I resti faunistici rappresentano i reperti più numerosi del giacimento di Isernia La Pineta. A parte i grandi mammiferi, sono stati recuperati diversi resti di pesci ossei, anfibi, rettili e uccelli, in particolare vertebre di pesci dulcicoli, resti scheletrici di batraci, frammenti di carapace di tartaruga palustre (Emys orbicularis), alcuni resti attribuibili al germano reale (Anas platyrhynchos), al tuffetto (Tachybaptus ruficollis) e ad un passeriforme (Tonon 1989), ma soprattutto una buona quantità di resti di micrommamiferi di grande utilità per ulteriori chiarimenti nella definizione della biocronologia del Pleistocene medio (Sala 1983). L’elevata frequenza dei reperti per alcune specie di macromammiferi presenti nel giacimento ha consentito uno studio approfondito delle stesse e la pubblicazione di specifici lavori monografici per il bisonte ed il rinoceronte (Sala & Fortelius 1993) ed i cervidi (Abbazzi & Masini 1997) mentre il rinvenimento di un dente superiore di felino appartenente alla sottospecie più antica di leone (Panthera leo fossilis) ha contribuito ad accrescere le conoscenze riguardo questa specie estinta (Sala 1990). Gli Insectivora (Talpidae, Soricidae e Crocidura) sono presenti con frammenti di omero, radio e ulna (Talpidae), e con resti mandibolari (Soricidae e Crocidura). I Carnivora (Ursus deningeri, Panthera leo fossilis e Hyaena sp.) sono rappresentati da numerosi denti isolati, alcuni frammenti di palato e di mandibola, poche epifisi di ossa lunghe, poche ossa basipodiali e numerose metapodiali e acropodiali riferibili all’orso, mentre il leone è documentato, come si è detto, da un significativo dente superiore. L’elefante (Elephas antiquus) è presente con zanne, denti isolati, vertebre, costole, scapole e ossa lunghe frammentate, ossa carpali, tarsali, metapodiali e falangi appartenenti ad individui di varie età. Al rinoceronte (Stephanorhinus hundsheimensis) sono stati attribuiti soprattutto resti cranici e dentari, vertebre, bacini, frammenti di ossa lunghe e ossa autopodiali; all’ippopotamo (Hippopotamus cf. antiquus), invece, appartengono solo pochi resti dentari, tra cui incisivi, giugali frammentati e qualche canino rappresentativo della specie identificata. Anche il cinghiale (Sus scrofa) è rappresentato da soli resti dentari, mentre per la famiglia dei Cervidae, il megacero (Megaceroides solilhacus) è presente con frammenti di palco, di cui la maggior parte di caduta, resti dentari e ossa autopodiali; il cervo (Cervus elaphus cf. acoronatus) con rari frammenti di palco e soprattutto resti dentari e ossa autopodiali; il daino (Dama dama cf. clactoniana), indicato da un numero ridotto di reperti tra cui denti isolati e frammenti di palco, di omero e di tibia; il capriolo (Capreolus sp.) analogamente con denti e qualche rara falange. Il bisonte (Bison schoetensacki) è di certo la specie più caratteristica tra le faune del giacimento con numerosi resti cranici, insieme ai denti isolati ed alle ossa autopodiali, mentre le vertebre, le costole e le ossa lunghe, queste ultime in gran parte epifisi, sono in numero relativamente ridotto. Il thar (Hemitragus cf. bonali), invece, è presente solo con tre denti, due dei quali frammentari. I Leporidae (Cf. Oryctolagus) e i Microtinae (Pliomys episcopalis, Pliomys lenki, Clethrionomys sp., Microtus aff. arvalis, Microtus brecciensis, Microtus gr. multiplex-subterraneus, cf. Arvicola cantianus) sono indicati con resti di denti a diversi stadi di usura. Proprio l’associazione a micromammiferi, dominata da forme appartenenti a Microtus (Terricola) gr. multuplex-subterraneus e Microtus aff. arvalis, abitatrici di zone aperte legate ad un ambiente umido, suggerisce un ambiente più temperato di quello attuale. Ulteriori indicazioni possono essere desunte dall’associazione faunistica a grandi mammiferi che, sebbene sia il frutto di una selezione operata dall’uomo sui resti di macellazione e quindi non corrisponda alla reale composizione degli animali presenti sul territorio, comunque ne rispecchia la presenza. I reperti più frequenti appartengono soprattutto al bisonte e al rinoceronte seguiti da quelli di elefante e orso, mentre gli altri animali (ippopotami, cinghiali, cervidi, thar e leone) sono presenti con pochi resti. L’ambiente ideale per questa associazione faunistica è costituito da una steppa o prateria arborata dove negli spazi aperti e pianeggianti ricchi di erbacee potevano pascolare i grossi ungulati e nelle ristrette zone a copertura arborea, nei pressi del fiume, vi trovavano rifugio le specie forestali tipo cervidi e cinghiali, mentre il thar doveva occupare i versanti montuosi. Il rinvenimento di un primate, la bertuccia (Macaca sylvanus), nei livelli più