalità di approvvigionamento della materia prima siano strettamente connesse con la disponibilità locale della stessa e con una risposta contingente ad un determinato contesto ambientale. La materia prima è caratterizzata da due differenti litotipi, la selce e il calcare. Le caratteristiche della materia prima utilizzata sono state desunte sulla base di rilevamenti effettuati sul territorio al fine di individuare le possibili fonti di reperimento della stessa, poste sia nelle immediate vicinanze del sito che in aree meno prossime, nonché per determinare le stesse peculiarità mineralogiche, petrografiche e geochimiche da essa presentate (Sozzi et al. 1994). Uno degli affioramenti di materia prima evidenziati, dove è possibile recuperare ancora oggi liste di selce in deposizione primaria, è la formazione dei “Diaspri varicolori”, posta nelle vicinanze del borgo di Pesche, a qualche chilometro da Isernia. La selce, infatti, ha origine dalla silicizzazione di calcari originari in buona parte clastici o bioclastici, a grana più o meno grossolana, di cui conserva la tessitura “brecciata”, e ciò spiega la presenza di numerosi supporti ottenuti dall’utilizzazione di selce micro o macrobrecciata, e la tessitura a grana fine con cui è da connettere la presenza di supporti ottenuti da selce cosiddetta afanitica, costituita da massa criptocristallina, priva di qualsiasi elemento strutturale macroscopico. Sia i supporti in selce micro o macrobrecciata che quelli in selce afanitica presentano quasi sempre dei piani o delle superfici di frattura preferenziale che hanno condizionato anche l’attività di scheggiatura. La materia prima è rappresentata essenzialmente da lastrine e placchette di dimensioni ridotte di selce e blocchi di calcare di medie e grandi dimensioni. Le dimensioni dei reperti sono strettamente connesse al tipo di materia prima: i reperti in calcare sono decisamente più grandi di quelli in selce e risultano ricavati per lo più da supporti che si discostano decisamente dai ciottoli veri e propri, ma che ricordano frammenti poliedrici di materiali variamente fluitati. Le caratteristiche riscontrate sulla materia prima, infatti, hanno sicuramente influito sui prodotti e sulle modalità di ottenimento degli stessi, in quanto hanno agito in maniera diretta e non sulle tecniche di scheggiatura adottate, determinando il forte ridimensionamento del blocco di materia prima prescelto, la produzione di supporti di piccole dimensioni dalle caratteristiche morfologiche non sempre identificabili, la grande frammentazione dei reperti. Ad Isernia La Pineta l’ipotesi che la tecnica bipolare su incudine possa essere stata usata per la produzione dei manufatti in selce è stata formulata sulla base di prove di riproduzione sperimentale effettuate nei mesi di giugno-settembre 1993 (Crovetto et al. 1994). La sperimentazione, infatti, ha permesso di verificare in maniera puntuale come, attraverso l’utilizzo diversificato di determinate tecniche di scheggiatura, si potesse giungere alla riproduzione esatta delle morfologie di manufatti rinvenute sulle superfici archeologiche indagate. In questo modo la sperimentazione ha confermato il ruolo dominante della tecnica bipolare nell’ottenimento dei manufatti, evidenziando, tuttavia, che quest’ultima è coesistita con altre tecniche, come la percussione su incudine e la percussione diretta con percussore duro mobile. In realtà, l’impiego spesso incrociato delle diverse tecniche sembra essere dipeso essenzialmente dalla morfologia e dalle dimensioni di partenza dei nuclei, risultato del condizionamento delle caratteristiche della materia prima già menzionate. Nello specifico, per quanto riguarda la selce, le lastrine di forma parallelepipeda con gli angoli più o meno arrotondati sembrano aver rappresentato gli elementi di partenza su cui applicare la tecnica bipolare; invece, i blocchi o le lastrine di dimensioni maggiori, con piani di frattura preferenziali, sembrano aver costituito la base per l’utilizzo della tecnica su incudine o della tecnica di percussione diretta con percussore duro mobile, senza però escludere l’impiego della tecnica bipolare con percussore duro di maggiori dimensioni al fine di favorire la rottura del nucleo secondo piani di fissilità naturali e di utilizzare le lastrine e le schegge derivate (Crovetto et al. 1994). L’utilizzo della tecnica bipolare, in questo caso, spiega le caratteristiche singolari riscontrate sui pezzi analizzati, in quanto derivanti dalle interferenze che si creano tra l’onda d’urto del colpo e quella di ritorno del contraccolpo. La stessa tecnica è associata all’intensa frammentazione riscontrata di tutti gli elementi del débitage finalizzata al più radicale sfruttamento possibile della materia prima (Ferrari et al. 1991). Dal punto di vista tipologico, l’industria litica in selce è caratterizzata da una presenza dominante di schegge ricavate dallo sfruttamento di supporti nucleiformi o da nuclei su scheggia che risultano variamente interessati da piani di percussione non orientabili, in quanto non soggetti a preparazioni e ad interventi predeterminati. In genere, i