recenti (3s1–9) fa supporre una evoluzione del clima verso condizioni più calde e interglaciali (Sala 2006)[1]. Questa ipotesi è confermata anche dalla presenza del castoro che è legato ad aree riparie più boschive. Si tratterebbe quindi di un ambiente meno fresco e arido del precedente. Per quanto riguarda la fauna degli invertebrati, un’analisi della malacofauna continentale contenuta nelle argille sottostanti il travertino (Unità 5) ha permesso di determinare 6 specie (Esu 1981): Lymanaea trunculata, Vertigo pygmaea, V. Moulinsiana, Pupilla muscorum, Vallonia pulchella e Succinea oblonga. Le specie citate sono ugualmente rappresentative di un ambiente aperto, senza vegetazione arborea, prossimo ad una zona paludosa che favorisce la messa in posto di un clima fresco e umido. La base dei travertini ha restituito anche degli opercoli di Bytinia leachi e delle impronte di piccoli gasteropodi del genere Bitynia e Planorbis, così come degli ostracodi di acqua dolce e qualche ogone di Caracee. Questi cambiamenti nella composizione della malacofauna, tra le argille ed i travertini, mostrano l’instaurarsi di condizioni tipicamente lacustri. L’abbondanza e le caratteristiche degli insiemi faunistici provenienti dalle 3 archeosuperfici identificate nel I settore di scavo hanno consentito uno studio approfondito finalizzato alla comprensione delle attività di sfruttamento delle carcasse animali esercitate dai gruppi umani che hanno frequentato il sito di Isernia La Pineta durante la fine del Pleistocene medio (Thun Hohenstein et al. 2002). Le principali attività documentate sono la macellazione e soprattutto la fratturazione intenzionale delle ossa lunghe, dei crani e della mandibola. Per quanto riguarda il riconoscimento delle tracce lasciate durante le varie fasi della macellazione (scuoiamento, depezzamento, eviscerazione, disarticolazione), lo studio è reso difficoltoso dallo stato di conservazione dei reperti: infatti, l’analisi tafonomica (Anconetani et al. 1996) delle superfici ossee ha messo in luce che in molti casi i reperti, pur apparendo relativamente ben conservati a livello macroscopico, mostrano alterazioni superficiali di varia natura ed intensità, quali erosioni, esfoliazioni ed abrasioni che hanno impedito l’osservazione finalizzata al riconoscimento di eventuali tracce legate ad attività antropiche o di altra natura. Questo tipo di analisi è stata condotta a più riprese (Thun Hohenstein et al. 2002)[1] ed è tuttora in corso. Le superfici ossee sono state osservate al microscopio ed allo stereomicroscopio, consentendo una selezione di quei reperti che portavano alterazioni di superfici conservate per effettuare analisi approfondite al microscopio a scansione elettronica (SEM) e rilevare la presenza delle microcaratteristiche che consentono l’identificazione della natura delle differenti tracce. In particolare sono state identificate strie di macellazione che si presentano appaiate e subparallele tra loro, spesso con un orientamento trasversale rispetto all’asse longitudinale delle ossa lunghe. Esse sono localizzate in aree anatomiche compatibili con azioni di macellazione (es. inserzioni tendinee o in prossimità delle epifisi), dove vengono esercitate azioni più insistite (recupero legamenti, disarticolazione, recupero massa carnea). Le microcaratteristiche evidenziabili al SEM sono: punto d'ingresso lineare dello strumento litico e a coda di cometa nel punto d’uscita, la sezione del solco a “V” e la presenza di microstrie all’interno del solco principale. L’attività di fratturazione intenzionale risulta ben attestata e conservata in tutte e tre le archeosuperfici ma in particolare nella 3a. Lo studio ha evidenziato che i crani, le mandibole e le ossa lunghe si presentano sistematicamente e ripetitivamente fratturati secondo piani che suggeriscono un’attività di fratturazione su osso fresco; quest’attività è stata riscontrata soprattutto sui resti di bisonte ed in minor misura di rinoceronte, orso ed elefante. Le tracce diagnostiche di fratturazione intenzionale evidenti sui reperti sono: incavo di percussione, costituito da una porzione dell’area di sfondamento che si origina nel punto in cui viene sferzato il colpo di percussione; cono di percussione, che è il frammento prodotto nel punto di percussione lasciando sul pezzo un negativo del distacco equivalente; distacco in faccia midollare, che è associato all’area d’impatto e rappresenta il negativo di uno o più coni di percussione; distacco in faccia corticale, che si associa raramente all’area di impatto (in qualche caso è associato ad una percussione lanciata) e sembrerebbe imputabile al distacco di ampie schegge o di veri e propri piani di frattura ad angolazione quasi piatta.