residui di nuclei e i nuclei su scheggia presentano sulle loro superfici degli ampi distacchi ottenuti in modo apparentemente casuale o addirittura dalla naturale rottura della pietra, come risultato della presenza di piani di frattura interni. L’isolata presenza di tipi particolari di nuclei dalla forma piramidale e subpiramidale sottolinea il fatto che sperimentalmente queste tipologie, come altre, sono del tutto casuali e sono il risultato finale dello sfruttamento intenso di piccole lastrine di selce, o frammenti non determinabili, lavorate con percussione bipolare su incudine. Le schegge si caratterizzano per una certa prevalenza dei tipi piatti su quelli carenati; i supporti carenati sono associati per lo più a quelli che vengono definiti i residui o frammenti di nuclei o più propriamente ai nuclei su scheggia dalla sezione triangolare o diedrica. La maggior parte delle schegge analizzate sono perfettamente riconoscibili nei loro caratteri morfologici, grazie alla materia prima costituita da selce afanitica. Più difficilmente identificabili sono, invece, i caratteri delle schegge derivate da selce micro o macrobrecciata che, a volte, sono mancanti sia di talloni che di bulbi. I talloni osservabili si presentano regolarmente lisci, con un’inclinazione accentuata sulla faccia ventrale del pezzo. Gli altri tipi di talloni, seppur presenti, non hanno significative incidenze. In particolare i lineari e i puntiformi sono connessi con una categoria di manufatti dove non è presente una porzione, seppur minuta, dell’originario piano di percussione. In questo caso, essi costituiscono un prodotto specifico dell’attività di scheggiatura bipolare, non connesso con una precisa volontà di realizzare particolari morfologie. I bulbi sono generalmente singoli e poco sviluppati, caratteristica che si giustifica, sulla base della sperimentazione, con l’impiego nella scheggiatura della selce della tecnica di distacco bipolare. Un gruppo a parte, all’interno dell’insieme dei reperti litici studiati, è stato indicato con la denominazione di debris e si riferirebbe a tutti quegli elementi identificabili come prodotto finale dell’attività di scheggiatura, ossia gli scarti della lavorazione. La motivazione per cui è stata conferita loro una denominazione singolare, non cumulabile con le altre definizioni del tipo dei nuclei, si trova nel fatto che essi davvero sono il risultato ultimo e puramente casuale dell’intenso sfruttamento del supporto di materia prima (Minelli et al. 2004). L’ulteriore analisi dimensionale dei pezzi ha altresì confermato la sostanziale omogeneità che corre tra le industrie del I e quelle del II settore di scavo. Infatti, si è riscontrata un’analoga distribuzione delle dimensioni della lunghezza e della larghezza: le lunghezze e le larghezze massime dei reperti dell’archeosuperficie 3a del I settore di scavo si aggirano intorno ai 20-29 mm, così come quelle calcolate per i reperti dell’archeosuperficie 3a del II settore di scavo sono di 20-40 mm (Ferrari et al. 1991). Ugualmente, per quanto riguarda gli spessori degli strumenti si è valutato che la tendenza all’ottenimento di prodotti carenati si bilancia con la presenza di forme piatte e allungate, lo stesso ben rappresentate. Il fenomeno della presenza dominante di supporti di piccole dimensioni è certamente imputabile alle caratteristiche geologiche della selce autoctona, che sono tali da renderla difficilmente sfruttabile in quanto intimamente compromessa dalla presenza di piani di fissilità che ne inficiano la possibilità di produrre supporti di dimensioni medio-grandi (Longo et al. 1997). I manufatti in calcare sono stati rinvenuti soltanto nel I settore di scavo. Per quel che riguarda lo stato fisico, i reperti presentano spesso le superfici alterate da fenomeni di dissoluzione. Questo fenomeno ha agito maggiormente sui materiali meno compatti o “brecciati” o addirittura “cariati” e comunque non in modo omogeneo su tutta l’area delle archeosuperfici esplorate. La lavorazione è estremamente limitata se paragonata a quella della selce: è infatti elevato il numero dei reperti caratterizzati da un solo o da un numero ridotto di distacchi. I choppers unifacciali sono molto numerosi, rispetto ai bifacciali, la cui presenza è limitata e forse da relazionare allo scarso sfruttamento dei supporti calcarei. Sono presenti alcuni rabots e galets sommermairement aménagés. Pochi sono i nuclei e generalmente difficili da ascrivere ad un sottotipo ben preciso, mentre piuttosto numerose si presentano le schegge. Da un punto di vista dimensionale, i manufatti in calcare sono molto più grandi rispetto a quelli in selce. La loro variabilità dimensionale è notevole, senza sostanziali concentrazioni attorno alle medie di lunghezza, larghezza e spessore. Questo aspetto ricalca le dimensioni del calcare non scheggiato e testimonia una mancanza di scelta della forma e delle dimensioni dei ciottoli lavorati (Crovetto et al. 1994). Diverse analisi traceologiche sui reperti litici di Isernia La Pineta sono state effettuate a partire dagli anni ’90 (Longo et al. 2001). Il campione di manufatti su cui si è focalizzato inizialmente lo studio proviene dal II settore di scavo e dall’archeosuperficie 3a del I settore di scavo (Longo et al. 1997). Tutti i reperti campionati hanno presentato uno stato di conservazione piuttosto fresco, come è documentato dalla presenza di stacchi incipienti, dall’estrema freschezza delle costolature e dei margini potenzialmente attivi dei reperti e dall’assenza di background polish, quali lustrature diffuse dovute a rimaneggiamento idrico o di altro tipo. La maggior parte dei manufatti utilizzati presenta margini attivi costituiti dal solo tagliente, talvolta molto affilato, che è stato rapidamente ravvivato attraverso il distacco di microschegge tipo snap e step fractures che asportano parte del bordo del manufatto, modificandolo fino alla sua completa distruzione ed alla conseguente impossibilità di proseguire il suo utilizzo. In effetti, queste microsbrecciature, derivando proprio dall’estremo impiego del reperto, possono essere identificate come una sorta di ritocco definito di utilizzazione. Tracce di politure sono scarsamente rappresentate sui manufatti analizzati. Il loro scarso grado di sviluppo è associato sicuramente alla durata limitata dei tempi di impiego dei manufatti che, come è stato dimostrato sperimentalmente, non superavano mediamente i 10-15 minuti di lavorazione, nonché al tipo di materiale lavorato che, essendo costituito largamente da masse carnee piuttosto morbide, determinavano il continuo ravvivamento del margine attivo sotto forma di asportazione di parti più o meno importanti dello stesso e quindi probabilmente anche l’asportazione di aree su cui potevano essersi impostate eventualmente le politure. Solitamente, esse interessavano la parte sommitale della microtopografia del margine attivo. La loro scarsa rappresentatività può esser legata anche al fatto che di solito i margini attivi si presentano piuttosto lunghi e possono essere di conseguenza stati utilizzati sequenzialmente man mano che l’area utilizzata perdeva di efficacia; in questo modo si spiegherebbe il basso grado di sviluppo delle politure ed il loro distribuirsi lungo tutto il margine del tagliente. Questa osservazione giustificherebbe altresì la presenza di più margini attivi su un solo manufatto, a testimonianza dell’evidente esigenza del gruppo umano che li ha utilizzati di ricercare margini taglienti sempre più efficaci. Inoltre, è stata riscontrata sui reperti analizzati la presenza di strie a fondo liscio, strette e distribuite in fasci paralleli, in genere angolati di circa 30°- 40° rispetto al margine attivo, che suggeriscono movimenti subparalleli al tagliente, associati ad un tipo di attività orientata essenzialmente verso il taglio, l’incisione, la resezione e quindi al recupero prioritario di masse carnee. Dal punto di vista della struttura morfopotenziale dei reperti si è notato che i supporti costantemente utilizzati per la realizzazione delle attività sopra citate si inseriscono in un raggruppamento dimensionale che mediamente copre i valori che vanno dai 20 ai 30 mm di lunghezza e dagli 11 ai 32 mm di larghezza, con qualche esempio isolato che raggiunge anche i 50 mm di lunghezza; le morfologie attestate risultano per lo più di forma triangolare, trapezoidale ed in minor misura quadrangolare e rettangolare. Le osservazioni ed i risultati ottenuti da questo studio hanno ricevuto un’ulteriore conferma dall’analisi morfo-funzionale effettuata su un numero ridotto di pezzi provenienti sempre dal quadrante 2 dell’archeosuperficie 3a del I settore di scavo (Vergès 2002). I pezzi considerati, a parte un unico esempio isolato, non hanno rilevato tracce sulle loro superfici di modificazioni derivanti da agenti postdeposizionali. Diversamente, sui reperti provenienti dall’archeosuperficie 3c del I settore il grado di erosione appare più incisivo in quanto avrebbe determinato la scomparsa di eventuali tracce d’uso presenti sulle superfici, mentre per i reperti del II settore tale alterazione sembra essere stata più blanda in modo da non determinare la scomparsa delle tracce d’uso, quanto piuttosto una leggera modificazione morfologica. È da segnalare in particolar modo che sui reperti del quadrante 2 dell’archeosuperficie 3a sono state individuate sia modificazioni legate all’uso degli stessi sia modificazioni di natura prettamente tecnica; queste ultime sono state associate essenzialmente all’utilizzo della tecnica bipolare su incudine che ha prodotto delle tracce visibili anche macroscopicamente ed in alcuni casi modificazioni interessanti le facce opposte del pezzo appoggiato sull’incudine; su una di esse la traccia dell’impatto del percussore, sull’altra una serie di sbrecciature a forma di coppelle derivanti dal contraccolpo provocato dall’incudine. Per quanto riguarda più nello specifico le tracce d’uso individuate, esse interessano per gran parte tutti reperti analizzati, suddivisi nei rispettivi livelli di rinvenimento e sono generalmente connesse con un intervento che implica la lavorazione esclusiva di biomasse animali e quindi di azioni connesse con il taglio, l’incisione e la resezione delle masse carnee.